Che pesti – di Alberto Zino

Che pesti – di Alberto Zino

4 Dicembre 2020 Off di Francesco Biagi

di Alberto Zino

 

Con le parole la massima cautela è sempre

poca, cambiano opinione come le persone[1].

 

 

  1. Tra parole

 

 

Come in analisi, si segue un domandare.

È quel che si consiglia a un analizzante e la si nomina

– con lieve, augurabile, umorismo –

«regola», e per di più «fondamentale».

Del fondo. Che appartiene all’abisso.

E che lì sempre di nuovo lo porterà.

Che non si preoccupi.

Non c’è un altro posto dove andare.

 

Se si pensa che non sia così, l’idea è socialmente più rispettabile,

ma in psicanalisi sarà cambiata, non senza dispiacere.

L’unico luogo dove in quanto umani non smettiamo mai di andare,

anche se non lo sappiamo, è quel posto che i Greci per primi

hanno nominato abisso[2].

 

Vi è per avventura, caso o distrazione,

pestĭfer locus, davvero pestis fero, ciò che

porta la peste, comunica recandola,

nunc hinc nunc illinc[3], ora qui, ora là?

 

Oh, sì, da pestifera,

portatrice di me stessa,

apporto, cagiono.

Tra parole, la mia venuta,

non vi rechi meraviglia in eccesso vedermi qui.

 

Psicanalisi aggiunge

– con un certo affetto, devo dire –

che il suo luogo pestifero, ove riconduce,

è l’abisso che noi stessi siamo.

Lo chiama vuoto parlante.

Il nostro futuro, la nostra possibilità.

L’analisi è l’arte della sua Cura.

Così si può, tradotta, tradata,

tradetta, tra parole,

ribaltare la psicologia, farla

finalmente curiosa dell’uomo e della donna.

 

 

 

  1. Quel che portiamo

 

«Noi portiamo la peste. Non c’è per me altro gradus di riferimento.

Ciò che sta facendo psicanalisi come lavoro per la sua fondazione mi interessa solo se porta la peste. Così, sono dalla parte di psicanalisi e cerco la sua arte, senza condizioni.

La peste è la psicanalisi, il suo stato d’arte, il mare dentro della sua inquietudine. Mi piacerebbe trovare e ritrovare ancora una domanda inquieta. Ma per tenere alta la passione del domandare, i fondi devono seminare. Lo stare insieme degli analisti li diffonde e li sparge, giustamente incontrando dissoluzioni.

La fondazione è come la formazione, deve saper perdersi. L’arte del maestro sta nel favorire che venga dispersa, mossa nell’ascolto dell’altro, nelle sue azioni, nella sua scrittura. I raggruppamenti psicanalitici si incagliano qui. L’esercizio della parola diviene esercizio del potere. La vita di un’arte comunitaria degli psicanalisti proviene da una serie di piccole morti, talvolta dure e lievemente crudeli, ma senza transiti non si va da nessuna parte.

Psicanalisi, quando fa economia di sé, è quasi sempre perché cerca una credenza cui prestare i servigi. Se non è critica, fatalmente finisce per servire. Talvolta i detrattori, piegati alle esigenze del mercato, dicono che non siamo scientifici, che non dotiamo i nostri allievi di una tecnica precisa; non sanno quale piacere ci fanno.

Comunque: né scienza né fede, né medici né preti, ma arte, e per cui morire»[4].

 

 

 

  1. Si tratta di dire

 

 

Non si tratta di benedire

quel che sia l’inconscio o predire

il futuro, accudire

il marito e ammorbidire

il cliente, neppure c’è da blandire

il paziente, esaudire

il  maestro, illanguidire

la teoria, impedire

le dissoluzioni, oppure seguire

il tentativo moderno, postmoderno, di intimidire

l’interlocutore, inacidire

i rapporti prima che lo facciano loro, per questo irrigidire

la face a colpi di book fotografico, maledire

l’altro quando fa davvero l’Altro, sbalordire

con effetti speciali l’analista, soprattutto quello didatta,

tradire sempre, ubbidire anche, rabbrividire mai, obbedire casomai

e senza neppure combattere, si potrebbe ordire

qualche altra barbarie, intorpidire il pensiero per non disdire

il potere del sistema di controllo dominante, che si basa sul dover ignorare

e

non voler sapere, al fine di evitare di custodire

l’arte,

dell’analisi direste a questo punto,

ma no, della vita stessa, che poi non è così diverso,

o della faccenda antica del saper amare

che quella sì è davvero differente, e neanche

in fine si tratta di inorridire

per tutto questo, così lontano, direte, dall’etica dell’analisi

e del suo tentativo di libertà, e invece così vicino,

si tratta di dire,

l’arte dell’analisi e l’inconscio che viene,

manda lettere, e non fa che ridire

la vita, la sua, la nostra, che è  l’arte del tramonto,

come viene a dire

la luce del mare, tutte le sere.

 

 

 

  1. L’inconscio non la sa

 

 

In esordio ad un suo testo, Saramago cita Wittgenstein:

 

«Pensa per esempio di più alla morte,

– e sarebbe in effetti singolare se tu,

in questo modo,

non dovessi apprendere nuove rappresentazioni,

nuovi ambiti della lingua»[5].

 

Temo che non siamo eccessivamente abituati a questa figura.

Siamo avvezzi da qualche secolo – per non dire di più – a pensare che lei sia una sorta di annullamento: dell’aria, del sole, dei pesci del mare, per non dire del pensiero.

Invece, c’è un filo nella nostra cultura, che parte dalla tragedia e dalla filosofia greca e attraversa come una specie di nervo, talvolta scoperto, tutto il tempo fino a noi; o a centocinque anni fa, quando Freud inventa la questione dell’inconscio. Quando lo fa, tra le altre cose, dice che l’inconscio[6] non conosce la morte, non la sa.

 

Tipo pestifero, Inc. Non la sa, per come noi siamo abituati a sapere le cose. Quando lo scrive, forse neppure Freud sa che sta entrando in una cosa enorme, che contiene in sé un potenziale che non esitiamo a definire sovversivo, in rapporto al sistema ideazionale dominante.

Detto sistema, di per sé, non è che sia un male

(tra parentesi, l’inconscio non conosce neanche il male,

quindi siamo messi bene).

Detto sistema – non si può fare altro che dirlo in continuazione,

anche quando non lo sappiamo,

anche perché in realtà è lui che ha voglia di dire noi

quello che ci pensa, che pensa a noi da duemilacinquecento anni almeno, è un modo di pensare, di essere e di vivere che, essendo umano, ovviamente ha qualche difetto.

 

Non ci dilunghiamo ora su questo, ma è solo per scrivere

che se pensassimo di più alla questione della morte

– che per l’inconscio non ha nulla a che fare con la morte fisica, quella invece cui siamo abituati, bensì riguarda quella che chiamiamo la morte che è nella vita, quella che attraversa le nostre giornate, lei che è semplicemente il disappunto, la rabbia, la tristezza, il venir meno, la mancanza, ci sono parole che vanno in questa direzione -, lei, se avessimo l’accortezza di pensarla di più,

se fosse possibile, saremmo in compagnia;

forse meno soli di quanto pensiamo di essere.

 

Infatti, sarebbe strano se, pensando un poco di più

alla domanda-questione della morte, non potessimo

venire a sapere nuove parole, imprevisti ambiti del linguaggio,

nuove case.

Ma noi non ci fidiamo del linguaggio.

 

Paradossale, un poco assurdo, forse peggio: comico.

Proprio noi, parlanti, resistiamo da millenni all’unico fondo

che fa di noi una cosa, una parola,

solo nostra, che alcun altro vivente possiede.

 

Forse noi, lievemente appestati o semplicemente

di tanto in tanto pestati, abbiamo qualche ragione

per temere la parola, essendo noi parlantimortali.

Lei, parola, (at)traversata dall’assenza,

dalla mancanza, dall’abisso, dal gioco in quanto gioco,

ne sa più di noi; e diventiamo così piccoli confronto a lei,

così di poco conto, che davvero abbiamo ragione

di temerla.

Infatti la parola è probabilmente quella cosa[7] che,

insieme all’amore, suo succedaneo o anticipatore,

schioda, fa essere altro, porta altrove. Fa pensare.

Inc la dice di continuo.

Perché, come la morte, non la sa.

 

 

 

  1. Non siete rimasti soli a Port Bou

 

«C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di eventi, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera»[8].

 

Walter Benjamin scrive del famoso quadro di Paul Klee. Dovreste vederlo, forse varrebbe il viaggio a Gerusalemme, dove credo che sia ancora. L’angelo viene trascinato, spazzato via da una tempesta che proviene dal paradiso. Per impedirgli di voltarsi indietro, verso il passato. Guarda avanti, sempre avanti, c’è un futuro radioso, dobbiamo lavorare per il progresso, lo sviluppo sostenibile, la globalizzazione, la flessibilità, le mafie, il capitalismo, questo è il sole dell’avvenire, non voltarti all’indietro, è una perdita di tempo, è solo nostalgia. L’angelo soffre. Ha appena spalancato la bocca per lo stupore, ha guardato, ha aperto le ali come per volare. Verso la Storia. L’angelo pensa che lei ha bisogno di lui. Perché i suoi occhi grandi e teneri hanno visto che lei è coperta di macerie, degli avanzi degli uomini. Vorrebbe voltarsi indietro e, alla maniera dei ricordi, ritrovare i morti, le catastrofi, la miseria umana, gli eccidi. Non vorrebbe che fossero cancellati. Mentre il vento lo strappa via, lui vorrebbe restare tra quelle vittime, per tenerle strette a sé, per donare loro un senso.

L’angelo, mentre la bufera gli si impiglia tra le ali, non ama per nulla l’idea che i massacri e gli orrori possano essere ritenuti necessari, funzionali a un miglioramento o all’approdo a qualche beatitudine o salvezza collettiva. Forse l’angelo non vuole che le macerie della storia – anche quelle di ogni persona, di ogni romanzo familiare – restino mute dinanzi al nostro domandare, mascherate da miti e promesse accattivanti. Ma che facessero, in quanto ricordi, il loro lavoro, alla loro maniera, che è quella di parlare. Avere voce.

Caro Walter, caro Angelo, non siete rimasti soli a Port Bou.

 

 

 

  1. Se esistono gli angeli

 

In una morale è in questione la nostra essenza. Che cos’è l’essenza?[9].

Quella ‘cosa-(parola?)’ che la morale si occupa di

“realizzare” (horribile dictu), dato che

qualcosa come l’essenza non deve essere mai pienamente realizzata.

Qualora per avventura lo fosse, non vi sarebbe più alcun bisogno

di costruire una morale che le faccia da sponsor, come si dice oggi.

 

Pur non lasciandolo trasparire in modo sempre evidente, la morale parla e dà ordini in nome di quell’istanza superiore. E se fa questo, se cioè una morale deve dire che cos’è l’essenza, che sta obbedendo ai suoi ordini anche se non si sa cosa lei sia, vuol dire che l’essenza è pensata dalla morale come qualcosa che non potrà mai realizzarsi di per sé.

Viene ritenuta essenziale, assoluta, imperdibile, però ogni volta, guarda caso, non è presentabile: non ha vestiti adatti, non si pettina bene e non so che altro. Allora bisogna sempre inventare un’interfaccia, tramite la quale comunica… con chi? Con noi, naturalmente. Parliamo di essenza dai tempi più remoti, però abbiamo sempre avuto – in un modo o nell’altro – il bisogno di costruire dei sistemi morali che portino finalmente le cose alla loro essenza, o che le realizzino.

Cose, non parole. È più comodo, con le parole è più difficile. Facciamo cose, feticci, merci, ne creiamo il bisogno. Le parole, quegli strani esseri senza corpo, prima o poi si adegueranno; vedrete, anche loro saranno prodotti, si potranno comprare e vendere.

Sullo sfondo, mentre leggiamo, possiamo pensare alla psicanalisi. Ad un’analisi come vicenda umana in cui lei e l’analista sono lì per aiutarti a esprimere finalmente il tuo valore, la tua essenza. Pensate a questo e cominciate davvero male.

 

Il vostro analista, anche perché non lo vedete, impreca come un carrettiere, perché ha capito che deve fare un lavoro non propriamente così piacevole, con voi. Però tant’è: voi siete umani, lui è un angelo

– sostengo da qualche anno, per fortuna senza l’onere della prova e immagino non senza lieve blasfemia, che l’analista sia tale -,

quindi impreca, si arrabbia, però poi alla fine, se esistono gli angeli, cercherà di darvi una mano a uscire da questa esiziale convinzione, cioè che si va in analisi per farsi dire da un altro quello che si deve essere.

Se una persona sapesse a cosa va incontro quando fa una domanda di analisi, non la farebbe mai. Una buona parte delle arti analitiche consiste anche nel lasciar credere alla persona che le cose stiano effettivamente come lei pensa o spera; mi rendo conto che non è il massimo della morale.

Ma la psicanalisi non è una morale né una credenza, neppure un’essenza o un’idea del bene.

L’analista non fa finta e non inganna. Tuttavia, all’inizio, sa che deve lasciar correre una serie di cose, di parole, perché non può sempre strozzare l’analizzante alla prima seduta.

 

 

 

  1. Etico, se mai.

 

Freud, L’interpretazione dei sogni, 1899.

Si chiama Traumdeutung, La significanza del sogno, invero.

Alla fine del sesto capitolo, che ha per nome “Il lavoro onirico”, Freud scrive di quello che ancora, in quel tempo, chiama il pensiero del sogno, e che di lì a poco scoprirà trattarsi dell’inconscio, qua talis più o meno.

In vero, Inc – il sogno, all’epoca – non è più sciatto, più scorretto, più smemorato del pensiero vigile, ovvero la coscienza. Non è un fratello povero, più trasandato, superficiale, più incompleto, insomma, più cretino del primato (?) del vigile, la guardia, la garanzia.

Non è Poros, padre di Eros, che fa il vagabondo.

Anzi, lui, quello immorale, che abita nel calderone delle pulsioni,

chi sa che case, che giardini, che vita, se mai,

che peste, non è vestito male, talvolta si presenta regale

la via regia è la sua strada, dirà il fondatore,

via dalla pazza folla

che popola la coscienza, le sta lontano.

 

Non appartiene, dice di sé,

al pensiero vigile; è proprio di qualità differente e

perciò non confrontabile in alcun modo con quella che

senza saper cosa dire, come fare, dove andare,

ci ostiniamo

a chiamare  ‘coscienza’.

Segue, da quelle parti nel testo,

una frase di cinque verbi, famosa tra noi, psicanalisti e appassionati:

«Non pensa, non calcola, non giudica affatto, si limita a trasformare»[10].

 

È chiaro che non ce la farà mai,

come umano ha i suoi limiti,

però l’ideale sarebbe che l’analista

arrivasse ad essere come l’inconscio.

Se l’analista non giudica non è perché tale non

faccia parte di chi sa quale ordine,

istruzione o dover essere,

è perché l’inconscio non giudica.

Dovrebbe essere così,

non per un motivo morale,

ideologico o di conformità a qualche legge professionale.

Lo psicanalista è stato formato a non essere morale.

Etico, se mai.

 

 

 

  1. Che pesti

 

«Di fatto, l’opacità della “cosa”,

il suo sfuggire alla presa del concetto,

lavora incessantemente ogni rap-

presentazione, ogni sapere.

Ma quest’ultimo»

– il sapere, quindi l’interrogarsi, il domandare -,

«non perde la sua forza – meglio: la sua efficacia –

solo quando coglie la non identità a sé della cosa»[11].

 

Sapere non perde efficacia –

non perde etica, non perde volontà di domandare,

di interrogare, non arretra di fronte a istanze

morali troppo dure che vorrebbero catalogare

questo sapere, inserirlo sempre in qualcosa

di già visto e già dato –

solo e soltanto se coglie la non identità a sé della Cosa.

Qui – per Cosa – non pensate all’oggetto. No.

La Cosa siamo noi. Misteriosa das Ding,

solo e soltanto se coglie, se in qualche modo afferra,

se si lascia prendere, toccare dal fatto che lei

lacosalaparola

che noi stessi siamo, non è sempre identica a sé,

ha molte sfaccettature, molte morti, qualche vita…

 

Ciò tuttavia apre a un lutto.

Perché noi vorremmo invece essere identici.

Che pesti che siamo.

 

Nella nostra silenziosa, poco trattabile follia, vorremmo essere identici a noi stessi, e non riusciamo a capire che nel momento in cui lo diventassimo veramente, noi saremmo morti. Proprio finiti. Senza volerlo sapere, parliamo attraversati da questo lutto, perché siamo anticipati dall’idea che invece essere non identici a noi stessi, essere altro, avere degli spigoli che non controlliamo, in noi o nel simile, sia un male.

 

Invece, lo strano fascino di un tempo

degno malinconico

accoglie il non identico, il fatto che non siamo padroni,

e che nella Cosa, nella parola-(non)-della cosa,

nell’altro, ben poco a priori è per noi.

Occorre lavorare per costruire qualcosa di differente

rispetto a ciò che sembrerebbe

falsa mente,

più naturale.

 

E ciò che sembrerebbe tale, di solito – quando ci vengono delle fregole contro il non-identico, contro la sorpresa che noi stessi dovremmo imparare a essere per noi stessi -, in genere si danno due reazioni dedicate:

– ci apriamo alla persecuzione: la colpa è sempre dell’altro se non sono identico; e invece di dargli un fiore perché, se Inc vuole, mi fa sentire non identico, lo perseguito;

– oppure, secondo un’altra piega, ci dedichiamo alla depressione.

 

 

 

  1. Siamo sempre stati salvati

 

«Di contro, l’inconscio è ciò che inevitabilmente si sottrae a qualsiasi risposta o teoria ad hoc. È ciò di cui non si può predicare, se non invano. Se si vuole, questo è il paradosso del divano, del dire vano, come Lacan indica da qualche parte. Che l’inconscio non con‑sente nessun legame logico, ordinato; nessun fondamento»[12].

 

È per questo che si dà analisi. Ecco il capovolgimento: il sistema ideazionale dominante, o quello che Freud chiama il sistema della coscienza, pensa il contrario. Che se l’inconscio non permette alcun fondamento, qualsiasi lavoro psicoterapeutico è impossibile. Per noi, proprio perché non si dà fondamento, si dà analisi. Ciò suppone una concezione dell’analisi radicalmente differente da quella che tenderebbe a installarsi solo su possibilità fondanti e si definirebbe in tal modo come una pratica restaurativa o restituitiva. Di cosa? Di un’essenza prima o poi. Una concezione dell’umano in quanto ente da aggiustare è differente da un’altra che non prevede per l’umano alcun spinterogeno, portiera o carburatore di cui invocare la messa a punto.

 

Il desiderio di Freud. Ne scrive al pastore Pfister, parlando della formazione degli psicanalisti: “una schiatta di umani che non siano né medici né preti”. Come sapete, egli era medico e psichiatra. Aveva i titoli per non essere un buon psicanalista, come precisa nel 1926[13].

Se non si trova il modo di uscire, per quanto possibile, da un’identificazione massiccia con il sistema ideazionale dominante, ci si dedica alla paranoia persecutoria oppure alla consolazione di un sistema morale o religioso[14].

Lacan si pone il problema di un modo, uno stile della formazione che non fosse solo tecnico o professionale, perché capisce che si tratta innanzi tutto di una formazione umana, etica, politica, critica e cioè filosofica. Ciò sposta fin da allora l’idea dell’analisi e dell’analista su un piano che non è solo quello di una cura in quanto prevalentemente restitutio ad integrum[15].

Altrimenti si continua a diventare medici o preti. Nulla contro le due categorie, anzi. I primi hanno salvato e salvano uomini, donne e bambini – le bambine vengono più raramente nominate -, i secondi salvano le anime. Siamo a posto. Siamo sempre stati a posto. Siamo sempre stati salvati.

 

 

 

  1. Lieve arte dei ricordi

 

In fondo, forse proprio in fondo, la speranza di das Kapital è che Inc non avvenga, che non ve ne sia più un futuro. Psicanalisi non è sovversiva per partito preso, per boria, per conquistare un partner o darsi un contegno. Psicanalisi è comunque sovversiva, perché – da peste qual sia – pone in atto il riconoscimento della questione dell’inconscio. L’umano ha orrore di essere lui ad avvolgere i fatti in un lenzuolo di senso: perché allora non c’è Altro dell’Altro né garante.

 

Ogni tappa della vita è un po’ il lapsus della precedente, gli eventi non muoiono né sussistono mai del tutto, la relazione delle parole e delle cose vive alla maniera dei ricordi e della metamorfosi. Tra la vita e le opere compiute, i piccoli quaderni che ognuno conserva nella tasca o nella borsa, le conversazioni tra amici, gli appunti presi a un corso di psicanalisi, le passeggiate sul fiume, tutto costituisce un intermediario, un transito o un passaggio. E tutto infine impedisce di considerare la vita come una semplice tomba in cui la persona finirebbe completamente. Se l’inconscio non conosce la morte è per questo, per via di questa domanda immane ed eterna che chiede costantemente di essere, in un modo o in un altro.

Forse più di ogni altra parola, i ricordi e la loro maniera di vivere, il loro stile di vita, sono la testimonianza di quell’affascinante e spudorato spaesamento che è la vita.

 

L’arte dei ricordi in analisi non è la loro ricostruzione, ma il racconto. Farli parlare. La loro lingua. I ricordi parlano senza timore della contraddizione, come i sogni o gli innamorati.

 

 

 

  1. Un caso di coscienza

 

La coscienza. Un mistero. Nel 1915 Freud rinuncia a dare alle stampe il saggio che aveva scritto sulla coscienza, lo prende e lo getta nel camino, che naturalmente era acceso. Così, non c’è mai stato un saggio sulla coscienza.

Altre volte abbiamo ricostruito quella storia, suggerendo che forse non è stato un caso. Freud si era accorto di qualcosa che, se leggiamo la sua elaborazione, in particolare il capitolo VII de Linterpretazione dei sogni, quando parla del rapporto tra la coscienza e la traccia mnestica, possiamo notare. Aveva capito una cosa a tutt’oggi inquietante: scrivere sulla coscienza è impossibile. Strano, qui c’è davvero un lieve gioco di specchi.

Possiamo scrivere infinite volte sull’inconscio, probabilmente non facciamo altro, forse nessun autore ha mai fatto altro in realtà, ma non possiamo scrivere neanche una parola sulla coscienza. La ragione di ciò la trovate nascosta, in modo lieve ma sapiente, in quel capitolo VII, dove Freud dice: la coscienza non ha memoria.

Non è niente, passa. La coscienza è un luogo preso a prestito per un attimo, dove passano le cose, le idee e naturalmente, soprattutto, le parole. Ma, poiché non ha ricordi, tutto ciò che passa, un attimo dopo non c’è. Dove vanno le cose che trascorrono nella coscienza? Curioso che, dopo Freud, tutto il ‘900 si è interrogato al contrario: dove vanno le cose che spariscono? Dove vanno le cose dell’inconscio? Freud si fa la domanda opposta: dove vanno le cose della coscienza posto che non vanno da nessuna parte? Che peste, le sue domande.

In realtà, sapeva. L’aveva scritto già anni prima. La coscienza non ha serbatoio, non ha ricordi, né reminiscenze o memoria, è questa l’alienazione costitutiva della nostra struttura. La memoria, il disco rigido, è l’inconscio. Tutto ciò che passa, poi finisce lì e da là tramite un infinito ricordo continua a investire ciò che passa dalla coscienza, anche solo per un attimo.*

 

 

 

  1. Chi si porta la pila da casa

 

Il linguaggio permane anche come fondamento,

se volete, ma sempre su un fondo enigmatico, misterioso.

In analisi, il fatto che grazie alla parola la cosa continui a mancare

è dovuto anche a questo: non sono io che chiarisco né l’analista.

Noi abbiamo in mente una clinica,

una clinica del legame, acefala, senza testa.

È la schiarita che illumina,

il lavoro stesso della parola e del domandare;

non c’è l’analista che accende la luce

o l’analizzante che si porta la pila da casa.

Tuttavia noi siamo fatti in modo tale che

ci aspettiamo sempre che i cambiamenti,

i miglioramenti, arrivino da qualcuno

che è umano troppo umano.

Insomma, ad andar male, un po’ come noi.

Allora li aspettiamo dall’analista e il fatto

di consegnargli le chiavi del potere

ha il preciso compito di togliere

alla figura dell’analista ogni possibilità analitica.

Quando l’analista si trasforma in una delega

o in un mandato (salvifico?) l’analisi è già finita;

purtroppo tante analisi hanno soltanto il senso

di sostituire tutti gli dei precedenti

con lo psicanalista.

Quando questo giochetto riesce e ambedue

i complici ci stanno, non può darsi analisi.

 

Del tutto contro – è una questione politica –

l’analisi si fa in tre, non in due,

non è un rapporto tra padrone e schiavo;

c’è un terzo elemento che lo impedisce,

è la parola,

se riusciamo a esserne all’altezza e a starle dietro,

lei, pestifera non poco.

 

Uno dei due lo deve sapere.

In quel particolare senso del “sapere” che è

la formazione dell’analista.

Per questo Lacan azzarda, senza pietà,

che la resistenza è sempre dello psicanalista.

 

 

 

  1. Tramonti

 

Non siamo più quelli di prima

forse neppure di dopo

il moto pestifero non riconduce

sempre, mai allo stesso punto,

non c’è verso

la sua occasione,

non per forza occasi,

tramonto, venir meno,

è il muta mento

 

oltre l’intorno più prossimo del nostro campo psichico,

gli effetti lungo un’analisi,

seduta dopo seduta,

parola dopo parola

pestano ripestano

premono spingono verso un

non sempre accogliente

  • a prima vista, a prima voce, a orecchio in ogni caso –

svia mento

che la verità non è mai una.

 

 

 

  1. Anche perché

 

Sarebbe proprio il contrario

del non voler sapere.

Anche perché

come osare vivere in due

o quanti saremmo ogni volta

via via, lungo la strada a osare camere,

stanze, studi, luoghi di parole,

sguardi voci altri amori,

le tre scene essenziali nelle vite nostre,

che loro appartengono –

l’amore, l’educazione, l’analisi[16],

i tre impossibili

che sempre ancora ci tengono

abbracciati all’ignoto.

 

 

 

  1. Un fiore grida

 

«NEL GIRO, udito

sproloquiare a vuoto,

con guaito servile

in certe pause –

 

Ti ridon dietro, e tu

con presagi in gola,

bocca goffa,

traversi a nuoto il tratto di destino.

 

Il grido di un fiore

cerca di giungere a esistenza»[17].

 

Tu sei quello che sei, sproloqui a vuoto, ti lamenti da servo. Ti ridono dietro. Forse non gli altri umani, forse le parole stesse della poesia, forse un certo domandare autentico ti ride dietro, e tu? Non trovi di meglio che sentirti accusato, ricorri alla solita carta sicura del senso di colpa con annesso risentimento, la tua bocca diventa goffa, allora cerchi frettolosamente di attraversare a nuoto quel tratto del destino, chiudere subito l’incidente, arrivare dall’altra parte, come al solito, come al solito cerchi di salvarti. La salvezza è l’opposto del pensiero critico. Nel frattempo vicino a te, non lontano da te, da qualche parte un fiore grida. Per giungere a una forma di esserci, a un modo di esserci.

Dasein. Heidegger lo conosceva bene. Si sono pure parlati, i due.

Quindi, nonostante la stupidità, il misconoscimento, l’evitamento, nonostante il sistema ideazionale dominante o la protervia umana, resta bella l’idea

che la miseria forse non riuscirà a modificarci

tramite la tristezza forse almeno fino a quando

da qualche parte c’è un fiore che grida

per tentare di esistere differentemente,

vi auguro di essere questi fiori qualche volta prima o poi.

 

 

 

  1. Che Altro

 

L’Altro esiste dalla notte dei tempi, ma ogni volta bisogna rifarlo, ri-produrlo. Cos’altro fa sì che un piccolo dell’uomo quando viene al mondo debba rifare ogni volta la fatica millenaria che tutti gli altri hanno già fatto prima di lui? La cosa più stupefacente della struttura umana è che l’Altro esiste da quella notte, ma non per questo noi siamo semplicemente delle pietre, che veniamo al mondo, c’è l’Altro che ci stampa, ci dà tutto, l’identità, la cartina, la tessera e noi siamo morti ancor prima di vivere. L’Altro è probabilmente la cosa più potente che si possa immaginare, ma ripeto che la cosa più stupefacente, meravigliosa è il fatto che ognuno di noi con questo Altro deve rifare il percorso e questo fa sì che si diano nozioni comuni, incroci, incontri, dis-incontri, dis-incroci.

L’Altro esiste dalla notte dei tempi, ma ogni volta bisogna rifarlo, ri-produrlo, altrimenti saremmo pietre. La cosa più stupefacente è che l’Altro, il Grande Altro ogni volta, per ogni umano va rifatto. L’Altro – l’ordine simbolico, ciò in cui noi siamo piovuti ad un certo punto – è il rifatto.

E a questo serve l’amore, tutto l’amore del mondo e tutti i legami del mondo, servono a rifare. Qualcosa che non è mai possibile rifare del tutto, ogni altro insieme a noi e dopo di noi dovrà ripetere la stessa fatica.

 

Pesta che ti ripesta siamo sempre lì,

domanda mai riposta,

in cerca di un compagno

d’analisi, di vita, di amori.

Lui o lei è, che resti, che vada.

 

 

 

  1. My only friend, the end

 

Quando ero piccolo, psicanaliticamente parlando, avevo iniziato a lavorare da poco, ricordo che studiando Freud e Lacan mi colpiva il fatto che la condizione dei transfert fosse quella di entrare nelle serie psichiche dell’analizzante, facendone parte.

Comprendevo come questa specie di appostamento al fine di appestare dal di dentro i sintomi dell’altro avesse una specie di funzione omeopatica. Tuttavia il mio principale pensiero non era lei o lui: come aiutare a liberarsi dal malessere, dai sintomi, verso la via regia dell’inconscio e delle conquiste dell’analisi.

Ero molto preoccupato di quello che mi aspettava. Pensavo: quando farò l’analista, dovrò entrare nelle sedi psichiche dell’analizzante; ma poi come ne esco? Roba che scotta, nella formazione dello psicanalista.

Il mio problema non era come entrare, ma come fare a uscire. Mi rendo conto che forse ero un po’ egoista in quel tempo, però era questo il punto. Riuscirò io a liberarmi di lui? Non pensavo se lui sarebbe riuscito a liberarsi non solo di me, ma anche di una vita sintomatica, non avevo chiara la questione della libertà.

Sulla grande questione della fine di un’analisi abbiamo dedicato molte parole, in scritti e seminari, lungo tutti questi anni.

La libertà – una possibile libertà – è la posta in gioco di un’analisi, ma chi ne è l’artefice? Le analisi finiscono quando lo dice l’analista o è l’analizzante che a un certo punto deve avere il coraggio di alzarsi ed andarsene?

È possibile che a volte analisti e analizzanti non si siano mai riavuti da questa domanda, che è feroce, per l’unico motivo per cui le domande possono diventare veramente crudeli: non si sa come rispondere. Allora accade ciò che in genere succede quando non si sa come rispondere, si diventa più o meno ossessivi; e si sta in analisi tutta la vita, tanto non so come fare a rispondere.

 

«A mio parere, la situazione della psicanalisi è che ancora non è profana. Non lo è perché non è domanda. È ancora risposta, percepisce se stessa e si descrive, si tecnicizza e si pratica come se potesse provenire ancora dal mondo della coscienza, dal mondo che lei stessa ha fatto vedere sotto la luce di una padronanza finta, posticcia.

Gli psicanalisti parlano di psicanalisi come se non lo fosse. Ma essa, in rapporto all’uso dei saperi e del pensiero, è del tutto un’altra lingua.

Si pone dunque il compito, forse sarà sempre necessario, di fare la fatica di giungervi, a questa psicanalisi»[18].

Anche perché «ogni fatto è sempre meno interessante del racconto che se ne fa»[19].

 

Forse è poco elegante pensare

che il fine o la fine di un’analisi

possa consistere nell’appestare

le parole

o nel far sì che giungano a portare da sé

– entro sé, via da sé, quale sé? –

la loro possibile libertà.

Ma è di lei che si tratta.

 

25 ottobre 2020

 

Note: 

 

[1] J. Saramago, Le intermittenze della morte, Einaudi, Torino 2005, pp. 58-9.

[2] Dal gr. ἄβυσσος «senza fondo», comp. di ἀ- priv. e βυσσός «fondo», lat. abyssus. [Vocabolario Treccani].

[3] T. Lucrezio Caro, De rerum natura, II,241, Sansoni, Firenze 1978, p. 82.

[4] A. Zino, Necessità della psicanalisi, Edizioni ETS, Pisa 2019, pp. 24-5.

[5]  L. Wittgenstein, Diari 1936-1937, cit. in J. Saramago, Le intermittenze della morte, Einaudi, Torino 2005, p. 6.

[6] Talvolta, vezzeggiandolo, lo sigla Inc.

[7] Ora, chiamare ‘cosa’ la parola è un poco irriverente.

[8] W. Benjamin, Opere complete, VII, Scritti 1938-1940, Einaudi, Torino 2006, p. 487.

[9] G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, ombre corte, Verona 2013, p. 78.

[10]  S. Freud, L’interpretazione dei sogni,  in Opere, vol. III, Boringhieri, Torino 1978, p. 246.

[11] A. Rescio, Inconscio e umorismo, in Aa. Vv., “Trieb. Intorno alla psicanalisi”, n. 1, La Spezia 1982, p. 42.

[12] A. Rescio, Inconscio e umorismo, cit., pp. 47-8.

[13] Die Frage der Laienanalyse [La domanda dellanalisi profana], 1926.

[14] Cfr. Rescio, Inconscio e umorismo, cit., p. 42.

[15] Locuzione latina che indica una ritrovata normalità e funzionalità degli organi a seguito di malattie che li hanno colpiti.

[16] Cfr. Come osare vivere in due, in “Comunità psicoanalitica”, Rivista della Comunità Internazionale di Psicoanalisi, n. 4, in uscita presso Edizioni ETS.

[17] P. Celan, Oscurato, Einaudi, Torino 2010, p. 38.

[18] A. Zino, Il panico e la sorgente. Psicanalisi, DSM e altre domande, Edizioni ETS, Pisa 2014, p. 115.

[19] N. Gómez Dávila, Tra poche parole, 1996, Adelphi, Milano 2007, p. 108.