Con Paul Celan sullo stato d’animo del presente – di Mario Pezzella

Con Paul Celan sullo stato d’animo del presente – di Mario Pezzella

10 Novembre 2020 Off di Francesco Biagi

di Mario Pezzella

 

Vuoto di tempo, sotto

i tre cirri

grigiosibilla, argentei

 

Un vuoto-di-tempo (Zeitlücke) è quando le sue dimensioni tacciono; in un alone di tempo il presente è l’incrocio nell’attimo di vibrazioni che sempre più indistintamente si prorogano dal passato e verso il futuro; vibrazioni in senso quasi musicale, come in un diapason, il cui suono si dilata e si attenua lentamente, prima di spegnersi, intreccio del suono appena udito e attesa di quel che è per venire. Nel vuoto di tempo il presente è un trauma muto. E chi vive in esso subisce una crisi della presenza. Il movimento delle dimensioni temporali si è bloccato in una attonita immobilità, senza memoria, senza speranza. Non esiste più il passato del presente, non esiste più il futuro del presente, perché il trauma ha annullato la presenza.

Vuoto, Lücke: ma anche lacuna e divario, carenza, e anche – per quanto questa possibilità sembri remota – un varco: nella sospensione attonita del vuoto l’assenza della memoria e della speranza potrebbe suggerire un varco verso qualcosa di finora impensato. Ma esiste qualcuno che sappia intendere la cifra del vuoto?

In questo attonito stupore in cui siamo, ci sono solo dei cenni difficilmente decifrabili e inconsci. Tre cirri nel cielo dell’anima. Ma non è detto che comunichino veramente qualcosa; certo, se profetizzano, lo fanno in modo ambiguo, obliquo, come sibille grige, senza colore: oppure di un argento enigmatico come quello della luna.

 

Niente più cielo intorno

alla boa del primo

galleggiante,

 

Il primo segno-nuvola oscilla nel nulla: questa grigia sibilla non ha più alcun cielo intorno a sé, non ci sono più le stelle e tanto meno la luce del giorno o l’oscurità della notte. È il niente di cielo del capitale perfettamente realizzato, la consumazione e la fine della terra. Questa azione è stata compiuta con una violenza protratta ed attiva: intorno al cirro c’è un ent-himmeltes, un “dis-cielato”, un cielo che è stato negato, strappato e oscurato, un dis-cielo, non semplicemente un’assenza, ma un essere che è stato violato. È la religione del capitale giunta alla sua apocalissi, il demone che ha roso il cielo.

 

Vuoto di tempo, ancora,

nell’identico luogo, lì,

dove le assenze di luogo ,

quelle con voce cupa,

giungono a coricarti

in gran sfilare

di logore bandiere

 

Nel vuoto del tempo che stiamo vivendo, i luoghi perdono contorni differenze colori, fusi in uniforme assenza o anche in ipercolorata superficie iridescente, che è solo un velo superficiale del sostanziale non essere (secondo cirro). Essi hanno perso le qualità promesse dal loro nome, precipitati in una smorta indifferenza (turistica…). Abbiamo a che fare solo con assenze di luoghi, di cui stiamo perdendo il ricordo, e questi non-luoghi ora popolati di morbi e di morti stanno rivelando la cupa essenza latente che prima nascondevano sotto un moto frenetico e scintillante. Luoghi di voce oscura, dunkelstimmigen. Il movimento tra luoghi indifferenti infine lascia il posto all’indifferenza stessa della morte, nella sua suprema astrattezza, movimento compiuto dell’anima e del culto del capitale.

Ora queste assenze ci stendono per terra, ci coricano in un letto di dolore e ci abbattono, mentre sfilano le logore bandiere con cui credevamo di intendere il mondo. Logora l’utopia del capitale neoliberista, che porta il mondo al suo nulla, logore e cieche le sue sonore parole; ma logora anche la nostra vecchia bandiera di Spartaco, chiusa in una teca, e che nessuno saprebbe innalzare, senza che il solo contatto con l’aria la riduca in cenere; logoro il tempo che resta e la fine della storia, il governo dei viventi e la nuda vita, il desiderio e il rizoma, lo spettacolo e l’hotel dell’abisso. Al loro posto le voci oscure. Nel vuoto del tempo la moneta del valore si svaluta paurosamente, rapidamente, da un giorno all’altro. Non si può far altro che sostenere il vuoto, a che vale restare fedeli a bandiere logorate?. Forse che dal logorio del capitale nasce il suo autogenerato becchino? Un comunismo epidemico? Smettiamola con la più logora di tutte le logore bandiere (il gioco del non-non che diventa sì, magia da bagatto dei baracconi, bacchetta del tarocco, slot-machine dove infili il peccato e scrosciano le monete della grazia).

 

Il più vicino e terzo:

coronato con

ciarpame di ribelli

e sferraglianti

sonagli da buffone,

sonagli da savio.

 

La terza nuvola-segno (o sogno) ci dice di che cosa possiamo effettivamente disporre per fare fronte a un vuoto-di-tempo; non molto. La nostra ribellione può appellarsi solo a ciarpame desueto, stracci arlecchineschi e fucili col tappo, buoni solo per il carnevale.

E chi sono i ribelli nel caos in cui siamo? I ribelli contro lo Stato? O chi dice: “Produzione o morte”? Sono ribelli i fascisti o i libertari o entrambi o nessuno di loro? Perché tutti si proclamano volentieri ribelli, benchè non sappiano precisamente contro che cosa. Contro la nuda vita? Contro la morte? Contro il potere?

Le parole ribelli ci giungono innumerevoli dal passato, troppo perfino, perché non sappiamo leggere quelle che ci servono, le poche che ci servirebbero; le altre nel loro accumulo sono solo ciarpame, come distingueremo ciò che vale in questa discarica? Le nostre invettive e la nostra rabbia sono solo sonagli, che passano continuamente dal collo di un saggio a quello di un buffone, giacchè i savi di un’ora sono i buffoni dell’ora successiva: ma anche l’inverso è vero, e cioè che la verità deve dissonare nel sonaglio dei trickster che la pronunciano distorta al cospetto dei re, come nelle commedie di Shakespeare. Almeno loro sanno che le parole che usano sono per compiacere, per far ridere, per darsi un quarto d’ora di buon tempo, per imbrogliare, sanno che nel vuoto del tempo tutto è parzialmente clownesco. Che ogni sovranità è grottesca.

 

Canto urgente dei pensieri

Mosso da un sentimento

 

Canto urgente, Notgesang: nel vuoto di tempo del trauma, nella crisi della presenza, il pensiero si affanna con ansia a cercare di intendere, mosso dalla necessità di trovare un punto di orientamento o un punto di riparo. Il sentimento dominante è l’angoscia, che si ridesta non appena la catatonica immobilità del trauma lascia un respiro libero. Si vuol capire a tutti i costi qualcosa, ma non ci si riesce, nessuna delle categorie di pensiero sembra reggersi in piedi, infinite autorità si levano in piedi ogni giorno per ricadere nel loro nulla privo di autorevolezza. Sicché questo sentimento

 

molti

non ha dei  nomi

destati grazie al canto

 

Il canto dei pensieri rievoca tradizioni vicine e lontane, racconti e narrazioni di casi che sembrano simili al nostro, è in realtà un Notgesang, un canto d’emergenza, che si cerca di opporre al Notzustand, allo stato d’emergenza proclamato dai governi, dalla scienza, dalla condizione di disordine sistemico del capitale, che ha scomposto gli elementi della natura, ha prosciugato l’acqua col fuoco, e la terra inaridita ha bruciato l’aria, e quest’aria devasta i nostri polmoni (Apocalypsis sine figura), ma nessuno vuol dire che un oltrecapitale è possibile, nessuno può dirlo, questo direbbe il canto d’emergenza, in stato di necessità, di desolazione, di stento: NOT. E allora il nostro sentimento affannoso, la nostra ricerca angosciata non si riconosce in nessuno dei nomi che il canto dei pensieri ha cercato di levargli davanti. Mancano certo i nomi di Dio, ma anche quelli degli uomini, tutti i nomi che si destano dal passato a soccorrerci restano incompresi.

 

Spinoso,

così, inconfondibile,

dall’aspra macchia

sporge, con essi, verso

te,

 

E’ una strofa di passaggio, non sappiamo cosa sporge oltre questa situazione di inchiodamento e chiusura, dalla selva oscura e selvaggia e aspra emergono spini che feriscono e pungolano senza perché, feriscono il corpo, parlano ferendo il corpo, in modo inconfondibile, inequivoco, deciso, gli spini sanno benissimo cosa vogliono, siamo noi che oscilliamo alla cieca in un sentimento senza nome, e allora gli dei ci parlano dalle patologie dei corpi, ci avvertono della nostra insensatezza, è un messaggio

 

stachlig

 

viene ripetuto, che ferisce, che non consola, Stach è un pugnale, stiamo parlando di aculei, di punte acuminate, che emergono dalla selva aspra e oscura della natura divenuta indecifrabile, per noi, e che invece lancia messaggi inequivocabili, solo noi siamo così immersi nella stoltezza, da non comprendere, prima ho detto che il nostro stato d’animo dominante è l’angoscia, ma forse mi sbagliavo, forse è invece la stoltezza, Stultitia, quella che prende il vetricolo scintillante di basso prezzo per raro diamante, l’apparenza per essenza, quella che inverte l’immaginario e il reale, sonagli da buffone, mascherine tricolorate del capitale, ma ecco che allora verso di noi, cosa sporge?

 

Un piccolo morire

aleggia

 

umher, umher, di qui e di là, sparso per l’aria, quasi inavvertibile, la morte è sempre seria, alle volte eroica, ma questa non ha proprio nulla di sublime, è una piccola morte, portata da polvere e microorganismi, o da radiazioni come quelle di Hiroshima, o da gas vaporosi come quelli di Auschwitz, non è la morte dei ribelli di Varsavia, non è la morte di Spartaco o di Rosa, no, è solo quella che ci meritiamo, morte nata dalla stoltezza, dalla negazione del canto e dei nomi, dalla nostra fedeltà volontaria al falso Messia, al cavaliere scimmiesco, alla bestia con tre teste (rendita, profitto e salario), danaro Padre, che produce danaro Figlio, che produce danaro Spirito. Qualcuno però non deve rassegnarsi,

 

Con noi, gli

sballottati, eppure

in viaggio

 

noi umhergeworfen, beh, un po’ più che sballottati, scagliati gettati, ancora una volta torna umher, scagliati in tondo, qui e là, a casaccio e chi sa dove, in girum imus nocte, per luoghi bui e profondi, a vagare, senza presenza, senza orientamento; eppure, eppure qualcosa sussiste, è una cosa che sembra da poco, del tutto negativa, ma che forse può resistere:

 

questo

intatto,

non usurpabile,

rivoltoso

corruccio.

 

O semplicemente rivoltoso dolore, ma ciò che qui importa è l’aggettivo. Senza nomi, nell’urgenza del canto del pensiero, che però non ha orientamento e saperi sufficienti, anche perché i fascisti si atteggiano ora a ribelli libertari, anarcoliberisti, aperitivisti, così hanno sempre iniziato, nella stessa ambiguità che oggi pertiene alla ribellione e ai tumulti; eppure cresce inusurpabile il bisogno della rivolta oltre il capitale. Riusciremo a dargli volto chiaro e parola distinta? Al momento volteggia solo per l’aria

 

Il lillà turco, piano,

e interrogando ottiene

più del solo odore

 

e certo è ancora poco, solo Celan e il suo Dio-Nessuno sanno cosa significhi qui un lillà turco, qualcosa che viene da altrove, o forse dalla terra dell’infanzia e della madre, che interroga come un sopraggiunto incongruo, e mandato da chi non si sa, però interroga e ci fa interrogare e dunque è più che un odore di fiore presto disperso nell’aria, è un accenno di presenza di un altro che tuttavia non siamo.

 

Irruzione dell’indistinto

nel tuo linguaggio

lucore notturno,

 

Non solo i concetti, non solo i nomi mancano, ma il linguaggio stesso vacilla e si articola a fatica, sparse ossessive immagini di apocalisse volano intorno intorno, quelli che sognavano la rivoluzione ora prevedono la decomposizione, non possono vivere se non nell’eccesso, nell’indistinto che irrompe non vedono alcuna dea salvatrice, nel pericolo non nasce salvezza, si capisce il loro stato d’animo, hanno molte ragioni, c’è solo un lucore notturno, un lume nella notte come quelli di George de La Tour, che illuminano debolmente un circoscritto alone di linguaggio; come quelli che amava Char: Les mots qui tombent de cette terrestre silhouette d’ange rouge, sbagliandosi, perché nel quadro che amava non accorre una dea soccorritrice, ma la moglie ottusa di Giobbe, ma non importa: quel lucore notturno maitrisa les ténèbres hitleriennes, ne ha custodito, preservato qualche angolo, mentre ovunque regnava il vuoto di tempo, l’indistinto.

 

Controsortilegio, più forte.

 

La stregoneria del capitale ci imprigiona nei suoi riti, nei suoi culti, nelle sue malessenze e malocchi, in realtà non so se il controsortilegio della rivolta possa essere più forte, anche perché bisogna ancora trovare le formule e i gesti, li stiamo cercando, non so se si farà in tempo per evitare quello che amici apocalittici temono-sperano. Il capitale è la fine indefinitamente protratta, l’inferno come durata, dilazione, differimento, rinvio, cieco katechon, non crolla per l’irruzione dell’indistinto, si consuma protraendosi, nell’antimessianico tempo che resta, dilazione della catastrofe: questo è il tempo del capitale, esistenza ossimorica, un normale stato catastrofico, paradossale continuazione ad ogni costo; la salvazione si affida alla piccola faglia nella catastrofe continua, piccola faglia di rivolta, controsortilegio. Ma poi: dovremmo affrettare la catastrofe o impedirla? L’apocalisse di questo mondo è l’apocalisse del mondo? O la distruzione di questo mondo impedirebbe quella del mondo? Controsortilegio: il tempo sospeso della rivolta contro il tempo vuoto della catastrofe, controattimo dell’evento. Dura poco l’evento, poco la rivolta, poco la Comune: ma lascia una traccia indelebile che ci accompagna come un lucore nella vita e nella morte. Questo è il messianico.

 

Da ignota, alta

marea corrosa

questa

vita.

 

L’indistinto che irrompe, marea l’alta, che corrode anche il più duro scoglio, sommerge i nostri piedi, le nostre ginocchia, sono una forza che non sappiamo nominare, che conosciamo ma resta ignota, nota ma non conosciuta, è il desiderio deformato dell’inconscio del capitale, preformato al godimento della distruzione, ho visto brindare (davvero) col nuovo coktail Kovid Killer, allora questo desiderio di opprimere e comprimere la vita suscita l’immensa onda anomala, l’alta violenza del mare, il vomito della nostra plastica, dei nostri carburi, delle nostre sonde, del nero petrolio, dei gabbiani impeciati, degli scheletri sul fondo del mare, e poi perché mai tutto questo dovrebbe salvarsi? Il problema è che credere nella sua autodistruzione è illusione, si consuma con infinita lentezza molecolare, antiapocalitticamente, non c’è una interna e spontanea disattivazione, non c’è potere destituente, che ci porti ad altro o al nulla o all’essere: non c’è, semplicemente. È un’altra illusione ottica, uno spettro del capitale, un gioco di specchi in cui è maestro, far credere che le catene saranno spezzate dai fiori che gli crescono intorno, mentre al massimo diverranno meno visibili. No, no, dobbiamo prendere o riprendere in mano l’incudine e il martello.