Marx al cinema durante la pandemia – di Roberto Finelli

Marx al cinema durante la pandemia – di Roberto Finelli

11 Dicembre 2020 Off di Francesco Biagi

di Roberto Finelli

 

Come tutti ben sanno, ormai anche i bambini, il materialismo di Marx era ben intriso di spiriti, ghiribizzi metafisici, vampiri ed altre diavolerie. Infatti Marx aveva ben compreso che per capire il “Capitale”, come soggetto dominante della storia moderna e delle nostre vite, bisognava rifarsi ad Hegel e guardare alla struttura dilagante della modernità, appunto, come al famoso Geist, lo Spirito di Hegel, per il quale principio assoluto di realtà sarebbe stato un vettore universalizzante che non avrebbe lasciato cadere, immune fuori di sé e della propria logica totalizzante, dimensione alcuna né di natura né di storia.

Aveva capito cioè il vecchio Moro che il capitale è uno spirito, ricchezza monetario-astratta che si accumula attraverso lo sfruttamento di forza-lavoro, che, in quanto astratta, può assumere le più varie forme produttive e tipologie di merci così come attraversare diversi sistemi geo-politici, diversità di relazioni sociali e culturali, diverse forme di Stato. Per rimanere, tuttavia, sempre e ovunque, strutturata sul medesimo protocollo di azione: accumulare plusvalore attraverso la riduzione della vita umana a valore di forza-lavoro e ad erogazione di lavoro astratto. Perché anche quando diventa capitale finanziario, nella sua forma dominante contemporanea, alla fin fine, criterio ultimo di riferimento e di giudizio rimane la ricchezza dell’economia reale fondata sull’utilizzo di macchine e forza-lavoro.

Che nell’ultimo ventennio il capitale abbia trovato la sua collocazione più ampia ed avanzata nella Cina, cosiddetta comunista, non ha modificato per nulla la sua immodificabile ed eterea identità: dominare gli esseri umani, ridotti a macchine di forza-lavoro, e insieme la totalità della natura, per estrarre surplus, da destinare alla sua accumulazione tendenzialmente infinita e alla classe sociale che della sua logica diviene, di volta in volta, a secondo del sistema geo-politico determinato, rappresentante e personificazione. Questo Marx aveva capito e sintetizzato con il suo concetto generale di Capitale: modulo di accumulazione a spirale tendenzialmente infinita, che si realizza e si articola attraverso i mille capitali concreti, la loro reciproca concorrenza e il confronto permanente tra le personificazioni individue del capitale e la massa vivente della forza-lavoro.

Oggi appare ben chiaro, almeno a mio avviso, che il concetto totalizzante di Capitale, anticipato nella mente geniale del Moro, s’è fatto realtà con la scomparsa storica di ogni alterità al capitalismo e con la globalizzazione del mercato economico, con tendenziale egemonia cinese, all’intero pianeta: tanto da potersi estendere, io credo, la categoria marxiana di sussunzione reale, non solo ai corpi e alle menti della forza-lavoro, ma all’intero corpo della vita e della natura non-umana.

Ma un vettore così singolare di realtà storica, quale può essere uno Spirito astratto e universalizzante, senza limite di alterità alcuna fuori e dentro di sé, plasma a sua immagine non solo umanità e natura ma anche spazio e tempo. Dilata il locale e restringe il globale e, insieme, accelerando in modo parossistico la velocità del tempo, incrocia e ingloba nel tempo presente il tempo passato.

Così è potuto accadere che il wet market di Huhan, il mercato degli animali selvaggi, di età arcaica e premoderna, sia saltato nel tempo della nostra più pressante attualità, imboccando le superstrade del mercato della globalizzazione, con la sua rete di spostamenti velocissimi, ormai, di merci, di persone, di informazioni.

Osservata da questo di vista, l’attuale drammatica e penosissima pandemia da Covid 19 non è un “evento”, come amerebbero dire gli appassionati cultori del pastore dell’Essere.  Non si pone come una frattura, una discontinuità e novità radicale della nostra contemporaneità, inviata verosimilmente dall’Essere heideggeriano in prima persona, assuefatto a ridurre la storia (Geschichte) a una trama dei suoi invii (Geschick). Si presenta bensì un accadimento conseguente di una continuità storica, basata sul trapassare nel permanere di un identico sistema storico-sociale. Ossia come conseguenza dell’estensione e dell’approfondimento dello spirito del capitalismo: in una intensificazione di realtà che ha trasportato la modernità, non nella cesura della postmodernità, quanto invece nell’estremizzazione di una ipermodernità, il cui carattere di fondo sta nell’essere, appunto, l’epoca della sussunzione reale dell’intero corpo del vivente alla logica del profitto e della sua dimensione quantitativa.

Per quanto possa valere, io ho dedicato tutta la mia vita intellettuale a pensare un modulo di interpretazione della modernità che non obbedisse al paradigma dialettico della contraddizione e di tutte le sue inevitabili inconseguenze e crisi. Né che obbedisse alla valorizzazione dell’Assolutamente Altro, con le scissioni canoniche tra simbolico, immaginario e reale, o con le teorie della differenza ontologica che hanno ridotto la tecnica a mera volontà di potenza. O altresì alla valorizzazione della Negazione e della Separazione Assoluta, come hanno fatto i teorici dell’esodo, e quelli della disattivazione di qualsiasi operare bloccato allo stadio di pura potenza, o quelli celebratori di un general intellect comunitario e di genere, basato sulla presunta capacità di libertà intrinseca al pensare umano nel solo pronunciare il “non” linguistico della negazione.

Ho pensato invece sempre a un dispositivo di ontologia sociale, identificato con il capitale come produzione e accumulazione di ricchezza astratta, in cui l’articolazione e la funzione dei diversi ambiti della vita sociale fosse comandata e regolata dal processo di svuotamento intrinseco che  la logica e le regole dell’astrazione reale del capitale fanno del mondo concreto della vita. Processo di svuotamento dall’interiore che lascia del vivente solo una pellicola di superficie, che, con la sua apparenza, genera, a sua volta, il mondo dell’ideologia e del culturale. Ho sempre pensato cioè che la vera lezione da trarre dalla critica dell’economia politica di Marx fosse non un modulo ontologico della opposizione-contraddizione dialettica, al cui esaurimento contrapporre visioni metafisico-politiche della società costruite sull’Assenza e la valenza del Nulla, in tutte le diverse versioni della sua ipostasi da parola a cosa che produce realtà. Bensì fosse appunto da estrarre un discorso, dal testo marxiano, che ci facesse intendere il capitale come un vettore di tendenziale totalizzazione e reductio ad unum della vita sociale, nella quale l’astrazione del lavoro stretta nel sistema di macchine (meccaniche o digitali che siano), produce, ipso tempore: a) l’immane mondo delle merci materiali e immateriali; b) l’asimmetria delle relazioni di classe, ossia l’assoggettamento della vita della forza-lavoro alla classe capitalistica e ai segmenti di classe dominante che ne derivano; c) la rimozione di tale asimmetria attraverso la cultura che, nei suoi diversi gradi e formulazioni, guarda e rappresenta solo la superficie dell’intero processo svuotato dall’astratto.

Tutto ciò significa che ciò che massimamente contraddistingue la nostra contemporaneità, in quanto epoca della sussunzione reale dell’intero mondo del vivente alla soggettività astratta del capitalismo, è una inevitabile superficializzazione dell’esperire, ovvero uno strutturarsi trascendentale del conoscere e del percepire su rappresentazioni e immagini della superficie che dissimulano sotto l’apparente quanto estrinseca vitalità del loro apparire la vuotezza del loro reale contenuto, fatto solo di funzioni e di pratiche a misura di quantificazione  e accumulazione capitalistica.

Il capitale, fattosi fattore integrale di socializzazione, non è solo produttore mercantile, o produttore di rapporti sociali, ma è anche produttore estetico del nostro modo, di massa e generalizzato, di percepire il mondo come insieme di frammenti post-moderni tra loro irrelati e pregni di una coloritura tanto artefatta quanto fallace e inconsistente.  Vale a dire che l’estetica del capitale tanto riduce il contenuto del vivente a funzione di quantità quanto produce immagini di superficie, la cui qualità stucchevole e retorica costituisce l’unico oggetto, moltiplicato e inflazionato di senso, della nostra cultura.

Orbene, assumendo, come si diceva all’inizio, che l’attuale pandemia non sia un evento insorto ex abrupto in una pretesa casualità contingente e destrutturata del tempo postmoderno, bensì sia la conseguenza dell’accelerazione spazio-temporale legata alla sussunzione reale del vivente sotto il dominio del capitale, a me sembra che quanto sia venuto accadendo in questi giorni nella specificità del campo del cinema e dell’industria audiovisiva sia una esplicita conferma di questa ipotesi di lettura di una ipermodernità capitalistica, basata, non sul vecchio marxismo della contraddizione tra classi o sulla metafisica del Nulla e dell’Altrove, quanto invece sui due princìpi di diffusione dell’astratto e dell’esteriorizzazione del concreto.

La chiusura totale delle sale cinematografiche, che ha suggellato in vero una tendenza già in atto da anni, unita alla diffusione gigantesca della visione attraverso streaming e dispositivi digitali, va letta infatti, io credo, proprio nell’ottica di una intensificazione della superficializzazione del nostro esperire. Chiusura delle sale cinematografiche significa infatti sottrarre alla produzione cinematografica di qualità la fonte principale del suo reddito, generato ancora dalla vendita dei biglietti e dalla sua destinazione a un pubblico capace di una certa sensibilità culturale e sociale.  Significa aumento enorme della dipendenza dei produttori cinematografici minori dalle grandi compagnie di produzione, distribuzione e vendita in streaming (Netflix, Amazon, Marvel, Disney), dato che la visione domestica diventa la forma di consumo dominante, se non assoluta.

Le grandi compagnie multinazionali di produzione e vendita in streaming, per la natura del loro pubblico, di enorme estensione domestica, hanno, e avranno sempre più, l’obbligo commerciale di produrre prodotti culturali di medio-bassa qualità, adeguati, appunto, alla quantità, sempre più vasta, della loro platea di visione e di acquisto. Nè è un caso che nelle loro produzioni stia diventando dominante e consolidandosi la produzione delle serie, la cui struttura narrativa e logica, potremmo dire, si contrappone alle modalità compositive ed espressive del cinema d’autore.

Quest’ultimo infatti condensa una storia in genere nello spazio temporale di massimo due ore, dovendo curare, proprio per questi limiti temporali, una connessione profonda del contenuto narrativo. In una doppia connessione di senso: sia del senso logico della coerenza e della verosimiglianza della sceneggiatura, sia della coerenza e continuità del senso emozionale. Mentre, a mio avviso, è questa coerenza che viene obbligatoriamente meno nel serial, obbligato ad essere allungato e articolato in numerose “stagioni”.

Per la sua dilatazione temporale, la natura della narrazione del serial ha un intrinseco bisogno di inserimenti, di moltiplicazioni, di insorgenze, di percorsi narrativi in qualche modo incongrui con una continuità verosimile del senso, visto che il bisogno fondamentale della produzione è quello dell’estensione quantitativa del tempo di ascolto e non certo di una qualità estetica capace di sintetizzare e stringere, nella conclusività e determinatezza di un finito, una profondità di significati e di emozioni.

I serials infatti, eccetto taluni di ottima qualità almeno quanto a scenografie e a ricostruzioni storico-ambientali, sono fatti di sceneggiature che nella loro noia, ripetizione e inverosimiglianza, sembrano essere costruiti sempre più da sceneggiatori che operano con stereotipi, modelli e algoritmi di narrazione già predisposti e sempre pronti a riconfigurarsi automaticamente in base al variare delle preferenze del grande pubblico domestico. Se ne deduce che sia insito nella natura del serial, in particolare di molte stagioni e destinato a un pubblico di massa, sollecitare la mente a un indebolimento della consequenzialità e verosimiglianza logica, a favore di un pensiero e di un modo di esperire il mondo che si fa sempre più superficiale, perché appunto privato della capacità della connessione logica ed emozionale. Di un pensiero cioè che si fa sempre più destrutturato e contingente, perché legato a un contenuto discontinuo, in cui ciò che prevale è solo il colore, fittizio e artefatto, di un frammento.

La tendenziale emarginazione del cinema d’autore a fronte dei media in streaming sarà così un’altra delle conseguenze della pandemia del Covid 19 e del suo profondo generarsi e iscriversi nel modo di produzione capitalistico,  quale sistema globale e quale orizzonte di un esperire umano che trascorre sempre più da potenzialità di profondità e connessione di senso ad una “mente orizzontale”. Ossia di una mente, che non potrà che percepire il mondo se non secondo l’esteriorità di una superficializzazione, che tanto affetterà il mondo degli enti quanto intristirà e mortificherà il mondo del proprio Esserci.