L’anello di Gige. Stress e pandemia – di Riccardo Ferrari

L’anello di Gige. Stress e pandemia – di Riccardo Ferrari

3 Novembre 2020 Off di Francesco Biagi

di Riccardo Ferrari

 

Nell’attuale incerta e protratta condizione emergenziale, fra articolate restrizioni e ondate di contagio, risulta ancora difficile comprendere che cosa sia successo durante la chiusura produttiva e sociale da Covid-19. Nella primavera del 2020 siamo stati tutti protagonisti e insieme spettatori di una crisi storica. Anzi il problema è forse proprio questo: la crisi ha ancora qualcosa di impensato e incomprensibile, nonostante i fiumi di parole usate giorno dopo giorno per circoscriverla.

Durante il lockdown la parola stress, a cui non avevo mai dedicato molta considerazione, è affiorata più volte nei miei incerti tentativi di descrivere e dare un nome a quello che stavo vivendo, sintetizzando uno stato di allarme permanente. Le sollecitazioni e le irritazioni del sistema nervoso, che attivavano giornate altrimenti immobili, provenivano dalla notifica continua del  mio ambiente mediale organizzato intorno al lavoro ma ormai diffuso in tutto il resto, dal privato al politico. Questa aggressione squilibrata rispetto alle risorse che avevo a disposizione si condensava nell’atmosfera cupa di una catastrofe imminente.

Ricorre già da qualche tempo l’uso, anche giornalistico, di associare il termine stress al termine test: lo stress-test a cui si sottopongono i sistemi bancari per valutare la loro capacità di reggere in situazioni limite, lo stress-test di un’infrastruttura architettonica come il nuovo ponte di Genova, percorso da file di camion pesantissimi per metterne alla prova la tenuta. Anche il test potrebbe essere un termine adatto per descrivere la crisi pandemica: lo stress personale, che tutti abbiamo più o meno vissuto nella pentola a pressione domestica delle preoccupazioni, in generale è stato uno smisurato stress-test sistemico delle nostre società coinvolte in un processo di radicale ristrutturazione (del capitale, del lavoro e della sfera pubblica).

L’ipotesi su cui riflettere è che lo stress abbia una relazione inedita con la nozione di libertà, perché questa pressione esercitata sui gruppi sociali dalla gestione emergenziale comporta un’esigenza di sgravio e liberazione, alimentata da una effettiva limitazione delle nostre libertà (come quella di movimento e di associazione) in nome di una libertà e di un diritto ritenuti di valore superiore: la salute pubblica. Anche chi vede nella vita sociale e politica un processo di continua negoziazione dei diritti, delle libertà e dei valori, non può non essersi allarmato per quello che stava accadendo. Per fare un esempio evidente, alcuni di noi hanno perso la libertà quasi bio-storica che ha sempre accompagnato le comunità umane di essere vicini ai parenti e agli amici che muoiono. La limitazione dei funerali non è una cosa irrilevante, perché riguarda elementi essenziali dell’antropogenesi come l’elaborazione del lutto e in generale il significato della morte e della malattia per una collettività. In nome della difesa della salute di tutti, la morte sembra essere divenuta oggetto di una rimozione, a cui si è accompagnata una parallela rimozione, quella dei nostri corpi coinvolti nel trasferimento on-line dell’attività sociale.  Questo disinteresse nei confronti della morte del singolo rapportata al bisogno di fare vivere tutti è la testimonianza di come non solo il capitale si stia ristrutturando attraverso l’economia digitale, ma anche lo spazio comune, operando a volte incomprensibili ridistribuzioni nella politica di governo della vita.

I nostri corpi, addestrati al distanziamento e ad entrare ed uscire continuamente da zone che delimitano vari livelli di prossimità, intrappolati in una ragnatela di bio-sicurezza, sono già mutati: disincarnati e spettralizzati, si muovono in un nuovo ambiente simbolico, in una topografia dell’interdizione. Ma quale partizione è stato effettuata, nel conteggio di ciò che si poteva e non si poteva fare, con quale logica si è scatenato e continua a scatenarsi l’arbitrio normativo, non solo a livello centrale ma soprattutto in modo capillare e periferico, nella zelante iper-produzione di regole locali con cui facciamo i conti giorno dopo giorno?

Quello che Rilke definiva lo spazio mondano interno[1], ossia un mondo chiuso e rivolto verso l’interno ma che nella società di massa ha assunto dimensioni globali, come un enorme serra che ha come prototipo il Crystal Palace, il palazzo di cristallo della modernità, ha trovato una più chiara effettualità nelle singole case, chiuse in bolle autoimmuni ma interconnesse universalmente grazie agli schermi sempre attivi in continuo contatto reciproco. Si sono ironicamente inverate molte visioni e profezie dei teorici della post-modernità, a partire dal dominio del simulacro su un reale rarefatto e sublimato nella spettralità dei nostri doppi in videoconferenza, dal dominio dello scambio simbolico e dello sviluppo finale della società del controllo.

Ogni bolla domestica si è trovata sola a riempirsi di preoccupazioni e di domande sulla trasformazione in corso delle nostre modalità di relazione con l’alterità, su che cosa è prossimo. La pressione delle immagini e degli ambienti televisuali in cui ci siamo immersi ha promosso un’imponente  irritazione del nostro sistema psico-motorio, portando in evidenza la dimensione di un continuo allenamento, un training di adattamento delle soggettività al loro nuovo ambiente totale, domestico e virtuale. Gli aggiornamenti continui delle notizie, le performances di fronte alla web-cam e i cambiamenti di abitudini quotidiane provocate dalle misure di distanziamento fisico hanno accelerato la mediatizzazione di molti settori della nostra vita sottoponendoci a continui choc. Come aveva puntualmente visto Walter Benjamin, questa irritazione è come un test che ci mette in solitudine di fronte al dispositivo tecnologico, l’Apparatur, allenandoci alla spersonalizzazione e alla riproduzione anonima della nostra natura, come emblematicamente farebbe l’attore cinematografico.

Ma quello che è successo e continua a succedere in questo presente, insieme contratto e dilatato, non è solo la conferma, il sigillo, di un paradigma bio-securitario che da anni si stava dispiegando nelle società contemporanee, non abbiamo già pronte tutte le categorie per pensare l’attualità. Qualcosa di inedito si è insinuato nei rapporti sociali e nelle forme di vita, qualcosa si è aperto rompendo le catene del vecchio mondo: siamo nell’interregno gramsciano, dove  «il vecchio muore e il nuovo non può nascere». I giorni distopici del lockdown, nell’ingiunzione del cancelletto dell’ “io resto a casa”, esibiscono una nuova temporalità sospesa e diversa per tutti. Giorno dopo giorno ci siamo accorti che quello che si era manifestato nelle nostre vite fuori dai consueti tempi sociali e lavorativi, la quantità enorme di tempo di cui non sapevamo che fare,  non era un tempo qualitativo, ma mera quantità in cui si accumulano flussi mediatici e stimoli sconnessi, che non diventavano esperienza. Questo tempo a disposizione  non era solo un’opportunità ma anche un problema. Durante il lockdown qualcuno può anche avere provato un senso di liberazione dalla tirannia produttiva, una curiosità di individuare una dimensione del possibile e un’apertura all’interno della chiusura, di cogliere l’inedito di una società globale che si ferma, lasciando al singolo il suo tempo da riempire fuori dal tempo del lavoro. Abbiamo avuto la possibilità di fermare la macchina e guardare le strade vuote, di guardarci e incontrare i nostri fantasmi. È un evento collettivo non indifferente l’incontro di una popolazione con il rimosso, proprio nel senso del perturbante freudiano, dell’estraneo che incontriamo a casa e in ciò che ci è familiare: i mostri premono per uscire dalle cantine, come in una memorabile sequenza dell’horror La casa.

Questa sospensione improduttiva, che ha fatto immaginare una libertà dal lavoro, questa temporalità disponibile nella chiusura, era un frutto avvelenato: il possibile è stato ben presto richiuso in nuove forme oppressive, lo sfruttamento di chi era impegnato nei settori produttivi essenziali, la fragilità del lavoro autonomo, il telelavoro, l’occupazione distraente del tempo libero che non riesce a essere un tempo liberato; non è bastato essere dentro questa situazione eccezionale per scrivere una via di fuga e riconoscersi in una figura di emancipazione, il lavoro continuava ad incombere trasformandosi in una forma più subdola e diffusa che ha implementato le diseguaglianze, gravata anche di una componente morale e sacrificale per il bene pubblico. Jacques Rancière[2] scrive che «la politica comincia quando si ha una rottura nella distribuzione degli spazi e delle competenze – e delle incompetenze. Inizia quando esseri destinati a rimanere nello spazio invisibile del lavoro, che non lascia il tempo di fare altro, si prendono questo tempo che non hanno per affermarsi compartecipi di un mondo comune, per mostrare quello che non vi si vedeva (…) perché il problema per i dominati non è mai consistito nel prendere coscienza dei meccanismi del dominio, ma di forgiarsi un corpo votato a qualcosa di diverso dal dominio». L’occasione di un’insorgenza politica è balenata ma è stata subito riassorbita, come è mancato l’appuntamento con la storia di un nuovo corpo sociale forgiato per qualcosa di diverso dal dominio: questo corpo allenato alla distanza e alla smaterializzazione si è perso e negato invece di costituirsi.

Peter Sloterdijk[3], nella conferenza intitolata appunto Stress e libertà, legge i corpi politici come sistemi di preoccupazioni alimentate dai dispositivi tele-visuali in un vero e proprio training che è orientato a irritare «i macro-gruppi individualistici» e spingerli alla cooperazione e all’elaborazione di pratiche di liberazione. Due figure storiche segnano in questo testo due differenti concezioni della libertà. La prima è  quella esemplificata dal gesto di Lucrezia, che uccidendosi dopo avere subito violenza e chiesto giustizia, rappresenta la formazione di un consenso collettivo, basato sull’indignazione, da cui emerge la libertà anti-tirannica (la sollevazione contro la repressione politica) che porterà nel mondo romano alla fine della monarchia e alla nascita della repubblica. La seconda figura della libertà descrive la nascita della soggettività moderna; essa ci presenta Rousseau sul lago di Bienne, in Svizzera, quando dopo avere subito la derisione e le pietre di una folla irritata per le sue pose e abiti anticonvenzionali, si lascia andare ad una deriva solitaria in barca. È qui che nasce la rêverie, la fantasticheria, la libertà dall’oppressione del reale e il diritto alla spensieratezza.

Sloterdijk accenna di sfuggita e fra parentesi, senza fornirne una figura storica, a una terza mancanza di libertà, oltre alla repressione politica e all’oppressione del reale: «Di un terzo fronte, cioè della mancanza di libertà che deriva dalla schiavizzazione dell’uomo attraverso una falsa immagine di sé, non è il caso di parlare in questo contesto». La schiavizzazione dell’uomo attraverso una falsa immagine di sé può significare molte cose e, non sapendo cosa avesse in mente il filosofo tedesco, un’ipotesi è che abbia a che fare con la spettacolarizzazione delle nostre vite che le tecnologie digitali hanno innervato definitivamente nei corpi. Nella relazione con l’altro mediata dai dispositivi digitali siamo diventati dei simulacri che ristrutturano i concetti di proprio e improprio e i regimi di verità, doppiandoci in costrutti spettrali. Lévinas parlava di un carattere maligno e anarchico (senza principio né fine) dello spettacolo dove il fenomeno si degrada ad apparenza, un mondo silenzioso in cui ognuno è chiuso nella sua solitudine e privato dell’apertura all’altro, al volto che permette il processo di soggettivazione attraverso la reciprocità. Nelle solitudini delle bolle autoimmuni non abbiamo accesso alla parola che scioglie dall’incantesimo e permette al mondo di orientarsi e prendere significato, siamo stregati in una presenza spettacolare, continuamente esposta, come una moltitudine di Gige, il mito evocato nel secondo libro della Repubblica platonica, che indossando un anello miracoloso ottiene l’invisibilità e vede «quelli che lo guardano senza vederlo e che sa di non essere visto»[4]. L’effetto Gige, che nel discorso platonico era un argomento a sostegno della contingenza dell’etica (chi, protetto dall’invisibilità, non commetterebbe prima o poi qualcosa di ingiusto?) per Lévinas costituisce la figura dell’assenza di sguardo dello spettacolo. Ora che siamo dentro il tempo dei social-media questa solitaria invisibilità lavora per un soggetto anonimo e qualunque, impersonale, che chiede però di essere contato e rappresentato anche senza avere nulla da dire, senza trovare argomenti di aggregazione se non reattivi e velleitari.

Tre situazioni di deprivazione della libertà: l’insorgenza pervasiva della bio-sicurezza, l’oppressione di un lavoro che con la nuova temporalità digitale invade la vita stessa, la chiusura rispetto al volto degli altri e di conseguenza l’impossibilità per me di essere un volto per un altro, perché il volto diventa la faccia – facebook – dell’account. Queste tre privazioni hanno portato, se seguiamo il sentiero tracciato da Stress e libertà, a un inaudito accumulo di stress dei macro-gruppi sociali, alimentati simbolicamente su temi preoccupanti che potrebbero essere in grado di unire, tramite contro-tensioni, le collettività alla deriva. Stiamo assistendo però a qualcosa di diverso: le comunità con queste premesse costruiscono una sfera pubblica polarizzata, invece di unirsi si disgregano. Lo stress mediaticamente prodotto provoca reattività isteriche anche per la minaccia così invisibile che costituisce la dinamica del contagio: il reale non è reale, è un’articolazione di zone simboliche, di divieti e proiezioni sul futuro, è lo spettro di una catastrofe sanitaria e sociale che incombe quando si entra in una situazione di aumento esponenziale delle infezioni. Lo stress è anche quello sofferto in particolare dalle generazioni più giovani, a cui si chiede un sacrificio (che ha effetti traumatici collettivi) non per la propria vita, ma per quella degli altri, per proteggere la percentuale più fragile della popolazione positiva  in cui in genere non rientrano.

Attraverso la pura paura del contagio o attraverso la sua negazione, sono nate due nuove figure collettive, quasi mitologiche e simmetricamente avventurose: i responsabili e i negazionisti. In nome della libertà sono anche avvenuti strani spostamenti semantici: ora si autodefiniscono libertari gruppi delle destre e dei sovranismi, che hanno assorbito slogan elaborati in altri campi politico-ideologici, adottandone espressioni e modalità convertite in parole d’ordine come regime liberticida e dittatura sanitaria, oppure l’invito a non farsi servilmente soggiogare dalle verità confezionate dai media main-stream e dal pensiero unico. Il dubbio e la verifica dei poteri assumono un carattere parodico, il libero pensiero non è praticato ma svuotato e ridotto a un rosario di topoi inarticolati, di petizioni di principio sui segreti meccanismi del mondo, un mantra ipnotico e un esorcismo per la conservazione dell’interesse privato e identitario. Dall’altra parte di questa dimensione pubblica schizofrenica osserviamo il progressismo paternalista, altrettanto conservatore, del comportamento responsabile ostentato in modo virulento, nella colpevolizzazione dei comportamenti del singolo che a volte raggiunge l’infamia, a partire dagli annunci governativi che chiedono al cittadino di “comportarsi bene” per non dovere essere punito poi con la paralisi totale delle sue funzioni sociali.

Dietro l’effetto Gige della tastiera e della mascherina, se perdiamo la libertà è anche perché il dissenso è diventato il conato immediato di un corpo sociale stressato. Scartata l’ipotesi di intonare un lamento per la fine di una libertà già molto compromessa prima di conoscere SARS-CoV-2, o di metterci alla ricerca di un’improbabile comunità vera e non ottenebrata dalle immagini spettacolari, la sfida che ci mette in gioco è quella di produrre emancipazione nella condizione spettrale che attraversiamo, iniziando, nell’attuale contingenza storica che ci sottrae la prossimità fisica, a diventare degli spettatori emancipati.  La separazione in cui siamo immersi non dice che è stato perduto qualcosa che c’era prima, ma solo che non si riescono a trovare forme attuali di produzione dello spazio pubblico e di critica del consenso comune e poliziesco.

 

Note:

[1] “Un solo spazio compenetra ogni essere / spazio interiore del mondo”, R. M. Rilke, Poesie II (1908-1926), a cura di G. Baioni, commento di A. Lavagetto, Einaudi-Gallimard, Torino, 1995, p. 237. Al riguardo cfr. Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il Capitale, Meltemi, Roma, 2006.

[2] Jacques Rancière, Lo spettatore emancipato, Derive e approdi, Roma, 2018, p. 77.

[3] Peter Sloterdijk, Stress e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012.

[4] E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka Book, Milano, 1971, p. 89