Editoriale di “Altraparola” – numero 4, dicembre 2020 

Editoriale di “Altraparola” – numero 4, dicembre 2020 

10 Gennaio 2021 Off di Francesco Biagi

Questo numero della rivista presenta riflessioni diverse e non univoche sulla situazione di emergenza sanitaria e sociale che stiamo vivendo. Non può essere compito di questo editoriale ricondurle a un filo unitario, si può però indicare il quadro di partenza che ha indotto la redazione a formulare il tema e a proporlo agli autori dei saggi che abbiamo raccolto.

Punto di partenza della nostra riflessione è stato il concetto di apocalisse culturale di Ernesto De Martino. Un’apocalisse culturale si verifica quando, in seguito a un trauma storico profondo (un’epidemia, una guerra, un’aggressione coloniale, una crisi economica sistemica, una catastrofe ecologica) l’ordine simbolico con cui abitualmente riusciamo a orientarci nella realtà ambiente e nella vita quotidiana viene a essere sospeso, diventa irriconoscibile e ci lascia esposti al caos politico e psichico. Si verifica allora quella che sempre Ernesto De Martino ha definito una  crisi della presenza. «Tutti gli oggetti sembrano retrocedere in remote lontananze…Essi sentono di essere sospesi lontani da ogni realtà, in spazi del mondo orribilmente soli. Tutto è come un sogno». Questa profonda malinconia sembra derivare da una colpa immotivabile, una colpa “radicale”, che esprime il crollo dell’ethos culturale, del progetto che integra le situazioni all’ordine del mondo.

Il collasso dell’ordine simbolico, che struttura l’essere-nel-mondo, priva di senso la più semplice percezione del reale, viene meno la tessitura che lo articola ed è attiva nella più piccola piega della vita quotidiana  e della forma di vita. Con la crisi dell’ordine simbolico si sgretola anche quel mondo oggettivo, che esso – col suo reticolo di intenzioni – aveva reso possibile. Non c’è articolazione dello spazio, né ritmica del tempo, che non abbia la sua origine in un rapporto determinato tra cultura e natura; né esiste mai un simile rapporto, se non si compone ed esprime nell’ordine simbolico e nelle forme originanti di una cultura. L’oggettivo in quanto tale – privato della sua interazione simbolica – diviene mera spettralità, caos ottenebrato di potenze inconsce e indecifrate.

De Martino descrive tre forme correlate e distinte di crisi della presenza: è un momento della formazione della coscienza, nella storia dell’umanità come in quella dell’individuo, e da questo punto di vista costituisce l’esperienza cruciale della fase magica della cultura; è la destrutturazione radicale di un ordine simbolico, nel momento in cui esso subisce un’irruzione insopportabile da parte di un Altro esterno (è il caso della colonizzazione); è il pericolo che minaccia una cultura dal suo interno, per l’inefficacia operativa del suo sistema simbolico e per il riemergere dei suoi conflitti e dei suoi traumi irrisolti (è quello che noi stiamo vivendo ed è la soglia a cui ci siamo avvicinati in più occasioni nel corso della storia del Novecento). Nulla infatti può escludere una regressione psichica e culturale, che dissolva la coscienza, facendo precipitare ogni distinzione di soggetto e oggetto, di interno e esterno. Il rischio radicale di non-esserci accompagna ogni fase dell’evoluzione individuale e collettiva. La coscienza storica evoluta è una luce oscillante, minacciata dal soffio dell’arcaico e da una foresta animata di ombre.

Nella crisi della presenza si perde quel che De Martino chiamava ethos del trascendimento: il quale è l’atto di orientamento e di costituzione di una forma di vita, che rende possibile lo scambio non distruttivo tra natura e cultura. Così, nell’esaltazione capitalistica dello sviluppo, l’ethos del trascendimento sopravvive in forma sfigurata: è l’astratto movimento del capitale, che supera ogni qualità della finitezza vivente. Nessuna materia, che non debba essere distrutta e lavorata; nessuna cultura altra, che non debba essere decostruita e assimilata; nessuna merce, che non debba essere sostituita da un’altra più «nuova»; nessun capitale, che non debba continuamente incrementare e oltrepassare se stesso. Il capitale stesso è una macchina astratta e formale di trascendimento della vita, mentre i singoli non posseggono più i tratti positivi dell’ethos: l’apertura, la possibilità, il progetto. Nel 900, i valori della cultura occidentale invertono il loro significato: la loro potenza trapassa alla forma invertita, astratta, feticizzata del capitale.

Il capitalismo, che ha compiuto la più gigantesca opera di dominio e trascendimento della vita naturale e biologica, che mai si sia vista nella storia, alla fine si contrappone al singolo e lo espropria della sua attività simbolica e culturale. Per il singolo, nelle fasi critiche della sua vita – come la morte o la sessualità – si riapre il rischio di una crisi radicale della presenza. Trovandosi di fronte estraniata – come potenza nemica – la sua stessa funzione valorizzante, il singolo non possiede più le forme simboliche, religiose e rituali, che potrebbero consentirgli di elaborare e superare la crisi. L’ethos del trascendimento, nella sua realizzazione capitalistica, si inverte in una minaccia per l’immediatezza stessa del vivente, nel pericolo di oltrepassare la vita stessa. L’uomo è da un lato patologicamente immobile di fronte alla macchina astratta, che supera continuamente la sua vita e il suo corpo, senza lasciare a lui stesso nessuna forza propria; e d’altra parte è infinitamente coinvolto nel divenire incessante e mutevole delle merci spettacolari, dove  opera un trascendimento illusorio, deviato su forme evanescenti. Così sperimenta un ethos estraniato, come altro da sé, e non più come forza intima del suo agire; come potenza che lo nega, invece che come la sua stessa potenza.

L’ethos del trascendimento si riduce al trapasso continuo di ogni qualità sensibile nei fantasmi della merce e dello spettacolo. De Martino, che – sul piano storico – ha continuato a pensare all’ethos del trascendimento in termini positivi, ha però individuato sul piano psicopatologico il suo possibile snaturamento: da un lato, la crisi della presenza si esprime nell’incapacità di trascendere il dato, nel «conato protettivo di ridurre il divenire all’essere»; ma d’altro lato, si configura anche un cattivo trascendimento, un trascendimento a vuoto e apparente. Il mondo oggettuale sembra allora travagliato da una sorta di frenesia del mutamento, che però manca di finalità e di orientamento. La crisi della presenza si manifesta in due vissuti apparentemente antinomici, come la malinconia e la mania euforica, l’immobilità pietrificata – e il mutamento coattivo di ogni stato: «…Nel secondo caso la crisi del trascendimento dà luogo al trascendere vuoto che in realtà sprigiona la vitalità individuale che non va oltre se stessa…».

Da un lato, il mondo assume l’immobilità glaciale della reificazione, ogni esistenza si riduce a cosa, ogni corpo vivente si assottiglia in modo spettrale: «Il vissuto dell’universo in agonia assume anche la forma dell’universo già morto…»; «Gli enti mondani si irrigidiscono, si artificializzano, i loro contorni diventano troppo definitivi, senza possibile “oltre”…». Tuttavia, questo aspetto astratto e reificato dell’oggettività non esclude un movimento euforico, incessante: «…Oppure la consistenza di questi enti si affloscia e i loro limiti diventano troppo molli, come se il mondo diventasse di gomma. Oppure gli enti sono travagliati da un vuoto “oltre”, come forza maligna di dissoluzione…Le cose si scaricano le une nelle altre, diventano onniallusive, vanno oltre in modo irrelato».

Una vita astratta e disseccata si coniuga a un movimento di apparenze, che simulano la presenza dissolta, ne occultano il non essere e il vuoto. Nell’universo di questa crisi di presenza (e così nella chiacchiera, nello spettacolo, nella fantasmagoria delle merci), l’andar oltre è un semplice venir meno, e la “nuova” apparenza ricade nel nulla come la precedente. Certo, in questa modalità novecentesca della crisi si riattualizza un’esperienza arcaica; io sento la mia labilità e quella degli oggetti in modo paragonabile a quello  con cui il primitivo sente accorciarsi le giornate prima del solstizio d’inverno e teme che la luce svanisca per sempre dal mondo: ma questo timore remoto lo vivo ora di fronte al trasformarsi dei legami sociali in simulacri incorporei. La presenza si dissolve nell’immaterialità astratta, non più nella materialità della natura. La situazione è chiusa, destinata, intrascendibile, e al contempo agitata da un vuoto continuo trapasso; questo psudotrascendimento non ha mai i caratteri della decisione, ma è passivo, avviene e si fa come estraneo. Come nelle coazioni a ripetere descritte da Freud, la situazione traumatica si ripete senza soluzione. Varia bensì la forma o l’apparenza della situazione, ma non la sua traumaticità costitutiva.

L’ethos nato dalla necessità di oltrepassare la natura prima, che ha dominato la storia della cultura occidentale, si rivolge così contro se stesso; il trascendimento andrebbe invece rivolto verso ciò che oggi costituisce la minaccia reale: e cioè verso il sistema tecno-economico che produce la dissoluzione della presenza e – insieme – della natura. Il pathos incentrato sul superamento delle potenze naturali dovrebbe lasciare il posto al tentativo di salvarle nella loro qualità irripetibile, nella loro singolarità e unicità, in un nuovo patto di coesistenza con la cultura. La situazione di emergenza che stiamo vivendo non si può spiegare soltanto con la perversità dei politici che ci governano, con l’assurdità del sistema economico in cui viviamo, e neanche con le forme di governo della vita che abbiamo conosciuto fino alla fine del Novecento (benché tutto questo sia pur sempre tristemente attuale): siamo di fronte a un dissesto e a un disordine reattivo della natura, provocato dalla crisi sistemica del capitale e della sua concezione della tecnica. Qualcosa dunque di così radicale e profondo da minacciare il nostro ordine simbolico nelle sue stesse fondamenta. Come ebbe a dire Walter Benjamin in uno dei momenti più drammatici della storia del Novecento, «prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata».

 

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