Soggetti, solo soggetti. Un dialogo
di Daniele Balicco e Robert Mercurio
[Nel dialogo verrà utilizzata la lettera B per gli interventi di Daniele Balicco, la lettera M per quelli di Robert Mercurio]
B.
Caro Bob, per iniziare questo nostro dialogo “socratico” sulla pandemia, partirei da una constatazione semplice: capire cosa è “realmente” successo in questi ultimi mesi è ancora impossibile. Non potendo analizzare la rete eterogenea delle cause – che mi pare restino e, temo, per molti anni resteranno per lo più oscure – proviamo almeno ad avvicinare gli effetti. Mi interesserebbe soprattutto provare a decifrare insieme l’orizzonte simbolico nuovo che si sta progressivamente configurando davanti ai nostri occhi; o forse sarebbe meglio dire, soprattutto nel rivolgersi ad uno studioso dell’inconscio come te, davanti ai nostri sogni.
M.
Penso che tu abbia ragione e sono intimamente persuaso che il gesto socratico, il «sapere di non sapere», rappresenti oggi l’unico punto di partenza possibile di una riflessione adulta sulla nostra condizione attuale. Potremmo anche sostenere che l’eccezionalità di quanto stiamo vivendo stia proprio nel fatto che non riusciamo a capirne quasi nulla; soprattutto non riusciamo a immaginare le conseguenze, né tantomeno l’arco temporale lungo cui questa pandemia si protrarrà. Il comportamento del coronavirus sembra sfuggire ad ogni presa: in qualche modo, potremmo sostenere che è sempre più “mercuriale”. Quando riusciamo a capirne qualcosa, fa una delle sue mutazioni o si comporta frustrando le nostre aspettative. In un primo momento sembrava esserci una corrispondenza abbastanza certa fra inquinamento e densità di contagio che andava a giustificare l’altissimo numero di contagi in Lombardia. Poi, qualche settimana fa, la percentuale più alta di contagi per numero di popolazione lo abbiamo trovato in Valle d’Aosta! Oppure pensa alla teoria dell’immunità di gregge che ha sposato in un primo momento Boris Johnson e che Trump continua a predicare; e che tutti riconoscevano come un approccio terribilmente crudele verso gli anziani e verso i più deboli. In realtà, sembra che comunque non funzioni dal momento che ora l’immunità pare non durare più di quattro mesi. Il Mercurius degli alchimisti si comportava così: frustrando ogni tentativo di dargli un nome o una descrizione. Come spirito dell’inconscio non poteva essere rinchiuso nelle nostre categorie mentali. L’altro giorno una mia paziente mi diceva di non aver mai trovato nella sua vita un’altra persona che fosse per lei anche un valido contenitore per i suoi pensieri e per i suoi sentimenti. Mentre parlava, pensavo al fatto che noi oggi ci troviamo, come collettività, nella stessa identica condizione. Dalla piccola fenomenologia che posso tracciare, sembra infatti che l’inconscio personale, e forse – più in generale – quello collettivo, sia sempre alla ricerca di un’ipotesi di senso. Quest’ultima ipotesi andrebbe considerata proprio come quel contenimento che l’inconscio personale – e probabilmente anche quello collettivo – cerca in continuazione; e che spetta poi alla dimensione conscia provare ad elaborare. Il problema è che in questa situazione è molto difficile proporne una.
B.
Credi dunque che l’inconscio collettivo contemporaneo si trovi in una condizione di caos perché privo di “contenitore simbolico”?
M.
Sembra caos a noi, chissà se è caos per l’inconscio. Credo infatti che la difficoltà oggi stia proprio nella fatica che fa l’inconscio a trovare una valida ipotesi di senso elaborata dal conscio collettivo; è questa l’elaborazione che può diventare contenitore simbolico per quello che succede al suo interno. Potremmo forse pensare l’inconscio collettivo con un’immagine: come un mare in burrasca che non viene placato dal contenimento del senso. L’ipotesi complottistica – non a caso abbastanza diffusa – in fondo serve a questo, a provare a contenere. Purtroppo, però, è un contenimento infantile, con un chiaro fondo autodistruttivo, perché in questo caso la ricerca concretistica delle cause – mossa dalla paura – si ribalta in una fuga simbolica dalla realtà. Dovremmo forse cambiare prospettiva e domandarci: che cosa sta sperimentando, in questo momento, la natura, Dio, l’inconscio? Sono ovviamente concetti diversi, ma sovrapponibili perché tutti concetti-limite, perché indicano – da prospettive culturali diverse – una totalità di cui siamo parte, ma che non possiamo comprendere fino in fondo.
B.
Immagino che il modo migliore per provare a decifrare cosa l’inconscio stia sperimentando in questi mesi, sia quello di rivolgersi ai sogni. Da un punto di vista clinico, hai riscontrato trasformazioni rilevanti nei sogni dei tuoi pazienti?
M.
In realtà no. Ma il mio punto di vista è, ovviamente, parziale. Ho alcuni colleghi che stanno raccogliendo sogni sulla pandemia. Comunque sia, non ho riscontrato sogni che in un modo, più o meno diretto, la stiano elaborando. Non nei mei sogni personali; qualcosa, ma poco, in quelli dei miei pazienti. Di recente, però mi ha colpito un’immagine di un sogno di un mio paziente che si riferisce alla pandemia in termini apocalittici. L’immagine è quella di una grande minacciosa nuvola nera che viaggia sopra il mare e che sembra mettere seriamente in pericolo tutto e tutti. Al di là dell’interpretazione relativa al fenomeno del virus, quella nuvola mi sembra avere a che fare soprattutto con la non comprensione e con la nostra terribile difficoltà a trovare il senso in ciò che stiamo vivendo. Forse la potremmo leggere come una sorta di “nube della non conoscenza” su cui ha scritto un affascinante trattato un anonimo mistico medievale inglese del XIV secolo.
Un altro caso che posso riferire è quello di un mio collega svizzero che mi ha chiamato qualche giorno fa per raccontarmi un suo sogno personale. Abbastanza emblematico, mi pare. Nel sogno c’è un ragazzino che, in modo imperativo, dice al sognatore: se vuoi che la pandemia finisca rispetta queste tre qualità fondamentali della vita: l’irrazionale, la dimensione religiosa, la trascendenza. È un sogno personale, ovviamente; e parla del vissuto del mio collega. Però, mi pare interessante che sia proprio un ragazzino, forse un adolescente, a indicare – quasi come bilanciamento necessario – tre qualità del nostro modo di vivere, che la cultura contemporanea ritiene superflue, obsolete, inattuali; inutili.
B.
Di una cosa però possiamo essere sicuri. La pandemia ha prodotto un radicale moto enantiodromico. La forma comune della vita contemporanea, con la sua perenne estroflessione e mobilità, si è forzatamente capovolta nel suo opposto. Per mesi, siamo rimasti imprigionati, fermi, immobili, ognuno nella propria casa. Ora viviamo – ma chissà per quanto ancora – in un’apparente libertà vigilata. Siamo sorvegliati, testati, campionati e il gesto ripetuto con cui persone estranee, quasi ogni giorno, puntano una pistola sulle nostre fronti, per misurarne la temperatura, è, per quanto ambivalente, inequivocabile.
M.
Senza dubbio. E si tratta di un’enantiodromia violenta. Queste inversioni radicali si manifestano a volte anche nelle vite personali. Di solito, quando nei soggetti non c’è alcun tentativo, da parte della coscienza, di reagire a trasformazioni profonde, che l’inconscio invece segnala. E così il soggetto viene catapultato violentemente in una forma di vita opposta. Stiamo parlando – come è ovvio – di crisi radicali, ma che sono anche occasioni per ristabilire un contatto con una richiesta di trasformazione profonda ignorata. La cultura occidentale contemporanea ha per lo più tratti esageratamente estroversi. Non stupisce pertanto che per molte persone questa enantiodromia abbia rappresentato una sfida enorme. Essere forzatamente costretti all’introversione, all’introspezione, alla riservatezza, al contatto con il corpo e con la sua fragilità: è stata una sfida molto faticosa. So di amici che hanno visto 25 serie su Netflix, hanno pulito casa da cima a fondo, hanno fatto il cambio di stagione tre volte… Tutti tentativi di resistere ad un’introversione forzata. I veri introversi, invece, sono stati relativamente bene. Al netto di ovvie preoccupazioni generali, voglio dire. Io, per esempio, non ho patito il lockdown. E conoscendoti, credo nemmeno tu. In realtà, però, quelli che in questo periodo sono stati davvero bene sono i paranoici. Perché hanno avuto la grande conferma che quello che loro hanno sempre pensato è vero: c’è la tragedia dietro l’angolo! Inoltre, il peso psicologico della loro diversità “profetica” che sostengono da soli durante i periodi normali, negli stati d’eccezione si alleggerisce, perché viene ridistribuito su tutti. In analisi capita spesso che un paziente paranoico abbia bisogno di stabilire propri rituali di protezione durante le sedute. A molti analisti è capitato, durante il lockdown, di sentire pazienti paranoici consapevoli della funzione puramente formale dei rituali pretesi. Ad obiezioni rispetto all’impossibilità di garantire una certa disposizione rituale del setting perché in contrasto con le prescrizioni di distanziamento, le risposte erano: ma tanto qui non ci vede nessuno! È interessante vedere come la patologia sia sempre selettiva e lavori per risolvere, anche se in modo sbagliato, i problemi di una persona.
B.
La matrice contemporanea della cultura occidentale è anglo-americana. In questo ultimo ventennio, ad intensità crescente, la sua forma di vita tecnologicamente iper-connessa si è imposta come modello universale da seguire; modello a cui cercano di conformarsi, con più o meno resistenza, tutte le altre culture mondiali. Sappiamo che buona parte della tecnologia che oggi quotidianamente usiamo ha, in realtà, origine dalla guerra fredda e soprattutto dalle esplorazioni spaziali degli anni ’60. In fondo, se ci pensi, noi oggi ci serviamo di strumenti progettati per sopravvivere nello Spazio, non per orientarci sulla Terra. Potremmo forse parlare – giocando un po’ con le parole – di una iper-connessione extra-terrestre. Di una disposizione iper-estroversa orientata dal desiderio di andarsene via, di lasciare la Terra. Mi chiedo però se l’iper-connessione tecnologica non porti con sé l’ombra di una altrettanto radicale dis-connessione: quella del soggetto con se stesso.
M.
Da statunitense, penso che l’estroversione della cultura americana – la matrice generale di cui tu parli – abbia qualcosa di eccessivo, se non di patologico. È una cultura tutta proiettata in avanti e che per questa ragione ha una grandissima difficoltà a fermarsi; e fermarsi – spesso, non sempre – significa anche voler riflettere su quello che sta accadendo, su quello che si è diventati. Trovo molto interessante questa tua idea di una estroversione ipertecnologica che avanza con un’ombra altrettanto radicale di disconnessione dei soggetti con sé stessi. In fondo, se ci pensi, potremmo leggere l’elezione di Trump a presidente come incoronazione istituzionale – e quindi simbolica – di questa drammatica disconnessione etica. Qualche settimana fa ho scritto alcune pagine sulla rabbia che provo per quello che sta accadendo negli States. Io non mi sono mai lasciato troppo coinvolgere dalla politica. Ho sempre guardato con molta preoccupazione agli ultimi presidenti repubblicani, in particolare Bush junior, un emerito idiota; ma il caso di Trump è diverso perché genera in me una rabbia che non riesco a controllare. Ho passato mesi a leggere il NYT due volte al giorno, a guardare in continuazione la CNN e la MSNBC – che secondo me è eccellente; a scambiare di continuo mail con mio fratello che vive a New York, e con mia sorella a Sydney, in Australia. Ad un certo punto ho pensato: devo riflettere sul motivo di questa rabbia. Era un gesto necessario anzitutto per me, per chiarire le ragioni di questo sentimento. Credo che c’entri solo relativamente la politica e l’ideologia. Penso che la questione di fondo abbia a che fare con la violenza, con il fatto che le parole e i gesti di Trump la incarnino in un modo diretto, non mediato, dissacrante, stupido; e tutto questo teatralizzato come stile presidenziale, incarnando cioè un’istituzione: lo Stato. E così la disconnessione di cui tu parli diventa un modello istituzionale, alzando vertiginosamente la soglia del pericolo per tutti: la banalità del male. Questi quattro anni lasceranno gli Stati Uniti in uno stato di estrema povertà simbolica.
B.
Se guardi all’Italia, però, anche da noi la politica sembra aver ormai incoronato simbolicamente questo nuova forma di disconnessione etica. Pensa anche solo alle regioni governate dalla Lega dove la violenza alla Trump è da anni ormai radicata nel senso comune ed è tradotta istituzionalmente nella dimensione politica, dunque al livello simbolico dell’autorità. Bullismo antistituzionale, superomismo, fobia delle diversità, ricerca continua di capri espiatori. Lo abbiamo visto anche durante questa pandemia. Mi chiedo solo se una delle ragioni profonde di questa disconnessione – non l’unica, perché il fenomeno è ovviamente complesso – possa essere ricondotta all’impatto, o meglio allo scontro, fra questa nuova forma di vita ipertecnologica/sradicante e il violento comando sul lavoro che patiscono i territori ad alta intensità produttiva, come quelli dove la Lega da anni si è radicata.
M.
È un’ipotesi complessa e molto interessante. A me, forse in modo più semplice, colpisce come l’esasperazione del materialismo economico si traduca in una forma così cieca di egocentrismo. Prendi un esempio banale, come quello della mascherina. I sostenitori di Trump – ma anche qui da noi molti sostenitori di Salvini – dicono: “la mascherina non serve a niente, io non la porto, tanto sono forte, non mi interessa se mi ammalo”. Questa è chiaramente una posizione egocentrica infantile, perché la mascherina non la si porta per proteggere sé stessi, ma per proteggere gli altri. È un gesto che simbolicamente ci lega alla comunità di cui siamo parte: è un vincolo di solidarietà. Potremmo dunque leggere questa ribellione come sintomo di una patologia più grave: l’incapacità di pensarsi come parte di una comunità. E questo mi pare derivi dall’intensificazione di una cultura quasi esclusivamente dominata dal materialismo e dal produttivismo economico: in un regime di competizione generalizzata, quello che conta è la prestazione nel presente, dunque la forza fisica, la ricchezza, i segni riconoscibili – e perciò necessariamente vistosi – della propria potenza. E questi diventano anche i parametri per giudicare gli altri che, al primo problema, si trasformano in oggetto proiettivo, capri espiatori su cui esorcizzare i disturbi performativi di un egocentrismo esasperato. Ieri mi è capitato di rileggere una pagina di Psicologia ed alchimia dove Jung insiste sul problema dell’inflazione della coscienza. Secondo Jung, l’inflazione della coscienza è una vera tragedia; avere a che fare con una coscienza inflazionata è impossibile, perché percepisce solo la propria esistenza ed è per questo totalmente incapace di entrare in relazione con gli altri. Questa forma radicale di egocentrismo compromette inoltre la capacità dei soggetti di leggere i segnali di allerta che arrivano dal passato o che costellano gli eventi contemporanei. La coscienza egoica, solo centrata su sé stessa, priva di finestre verso altre dimensioni, tende inevitabilmente all’autodistruzione. Jung dice che un’inflazione di questo tipo invita in casa le stesse forze che la devasteranno.
B.
Molto interessante. Se seguiamo questa indicazione potremmo addirittura leggere il virus come una forza invocata a bilanciare, in modo vistosamente aggressivo, l’egocentrismo cieco della nostra cultura o, forse meglio, di quella del capitalismo contemporaneo. Pensa anche solo al gesto folle di un sindaco come Beppe Sala che non poteva tollerare che la sua città si bloccasse, nemmeno per una pandemia: #Milanononsiferma. Come si può essere così infantili e arroganti? Forse è questa la domanda che l’enantiodromia forzatamente ci pone: ha senso vivere così?
M.
Io partirei da un presupposto neutro: si è creata una disarmonia fra le nostre vite e l’ingranaggio collettivo all’interno del quale viviamo da alcuni secoli. I pezzi non combaciano più, il meccanismo si è inceppato. Forse il nostro compito ora è quello di provare a modificare, per quanto ci è possibile, la nostra parte di ingranaggio nella speranza che, dall’altra parte, l’inconscio modifichi la sua. E l’inconscio ha iniziato a mandare segnali, come sempre in modo eccentrico e obliquo. Non so se hai sentito questa notizia, che circola ormai da qualche settimana. A quanto pare una delle sostanze che dovremmo cercare di assumere di più in questo periodo è il rame. Sembra infatti che il rame e il magnesio siano efficaci per difendersi dall’attacco di qualsiasi virus. Mi è stato detto che questo metallo è così efficace che salendo su un autobus basterebbe strofinare una moneta di rame per non essere contagiati. Io non so se tutto questo sia vero o se sia una pura superstizione; poco importa. A me colpisce il fatto che il rame sia il metallo di Afrodite. È dunque un momento in cui “la dea si fa sentire”; la dea come terra, come organismo vivente: gaia. Afrodite infatti non è Demetra, la terra come raccolto, come lavoro, come agricoltura, come perseveranza e fatica. Con Afrodite, entra in scena l’eros, la capacità generativa dell’amore; il sentimento. Questo è un nodo fondamentale. Se seguiamo il modello della tipologia psicologica junghiana, la cultura contemporanea è per lo più strutturata su due funzioni dominanti: pensiero estroverso e sensazione estroversa. A livello collettivo, il sentimento sta al terzo o forse addirittura al quarto posto: è la funzione inferiore. Su questo dobbiamo agire: prestando più attenzione al sentimento come tipologia psicologica. Perché questa è Afrodite, quindi la cura, il dialogo, la compassione, la comprensione; l’eros.
B.
A proposito di eros e di sensazione estroversa: non so se hai saputo che durante il primo mese di lockdown, la piattaforma web Pornhub – che è la più grande piattaforma web di materiale pornografico al mondo – ha regalato all’Italia l’accesso gratuito alla sezione Premium. È un gesto interessante, non trovi? Da un lato abbiamo la pornografia (sensazione estroversa) che è sicuramente una delle forme simboliche dominanti la cultura contemporanea; dall’altro abbiamo un’impresa web multinazionale che pubblicamente rende gratuito l’accesso alla sua piattaforma alla prima nazione occidentale colpita dal Coronavirus; in fondo, un gesto gratuito di solidarietà e di compassione (sentimento introverso).
M.
Non sapevo, ma molto interessante e sicuramente spia di un moto di possibile trasformazione. Non c’entra molto, ma mi viene in mente quel saggio di Hilman che si intitola On dreaming of Pigs dove lui dice: in televisione non si può vedere una tetta nuda, ma dobbiamo vedere teste di cazzo dalla mattina alla sera!
B.
Ah…. Sai che anche Herbert Marcuse sosteneva in una cosa simile; si domandava infatti per quale ragione fossero vietati i film pornografici ai minori di 18 anni e non invece i film di guerra. Per quale ragione la pulsione erotica dovesse essere un tabù più forte della pulsione di morte. Forse però a questo punto si apre anche un’altra questione. In che modo questa radicale enantiodromia a cui siamo stati forzati, non possa diventare occasione per ristabilire un contatto con il nostro corpo e quello della collettività; e quindi con un’erotica corporea intesa come piacere, gusto, gioco e cura.
M.
Se ci pensi il collettivo dell’umanità è un corpo (in fondo a questo allude per esempio la figura cattolica del corpo mistico di Cristo); ed ora più che mai è un corpo esposto alla necessità di cura, sia verso sé stesso, sia verso gli altri corpi. Temo che uno degli effetti più gravi dell’imporsi di una cultura radicalmente egocentrica, di cui parlavamo prima, stia proprio nella perdita dell’idea che la comunità dei viventi sia, in realtà, un corpo unico.
B.
Prima parlavamo di come la tecnologia generi una forma di dis-connessione del soggetto con sé stesso. Però, nello stesso tempo, durante il lockdown ha sicuramente permesso di ristabilire un contatto, anche se solo visivo, fra i soggetti e quanto tu hai appena definito come “il corpo unico dei viventi”, vale a dire il mondo esterno, gli altri. Forse potremmo anche leggere tutta la tecnologia di contatto, di cui ora ci serviamo per comunicare e lavorare, come una sorta di rituale, orientato a risolvere quella che De Martino avrebbe sicuramente definito, pensando a quello che stiamo passando, come “crisi della presenza”. Questo per dire che le vie d’uscita forse esistono già, si intravedono, stanno già operando: il problema starà piuttosto capire se il conscio collettivo riuscirà a seguirle e a trasformarsi; oppure no.
M.
Sembra che ci toccherà ancora un anno di prova…. Chissà cosa succederà. Può anche essere che questo nuovo modo di vivere verrà portato avanti nella massima inconsapevolezza, senza neanche vederne più il senso. Andrebbe invece tenuto vivo il senso della novità, dell’eccezionalità di quanto stiamo vivendo. Se diventa abitudine, il potere trasformativo del senso scompare.
B.
Volevo chiederti a questo punto un giudizio psicoanalitico. Se è vero che le persone che hanno sofferto di più il lockdown sono state le persone di orientamento estroverso e se è vero che questo resta l’orientamento dominante nella cultura contemporanea, può essere interessante capire come in genere gli estroversi reagiscono a crisi di questo tipo. Perché forse è una riflessione che può avere anche una valenza più generale.
M.
Penso che ci siano due o tre possibilità. La prima, forse la più semplice, potrebbe essere lo sviluppo di una patologia o di un disagio che esprima la difficoltà ad accettare l’introversione. Molte persone si trovano ora con un sintomo secondario che è di solito l’espressione dell’incapacità di fare un adattamento a cui però sono costretti. Quando un estroverso radicale si trova in una condizione di introversione profonda può però anche vivere esperienze intense di illuminazione e di spiritualità; quasi mistiche. E questa potrebbe essere un’altra possibilità. Quindi, o una patologia oppure una sorta di illuminazione. D’altronde, se seguiamo Jung, ogni inferiorità psichica è sempre la porta attraverso cui si accede ad esperienze di spiritualità intensa. A livello generale, dunque, come cambierà il conscio collettivo? Riuscirà ad abbracciare questa forma radicale di introversione? Difficile da capire.
B.
Io tendo a leggere l’estroversione estrema della cultura contemporanea come una sorta di delirio di onnipotenza. Che in questi ultimi decenni ha assunto forme sempre più vistose. Ci viene continuamente ripetuto dai media che possiamo fare tutto ed essere tutto quello che vogliamo: l’illimitato – che è il presupposto ideologico del funzionamento del modo di produzione capitalistico – si è radicato nel senso comune come postura etica.
M.
Per questo è interessante vedere come vivono gli americani, gli esportatori mondiali di questa religione della sfida continua al concetto di limite. Non esiste altro popolo sulla faccia della terra, infatti, che non passi ogni ora a vantarsi della propria superiorità, come fanno gli americani. Negli States, i superlativi si sprecano: tutto è più grande, più ricco, più bello, più costoso, più alto. Tutto oltrepassa, o dovrà oltrepassare, qualsiasi limite. Colpiti in questo modo violento dal virus – al di là di ogni illusione – gli Stati Uniti si scoprono oggi come un posto non certo più sicuro, più efficiente, più capace, più forte, più organizzato, ma al contrario, come un paese fragile, mal governato, disfunzionale, insicuro. Bisognerà vedere come questo impatto traumatico con la realtà verrà culturalmente elaborato.
B.
Mi chiedo però in che modo chi si trovi in questo delirio narcisistico di autocelebrazione permanente riesca realmente a fermarsi e ad entrare in una connessione adulta con i propri limiti e la propria fragilità. Non esiste forse anche la possibilità che esploda in un delirio proiettivo e quindi distruttivo verso ogni cosa e verso tutti? Perché mi pare che la pandemia, come occasione mancata di questo contatto profondo con i limiti, materializzi l’ombra della guerra. Serpeggia ovunque una profonda pulsione disgregatrice.
M.
Hai perfettamente ragione. È difficile non perdere la fiducia. Ogni tano ripenso alla fine del romanzo The Road di Mc Carthy, dove nella desolazione più totale l’autore descrive, in un passaggio brevissimo, un dettaglio apparentemente insignificante: i pesci che saltano in un ruscello. E poi riporta la narrazione all’interno dell’orizzonte post-apocalittico. E come se stesse dicendo: persino qui, sprofondati in una situazione senza alcuna speranza, c’è qualcosa che comunque vive, che sta andando avanti. Una forma microfisica del divino. Anche in questo nostro stato d’eccezione mortifero ciò che possiamo chiamare divino sta facendo qualcosa e noi dobbiamo provare ad agganciarlo, dobbiamo provare a capire che strade sta aprendo. Per dirla con Jung, viviamo in un kairòs dove si da la pericolosa trasformazione del divino.
B.
E quale potrebbe essere, secondo te, la disposizione psicologica più adatta ad agganciare questa attività trasformatrice nascosta; e le strade che sta aprendo?
M.
Io non amo troppo la scuola delle relazioni oggettuali. Perché parte da un presupposto che non condivido: vale a dire che siamo pieni di oggetti interni. Ed io sostengo invece che siamo pieni di soggetti, interni ed esterni. Penso che la disposizione psicologica più adatta ad intercettare questa richiesta di trasformazione profonda passi proprio dalla capacità di decentrare la nostra soggettività; dobbiamo abbandonare l’arroganza per cui esiste un soggetto – il nostro Io – che si incorona come unico sovrano su tutto quello che esiste, dentro e fuori di noi. La tecnica dell’immaginazione attiva insegna precisamente l’opposto. La realtà si trasforma in continuazione come dialogo fra soggetti. Ed è con questa disposizione che dovremmo relazionarci: verso noi stessi, verso gli altri, verso il mondo, perfino verso l’universo. C’è una soggettività all’esterno che noi non sappiamo capire bene, ma non possiamo certo permetterci di dire che non ci sia! Mentre la tendenza dominante è purtroppo opposta: incoronare un Io cosciente, come unico soggetto razionale possibile – e dunque forzatamente prevaricatore – che si arroga il diritto di sovranità su tutto quello che esiste, su tutto quello che vive. Abbiamo un’occasione. Ma se questa volta sbagliamo, potrebbe essere davvero la fine.