L’incompiuto – di Luca Lenzini

L’incompiuto – di Luca Lenzini

24 Ottobre 2020 Off di Francesco Biagi

di Luca Lenzini

 

Chodasevič, a proposito di Samuil Viktorovič Kissin (nome d’arte Muni), in Necropoli: «Tutto ciò che scriveva era peggiore di ciò che avrebbe potuto scrivere. Naturalmente era sempre pieno di progetti, piani, propositi. Prendendosi in giro da solo, diceva che, come quelli di Koz’ma Prutkov, i suoi lavori più importanti stavano in una cartella di cuoio con la scritta “Dalle opere incompiute” (d’inachevé).»

Intorno ai vent’anni anche lui aveva scritto dei versi, come Muni. Soprattutto, a esser precisi, primi versi, inizi senza uno sviluppo, incipit di microstorie inesistite o semplici suggestioni volanti, titoli dispersi da opere incompiute… Di questi titoli ne aveva annotati e accumulati a bizzeffe, in un taccuino: stavano lì tutti quanti ad annunciare qualcosa che sarebbe stato a regola d’arte, ma che non ci sarebbe stato veramente; il che sembrava aumentarne, anziché annullarne, il fascino. Come non a torto ha detto una artista, «la gente pensa che sia molto importante per gli artisti porsi un obiettivo. In realtà la cosa vitale è avere un inizio»: già, e così un giorno anche quegli incipit avrebbero trovato un seguito, o meglio si sarebbero ricongiunti (dopo molto tempo, e casualmente) con la parte assente, per un compimento; e lui allora avrebbe scoperto il lato nascosto, sommerso e latitante, dei titoli… Non era per mancanza d’ispirazione, dunque, che il seguito restava inespresso, ma proprio per il potere magnetico e irradiante degli inizi; e da qui, una specie d’indifferenza a tutto il resto; o forse, non si trattava di nient’altro che una forma di pigrizia e insieme d’incertezza su una velleitaria, irrisolta ambizione di scrittura poetica, diffidente verso quel tanto di sentimentale, adolescenziale, che il termine “poesia” pareva portarsi appresso? O ancora, magari tutte queste cose insieme agivano a livello inconscio, per un segreto timore, a sé stesso incognito, di mettersi alla prova, di confrontare le proprie fragili ambizioni con l’ardua, complicata sfida della scrittura, la sua rischiosa e incerta avventura. Meglio, certo, restare un principiante – e comunque sia, non si trattava né di aforismi, né di pensées di qualche spessore filosofico o acutezza dialettica. Per esempio, un attacco come questo: Il giorno in cui le cose cadevano, sembrava bastare a sé stesso; ma gli altri incipit e titoli (anche citazioni come Un poco di Chopin o Calma di mare e felice traversata; oppure Le parti superflue del pollo, Una delle ultime volte), appuntati nei bloc-notes arancioni (finiti chissà dove, di trasloco in trasloco, di casa in casa) – quei quaderni che era così bello avviare (e assai meno riempire d’inchiostro: almeno un po’ di bianco andava sempre serbato, quasi essi fossero allergici al troppo pieno, bisognosi di una zona di rispetto) – quei titoli li ha quasi tutti dimenticati, ormai galleggiano come relitti nel gran golfo dell’oblio. Eppure ce n’era qualcuno, tra gli incipit, che non poteva scordare: come se esercitasse una specie di autonoma resistenza, come fosse direttamente intrecciato alla sua esperienza, a qualcosa di profondo, persino fondante, da cui emanava un’aura non spenta, non del tutto rimossa. Per esempio, quello che faceva riferimento a certe mattine estive al mare, il cui ricordo era tutto immerso nelle sensazioni, nei sensi e in primo luogo l’olfatto: Le ceste di vimini del primo verso… Qui lo spunto occasionale e il ritorno della scrittura su sé stessa, mescolandosi, sembravano perseguire la sublimazione del vissuto in “metapoesia”, come se tutto  – e proprio tutto, perché lì era il punto, la giovanile essenza – si risolvesse nell’aura di un cominciamento, in una promessa mattutina, fragrante e tangibile, di disponibilità del mondo e, insieme, della poesia. Quei frammenti avevano una sorta di autosufficienza e lo stesso concetto d’incompiutezza per certi versi era inadeguato, sfocato. Per parlarne in modo più congruo, sarebbe stato opportuno rovesciare tutto il discorso, come se il non scritto fosse in realtà l’esito di una eccedenza, effetto di un surplus resiliente e indomabile: ma di cosa, dunque? O non c’era nessun surplus, quanto invece e paradossalmente, una specie di déja vu anticipato, anteriore? Un titolo che ricordava ancora con buona approssimazione, nonostante la spropositata, rigogliosa lunghezza, era questo: Omaggio a Rudi Barshai e alla sua viola che una sera degli anni sessanta suonò Märchenbilder di Robert Schumann nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca, e ai tecnici che riprodussero il concerto in un disco comprato in un negozio di Firenze dove vendevano anche trenini elettrici. E ancora, un titolo al contrario sintetico come Lontano dai pasti: quest’ultimo rubato alle confezioni di medicinali per riecheggiare l’ironica, solitaria Stimmung di un’infanzia cagionevole e iperprotetta.

«Muni non era pigro. Ma non sapeva lavorare», ancora Chodasevič. Il lavoro, ecco…; neanche lui, a dire il vero, ne era granché attratto. Fu un passaggio nella Gaia scienza di Nietzsche, intitolato Il fascino del non finito, a fargli capire, una volta per sempre. Tanto lo incantava, quel frammento, che gli sembrava di averlo pensato lui stesso. «Vedo qui un poeta che, come tanti uomini, esercita con la sua incompiutezza un fascino superiore che non con tutto ciò che si arrotonda e configura compiutamente sotto la sua mano, – sì, egli trae vantaggio e reputazione piuttosto dalla sua ultima incapacità che dalla ricchezza delle sue energie. La sua opera non esprime mai completamente ciò che veramente egli vorrebbe esprimere, ciò che vorrebbe aver visto; sembra che egli abbia avuto l’avangusto di una visione e mai la visione stessa. Ma un’enorme cupidigia di questa visione è rimasta nella sua anima, ed egli ne trae la sua altrettanto enorme eloquenza del desiderio e della fame divorante. Con essa egli eleva colui che lo ascolta al di sopra della sua opera e di tutte le “opere”, dandogli ali per librarsi ad altezze alle quali gli ascoltatori non si elevano mai; e così, diventati essi stessi poeti e veggenti, tributano all’autore della loro felicità un’ammirazione come se egli li avesse condotti direttamente alla visione di ciò che per lui è più sacro ed ultimo, come se egli avesse raggiunto la sua meta e avesse realmente contemplato e comunicato la sua visione. Va a vantaggio della sua reputazione il non essere veramente pervenuto alla meta.» Se qualcuno gli chiedeva di chi Nietzsche stesse parlando, di me, rispondeva.