Tra l’Essere e il Nulla: l’Infinitamente Piccolo. Riflessioni di filosofia biologica – di Achille D’Onofrio

Tra l’Essere e il Nulla: l’Infinitamente Piccolo. Riflessioni di filosofia biologica – di Achille D’Onofrio

21 Dicembre 2020 Off di Francesco Biagi

di Achille D’Onofrio

 

I

È dall’infinitamente piccolo che scaturisce la massima potenza: creatrice o distruttrice. La più prodigiosa possibilità di vita o di morte nasce dalla massima prossimità al Nulla. La fonte di più alta energia ci è data dalla modificazione dell’atomo. La strutturazione del mondo, in termini fisici, nasce dall’organizzazione degli atomi che formano “grandezze” nelle quali l’energia si attenua in proporzione.

Il concetto, a volerlo esprimere secondo una rappresentazione utilitaristica, può essere esplicitato con la descrizione dell’atomo di sodio e dell’atomo del cloro: il sodio è un potente metallo velenoso; il cloro un potente gas velenoso. A livello molecolare formano il cloruro di sodio, innocuo, anzi, necessario alla vita. Gli elementi costitutivi della vita sono le molecole, gli atomi da soli, sebbene carichi di energia, sono monadi “selvagge”: è fondamentale un loro legame.

Lo stesso per il linguaggio. Una parola (elemento atomico), non è un enunciato, non denota alcun fatto: “pioggia” non ha alcun senso; “la pioggia è abbondante” (proposizione molecolare) ha significato, vero o falso che sia (Wittgenstein). Ma anche l’atomo non è una piccolezza assoluta, anch’esso è costituito da altre parti, talmente piccole, che la sua esistenza può essere solo dedotta.

E oltre? Il niente?  Dove è possibile porre il confine tra l’infinitamente piccolo e il niente? Oppure, detto in altri termini: dove finisce l’infinitamente piccolo e dove inizia il niente? Qual è il punto oltre il quale il piccolo nientifica sé stesso? Oppure dobbiamo introdurre la categoria “dell’infinitamente piccolo” al posto della categoria del niente?

“L’infinitamente piccolo”, al pari del niente, non è un ente ma un evento asintotico che non arriva mai a conclusione.

Forse il fondamento dell’essere non è il nulla ma “l’infinitamente piccolo” che del niente veicola la stessa dignità concettuale, e dell’essere non modifica la sostanza.

 

Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli Dei, né uno degli uomini, ma è sempre stato ed è, e sempre sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne. (Eraclito).

 

Eraclito, nella sua concezione dell’Essere, non contempla un fondamento ex nihilo.

Si può obbiettare che “piccolo” è già ente, certo: ma non lo è “l’Infinitamente piccolo”. “L’infinitamente piccolo” è un concetto, e se “quando si svela l’ignoto si è già nell’essere”, non vuol dire che all’ignoto non possa appartenere la categoria dell’“infinitamente piccolo”, più di quanto vi appartenga il niente.

L’omeopatia fa dell’”infinitamente piccolo” il suo punto di forza (il niente è perfino sostituito dalla “memoria” del rimedio), che quasi sconfina nella me-on-tologia, o ontologia del non-essere. E l’estasi di Tolomeo che, quando osservava gli astri non si sentiva tra i mortali, sta alla bellezza sublime del cosmo, come l’inquietudine del virologo, che osserva “corpicini” grandi poche decine di milioni di millimetri, sta alla minacciosità del microbo (a confermare l’assunto che il “piccolo” veicola potenza).

 

II

 I virus sono organismi a volte innocui, a volte benefici, a volte terribilmente perniciosi.

Non hanno bisogno di nutrirsi come altri esseri viventi; non cercano un ristorante dove mangiare, ma un albergo in cui riprodursi, e le nostre cellule, per molti di loro, sono delle stanze molto invitanti. È lì che esperiscono la loro volontà di vivere: l’albergatore può morire o meno, ma se sopravvive, non è certo per una scelta di pietas del microbo, ma perché è la scelta più conveniente per soddisfare la sua istanza egoistica (focus su cui ogni essere vivente fonda il proprio status).

Più sono piccoli e più sono attivi e, all’occorrenza, cattivi. Seguendo questo paradigma interpretativo, interessanti sono i prioni. Definizione: entità biologiche che hanno un livello sub-virale di strutturazione (ancora più piccoli, per intenderci).

Il prione non è un virus, ma una semplice proteina chiamata PrPsc. È una proteina presente in ogni organismo. Anche noi l’abbiamo, nel cervello. In condizioni normali la PrPsc ha una strutturazione spaziale ben definita; ovviamente in queste condizioni non ha il carattere del prione, o meglio, il prione è presente ma solo in potenza, poi, per ragioni ancora sconosciute, la struttura della proteina cambia la sua architettura, si modifica e collassa su se stessa, diventa potenza attiva: “capacità di effettuare un mutamento in altro o in se stesso” (secondo la definizione di Aristotele nella Metafisica.). La proteina si avviluppa su se stessa e diventa infettante; si produce un effetto a catena e il cervello assume una consistenza spongiosa con enormi buchi.

Questa patologia nei bovini si chiama “mucca pazza”, nelle pecore “scrapie”, nell’uomo abbiamo la malattia della “Creutzfeldt-Jakob” (e le sue varianti) e “Kuru”. Il Kuru ormai non si osserva più, colpiva individui di una tribù della Papua Nuova Guinea, che s’infettavano quando, per onorare la memoria dei congiunti morti, ne mangiavano il cervello. La proteina prionica agiva dopo anni dall’ingestione.

Lo stesso meccanismo patogenetico si è osservato nei bovini colpiti dalla sindrome della “mucca pazza” (BSE) che in Gran Bretagna, per anni, sono stati alimentati con farine animali, a testimonianza di come un comportamento non etico ed offensivo della natura possa trasformare una sostanza, fisiologicamente costitutiva dei tessuti organici (PrPsc), nel suo opposto patologico (proteina prionica).

Già Rudolf Steiner, pedagogo e filosofo tedesco, negli anni venti del secolo scorso aveva sentenziato: “Se un giorno la mucca diventerà carnivora, a livello dell’intestino si formeranno degli urati; questi si accumuleranno nel cervello e la mucca diventerà pazza”.

I virus sono più complessi e strutturati dei prioni, hanno perfino un involucro di protezione e di offesa costituito da proteine e lipidi. Sono bravissimi a studiare strategie per soddisfare la loro attitudine a riprodursi ed evolversi, accettando anche il rischio di fallire ed estinguersi. Quelli a RNA, che sono i più piccoli, sono anche i più imprevedibili e soggetti a mutazioni. A questa categoria appartiene il coronavirus, covid- 19 (il Nostro). Il loro RNA è un acido nucleico rozzo; spesso nel riprodursi genera segmenti imperfetti e non riparabili, che danno origine a copie diverse dagli originali. La prole prende strade dal futuro incerto. È così che si comporta il virus dell’influenza, la cangiabilità è il suo karma. Ogni anno presenta versioni diverse di sé e gli immunologi sono sempre chiamati a nuove sfide nell’elaborare calcoli probabilistici per individuare la sua identità antigenica su cui poi preparare il vaccino; a volte ci riescono ottimamente, a volte un po’ meno.

I virus a DNA sono più stabili perché possono avvantaggiarsi di un enzima con funzioni di “meccanico” (DNA polimerasi) che riesce a riparare frammenti di acido nucleico che non dovessero corrispondere agli originali evitando così derive eccentriche del microbo.

Il virus della rabbia, nonostante sia un virus RNA, è abbastanza stabile. Ancora oggi, per la produzione del vaccino, si usa uno stipite proveniente dal cervello di una giovane donna morta di rabbia nel 1939 (ceppo Flury), opportunamente avianizzato, cioè passato serialmente per circa 200 volte sull’embrione di pollo. Dopo così tanti passaggi il virus perde il suo potere patogeno, conservando il suo potere immunogeno, cioè di produrre anticorpi.

Tutti gli animali a sangue caldo sono sensibili alla rabbia e l’infezione è trasmessa dai carnivori terrestri (fissipedi) e dai pipistrelli ematofagi (vampiri). Il cane è l’animale domestico maggiormente coinvolto.

Il virus della rabbia mette in atto una modalità molto sofisticata per passare da un animale all’altro ed esprimere così la sua volontà di vivere e di riprodursi. È un virus neurotropo, predilige le cellule nervose, e migra nel cervello e poi, prima di portare a morte l’ospite (il cane nel nostro caso) colonizza le ghiandole salivari e quindi la saliva.  Nel cervello induce modificazioni nel carattere e nell’appetito: l’ospite assume atteggiamenti molto aggressivi, ha un appetito depravato, in modo che prima di soccombere è spinto a mordere qualsiasi cosa gli si presenti davanti assicurando così al virus la massima contagiosità.

Ma ci sono degli animali in cui la rabbia è a fondo cieco, cioè a loro volta non trasmettono la malattia. Si tratta degli erbivori e dell’uomo: il virus che dovesse colpire questi animali, non morsicatori, muore con loro, la replicazione e l’evoluzione del parassita abortisce; la voluntas di entrambi si annichilisce.

In molti casi di infezioni virali, un democratico accordo di reciproca tolleranza tra il virus e l’ospite, permette una convivenza pacifica e duratura: l’animale ospite, con il tempo si abitua alla presenza del virus, non gli attribuisce lo status di nemico, non schiera le sue armate di anticorpi. Dall’altra parte il virus si adatta al domicilio offertogli; si accomoda nelle cellule che riesce a colonizzare in cui si riproduce non facendo molto danno; un vero Eden per il virus.

Era così che viveva il Nostro nell’organismo dei chirotteri (pipistrelli) della Cina, da tempi antichi. Poi un giorno gli è stata offerta la possibilità di mangiare il frutto proibito: l’organismo dell’uomo.

In Cina i pipistrelli, come ogni animale, vengono catturati per essere macellati e trasformati in cibo. La pax virus-pipistrello si è trasformata in un destino tragico tra virus e uomo.

 

Una volta nati desiderano vivere e avere il loro destino di morte e lasciano figli in modo che altri destini di morte si compiano. (Eraclito).

 

L’uomo infettato reagisce con la produzione di anticorpi talmente operativi e zelanti che l’organismo spesso soccombe in seguito a fuoco amico. Si verifica quello che tecnicamente viene descritto come sindrome dell’immunocomplesso.

L’immunocomplesso è formato dall’antigene del virus e dell’anticorpo corrispondente: due guerrieri avvinghiati in un abbraccio mortale, prodigioso e terribile (un vero ungeheure Augenblick).

L’immunocomplesso è un prodotto necessario dell’apparato immunitario, per eliminare agenti esterni e salvaguardare l’integrità dell’ospite dalle malattie e favorirne la guarigione, ma nel caso del covid-19, l’unione antigene-anticorpo, stimola l’organismo a produrre quantità enormi di citochine, una vera tempesta (cytokine storm ). Le citochine sono mediatori chimici che contribuiscono (insieme ad altri) al determinismo delle diverse fasi del processo infiammatorio, ovvero al rubor, dolor, calor, tumor, e functio laesa dei tessuti coinvolti. Se ad essere interessati sono i polmoni, il fegato, i reni o il cuore, tutto l’organismo risulta destrutturato, agonico.

Lo stesso fenomeno accade in seguito all’infezione del coronavirus della peritonite infettiva del gatto, del coronavirus della bronchite infettiva del pollo, e lo stesso è accaduto nella influenza Spagnola durante la pandemia del 1918-1919, in cui morirono 50 milioni di esseri umani, soprattutto giovani adulti, i più forti, coloro che stavano meglio in salute e avevano un apparato immunitario altamente competente.

Lo stesso fenomeno potrebbe verificarsi in seguito ad elevata produzione di anticorpi conseguenti all’inoculazione del vaccino su cui l’umanità ha riposto tutte le speranze per contrastare gli effetti dell’infezione da Covid-19.

È un processo patogenetico che si osserva già in alcuni casi di vaccinazione dei polli contro il coronavirus della bronchite infettiva: gli anticorpi vaccinali, venendo a contatto con il virus selvaggio scatenano la cosiddetta tempesta di citochine ad esito fatale.

Ma l’evoluzione avanza per fallimenti; dalle tragedie si imparano strategie nuove ed efficaci, funzionali alla volontà di vivere.

Dopo ogni fase di altissima virulenza, generalmente il virus è costretto a cedere in termini di patogenicità, per non rischiare di estinguersi insieme agli ospiti: l’armistizio si concretizza dopo che il microrganismo effettua un certo numero di passaggi seriali da un ospite all’altro. Le sue ambizioni di conquista si riducono, forse per stanchezza: è faticoso attuare sempre nuove strategie per passare da una dimora all’altra, senza requie. Il trasloco è uno stress enorme. Probabilmente è ciò che accadrà anche al coronavirus Covid 19; e non sarà una nostra vittoria, ma una delle tante espressioni della natura (posto che in natura non ci sono vittorie né sconfitte)Ē

È un carattere dei virus che si sfrutta in immunologia, come già descritto per il vaccino della rabbia ottenuto per passaggi seriali su embrione di pollo. Altri virus prediligono, in laboratorio, colture cellulari, oppure cavie, conigli ecc.

Dopo centinaia di passaggi in vitro si ottiene un vaccino vivo attenuato. Ma questi vaccini, non sono scevri di rischio (al contrario di quelli costituiti da virus inattivati); una nuova virulentazione del virus vaccinale è pur sempre possibile; la doma della bestia non è mai irreversibile. A volte, tentare di sostituire la necessità della natura con il dominio, può essere rischioso, è come tentare di trovare una soluzione all’aporia: l’attenuazione del potere patogeno deve essere una scelta del virus, non dell’uomo; e in ambedue i casi c’è sempre la tentazione del microbo di rompere il patto di convivenza con l’ospite e la sua pulsione a riappropriarsi della sua selvaticità.

Infatti succede a volte che i virus vivi dei vaccini, depotenziati nell’attacco frontale, e non in grado di provocare la malattia classica, aprano un nuovo fronte di offesa esprimendosi conĒpatologie impreviste. È accaduto con la vaccinazione delle pecore contro la febbre catarrale maligna (altrimenti conosciuta come blue tongue – lingua blu). È una patologia altamente letale che porta a morte i ruminanti per danni vascolari: il virus si insinua nelle cellule dei capillari che gemono sangue (la malattia non colpisce l’uomo).

In Europa era considerata una malattia esotica fino agli inizi degli anni 2000, poi in seguito al cambiamento del clima, si sono create le condizioni per trasporto dell’agente infettivo dal nord Africa a carico di artropodi vettori.

Dopo una prima massiccia campagna di vaccinazione con vaccino vivo attenuato, il virus ha cambiato strategia offensiva: si è accanito sugli arieti minando la loro attitudine alla riproduzione agendo sulla loro libido rendendoli impotenti (impotentia coeundi). La bestia indomita si era vendicata agendo sull’essenza dell’allevamento: la nascita degli agnelli e di conseguenza la produzione di latte.

Il rapporto parassita ospite è un continuo alternarsi di guerra e pace; l’incertezza e l’indeterminatezza sono il suo fondamento.

Interessante è la storia dell’agente eziologico della mixomatosi del coniglio; un virus importato dal Brasile negli anni 50 del secolo scorso al fine di risolvere il problema della massiva infestazione di conigli della campagna australiana e provocarne lo sterminio. La malattia si esprime con gravi tumefazioni e lesioni ulcerose sul muso dell’animale che assume una tipica espressione da facies leonina, segno di notevole significato patognomonico. All’inizio il tasso di letalità era del 99,6 per cento, quasi la totalità dei roditori colpiti moriva. Il virus, veicolato da una zanzara, cui si attaccava al suo apparato boccale durante il pasto di sangue dell’artropode, per evitare il rischio di estinguersi insieme all’ospite, in una situazione di massima disponibilità di conigli da parassitare, decise di effettuare diverse mutazioni in modo da creare differenti ceppi, dai più benigni ai più maligni. I primi non avevano possibilità di infettare altri animali perché essendo benigni non causavano le tipiche lesioni al muso, e quando passava la zanzara per il suo pasto non vi si agganciavano perché assenti in quelle sedi, accontentandosi di rimanere nel proprio ospite per quanto possibile, fino a soccombere per opera degli anticorpi; per contro i più cattivi causavano la morte dell’ospite in tempi troppo brevi affinché il veicolo aereo potesse prenderli a bordo decidendo così il loro destino di morte insieme ai loro ospiti. Solo i virus appartenenti a un terzo ceppo si erano assicurati un futuro di evoluzione esperendo la modalità di trasmissione semplicemente creando delle lesioni non lievi né tantomeno gravi, comunque che non portassero subito a morte il coniglio, o quanto meno non fino a quando passasse l’agente vettore in grado di agganciarli e trasportarli su un altro ospite: della serie: “non tagliare i ponti prima di averli attraversati” come ha brillantemente descritto David Quammen nel suo portentoso saggio “Spillover”.

L’aumentata sopravvivenza dell’ospite non è un atto di generosità del parassita: è pura espressione della volontà di vivere. Si pone quindi una questione: che fine fanno i virus quando smettono di colonizzare un ospite inducendoci a giudicare la pandemia come un fenomeno esaurito, ovvero un non fenomeno? Dov’è adesso il virus della Spagnola che ha causato tanti lutti in soli 2 anni? E dove si nasconde il virus della SARS o dell’Ebola tra una epidemia africana e l’altra?  E il virus dell’influenza aviaria, che ogni tanto appare e minaccia polli e genti? Non ci è dato di sapere.

Secondo Schopenhauer il senso del vero si trova nella voluntas: cosa in sé che si oggettivizza nella rappresentazione.

Non c’è altra ragione del mondo se non la sua volontà di vivere, ciò è valido non solo per gli elementi organici, ma anche per qualsiasi altro ente inorganico, basta la sua esistenza. Qualsiasi grave, un sasso ad esempio, segue la volontà della sua pesantezza e il suo stato di inerzia è già rappresentazione. La voluntas, quando non è percepita dai sensi e categorizzata dal logos (inerzia del grave), non vuol dire che non segue la sua finalità, irrazionale, senza senso, disinteressata al principium individuationis.

La quiescenza dei virus, che si esprime su un piano a noi ignoto, è parte dell’economia della volontà di vivere, nella misura in cui l’assenza del virus non vuol dire “vuoto” (posto che la natura non tollera spazi vuoti), ma semplicemente rappresentazione fenomenica in atto, nella dimensione dell’”infinitamente piccolo”. Prevederne l’esito è impossibile: la finalità della volontà di vivere è insondabile.