Accelerazioni tecnologiche e distanze politiche – di Andrea Cengia

Accelerazioni tecnologiche e distanze politiche – di Andrea Cengia

24 Settembre 2020 Off di Francesco Biagi

[La redazione di Altraparola anticipa la pubblicazione dell’articolo “Accelerazioni tecnologiche e distanze politiche” di Andrea Cengia, di prossima pubblicazione nel n. 4 – novembre 2020 dedicato alla riflessione filosofica sulla pandemia del virus.]

 

di Andrea Cengia

 

Recentemente, Boaventura De Sousa Santos, nel suo breve testo dedicato all’emergenza pandemica, ha utilizzato l’espressione “intellettuali di retroguardia”[i], per descrivere la tensione etico-politica che dovrebbe caratterizzare la galassia eterogenea degli intellettuali engagés in questo inizio secolo. Sousa Santos non chiama a raccolta, com’è ovvio, tutti gli intellettuali. Non sono compresi certamente quelli embedded, ossia quelli che sostengono una visione naturalizzata dei rapporti economico-sociali odierni[ii]. È interessante notare come l’immagine della realtà sociale contemporanea, largamente condivisa, sia quella di un sistema sociale altamente dinamico e in via di costante rivoluzione anche grazie alle innovazioni tecnologiche che giocano un ruolo d’avanguardia. Ma questo dinamismo di superficie non scalfisce le regole del gioco per come si articolano nel profondo del modo di produzione capitalistico[iii]. Adottando l’idea della retroguardia, Sousa Santos suggerisce di profondere ulteriori sforzi, al fine di mantenere vivo un atteggiamento critico in grado di andare oltre le tendenze uniformatrici del mercato, la naturalizzazione del modo di produzione capitalistico e le sue trasformazioni. Il richiamo alla ‘retroguardia’ individua un atteggiamento teorico e politico in grado di porre in discussione i processi di semplificazione dei quadri politici, nazionali e internazionali. Lo spazio politico appare oggi mediaticamente colonizzato da uno spettro di ‘predicatori’ concentrati nell’evocazione di quadri sociali, economici, sanitari e culturali semplificati oltre l’evidenza, ma centrati sostanzialmente sulla dicotomia «amico (Freund) e nemico (Feind[iv].

Al centro della contesa tra questo campo eterogeneo di forze c’è il futuro politico dei cittadini, i quali, senza l’attività di retroguardia di alcuni intellettuali, rimarrebbero «[…] indifesi di fronte agli unici che parlano il loro linguaggio e capiscono le loro preoccupazioni»[v]. Questo contesto generale non è frutto della recente situazione pandemica. Come ha ricordato Žižek «l’epidemia ha solo fatto emergere con maggiore chiarezza quello che era già qui»[vi].

Il discorso di Sousa Santos contiene perciò grandi elementi di interesse, in quanto pone un problema che riguarda il campo di una sorta di pedagogia politica. Questo spazio politico postdemocratico richiede non tanto una sua ulteriore accelerazione, ma, al contrario, forme di retroguardia che si pongano, come obiettivo iniziale, la radicalizzazione della democrazia. Ciò su cui si vuole riflettere riguarda il ruolo che, nella condizione sociale odierna, riveste la tecnologia. Quest’ultima assume grande centralità perché è proprio attorno al tema della tecnologia che si concentrano crescenti serie di timori e di aspettative sociali. Questa visione progressiva richiama a nuove responsabilità e, allo stesso tempo, mette alla prova gli intellettuali di retroguardia evocati da Sousa Santos. Il ruolo rivestito dalla tecnologia nel modo di produzione capitalistico del XXI secolo costituisce perciò uno degli spazi più interessanti e significativi di esercizio di un pensiero critico. In particolare, la condizione pandemica ha e ha avuto tra i suoi effetti quello di imprimere un’ulteriore accelerazione tecnologica, spingendo allo spostamento online di una parte significativa dell’attività sociale. Si pensi alle pratiche digitali relative alla scuola, all’università e al cosiddetto smart working. L’attenzione va posta proprio sul concetto di accelerazione. Quanto sta accadendo non ha infatti sussunto l’intero spettro delle attività lavorative tradizionali, quelle che dovrebbero in un futuro recente essere sostituite da sistemi artificiali[vii]. Piuttosto, durante i lockdown avvenuti in vari stati, è apparso chiaro che, nonostante i bruschi cambiamenti verificatisi, un sofisticato sistema di interazioni economiche era venuto meno, ma che esso non poteva essere sostituito integralmente con lo smart working. Dobbiamo ricavarne che vi sono dei limiti contingenti (tecnologici, strutturali e sociali) alla piena trasformazione tecnologica della società, ossia l’approdo alla società senza lavoro. La questione lavoro, intesa anche per gli effetti di disoccupazione[viii] generati dalla pandemia, rimane strategica per le istituzioni internazionali al punto da spingerle a prendere delle decisioni inedite[ix].

La pandemia ha intaccato l’apologia della società senza lavoro, mostrandoci come tale futuro debba attendere ancora prima di realizzarsi[x], posto che il suo raggiungimento sia auspicabile. È altrettanto evidente che il fattore tecnologico rimane una questione politica inscindibile dai processi di industrializzazione sin dalla fondazione di questo modello produttivo. Se torniamo ad osservare il piano della virtualizzazione di alcune attività, colpisce certamente la rapidità con cui molte di esse sono state svolte nei luoghi tradizionalmente adibiti alle attività riproduttive, al punto che, come segnala il caso di The Economist, l’intero numero del periodico «has been written, edited and produced from couches and kitchen tables»[xi]. Lo stesso settimanale nel suo sottotitolo suggeriva: Farewell BC (before coronavirus). Welcome AD (after domestication)[xii]. Certamente si tratta di una condizione straordinaria[xiii], ma è ancora difficile comprendere se la netta divisione tra un before e un after coronavirus possa produrre effetti di non ritorno[xiv]. Ciò che appare evidente è che ampie porzioni di socialità (parte del lavoro, la scuola e l’università) si sono trasferite su piattaforme digitali che hanno messo a disposizione uno spazio virtuale di incontro. Anticipando i tempi, Pierre Lévy, sul finire degli anni Novanta aveva proposto una interpretazione di questo processo. «Quando una persona, una collettività, un fatto, un’informazione si virtualizzano, una sorta di disinnesco li stacca dallo spazio fisico e geografico consueto, nonché dalla temporalità dell’orologio e del calendario»[xv]. Ne risulta quindi che «la sincronizzazione rimpiazza l’unità di luogo, l’interconnessione sostituisce l’unità di tempo»[xvi]. Il virtuale, in quanto processo di virtualizzazione, è quindi una modifica dello spazio attraverso il tempo. È interessante notare come questa definizione sia molto simile a quella che Marx ha offerto del modo di produzione capitalistico. Questo significa che, preliminarmente, dovremmo pensare che queste due definizioni tendano a descrivere, seppure da angolature differenti, il medesimo oggetto e quindi che l’oggetto comune presenti entrambe le caratteristiche che gli sono attribuite. Vale la pena riprendere il ragionamento che Marx elabora nei Grundrisse: «Mentre dunque il capitale deve tendere, da una parte, ad abbattere ogni ostacolo spaziale al traffico, ossia allo scambio, e a conquistare tutta la terra come suo mercato, dall’altra esso tende ad annullare lo spazio attraverso il tempo; ossia a ridurre al minimo il tempo che costa il movimento da un luogo all’altro. Quanto più il capitale è sviluppato, quanto più è esteso perciò il mercato su cui circola e che costituisce il tracciato spaziale della sua circolazione, tanto più esso tende contemporaneamente ad estendere maggiormente il mercato e ad annullare maggiormente lo spazio attraverso il tempo»[xvii] [«Vernichtung des Raums durch die Zeit»][xviii]. I processi di accelerazione tecnologica appaiono quindi come l’esito di un preciso sistema di relazioni socio-economiche. Ed è a questo livello che occorre pensare ad ulteriori spazi di riflessione e di azione politica, lontani dai richiami, anche recenti, alla dimensione tecnologica come nostro destino[xix], oppure come luogo del superamento delle contraddizioni del modello produttivo attuale. Piuttosto, nel caso specifico del lockdown e dei suoi postumi, gli strumenti tecnologici dispiegati in un preciso contesto di coordinate spazio-temporali (le piattaforme hardware e software oggi a disposizione) configurano una specifica forma tecnologica che va analizzata non astrattamente, ma in quanto determinazione particolare, situata nello spazio/tempo della società i cui rapporti socio-economici sono quelli del modo di produzione capitalistico. In questa precisa determinazione, il ruolo delle tecnologie digitali e delle interconnessioni è così significativo da definire la condizione produttiva come capitalismo delle piattaforme, Platform Capitalism[xx]. Perciò la svolta tecnologica propria di questa contingenza spazio-temporale è il prodotto di un preciso paradigma tecnologico. Quest’ultimo non è neutrale, ma si inserisce in precisi rapporti sociali (economici, sociali, culturali) allo scopo di contribuire a plasmarli. La forza della relazione tra sviluppo del modo di produzione e sviluppo della tecnologia[xxi] consegna un potere economico di grande rilievo ai cosiddetti Big Tech[xxii]. A produrre, proporre e gestire le piattaforme, realizzando grandi profitti anche in tempi di crisi economica globale, sono i produttori di servizi software e hardware ben determinati. Se ci fosse bisogno di una prova, per individuare la relazione tra i giganti della new economy e il lockdown, basterebbe osservare i proventi economici che sono loro derivati in questi ultimi mesi[xxiii]. Dietro ai guadagni c’è sicuramente un proporzionale incremento del potere sociale di queste grandi aziende. È noto che recentemente queste ultime sono state chiamate a risponderne dall’antitrust statunitense (una testimonianza contemporanea di tutti i loro maggiori responsabili che ha certamente un grande valore simbolico). Ed è singolare che una delle accuse da cui hanno dovuto difendersi sia stata proprio quella di promuovere attività non in linea, o apertamente in opposizione, con l’interesse politico nazionale. Alcune delle loro attività sono state considerate «unpatriotic»[xxiv]. L’ampliamento dell’uso di tecnologie digitali, più o meno direttamente collegate con la questione della pandemia, pone una serie di problemi legati a privacy[xxv] e sorveglianza[xxvi]. È coinvolta in questo processo una serie non irrilevante di informazioni che riguardano la nostra esistenza[xxvii].

Questo fatto pone il problema strategico e democratico delle garanzie per i cittadini e del rispetto della tutela dei propri dati digitali, consegnati in automatico alle grandi corporation[xxviii]. In altre parole, si pone la questione del controllo politico dei processi e delle proprietà delle informazioni. È inutile ricordare quanto importante sia per le industrie del XXI secolo (digitali e non solo) entrare in possesso di tali dati. Inoltre, «the communicative structure»[xxix] costituitasi attorno alle nuove tecnologie agisce su più livelli, modificando la tipologia di interazioni tra individui, nonché ristrutturando «the functioning of public institutions»[xxx]. Non vi è bisogno di aggettivare astrattamente tale stato di cose come positivo o negativo. Occorre piuttosto entrare in questo processo trasformativo, osservandone i rischi e le potenzialità. Sul versante politico generale a cui si è fatto riferimento fino a qui, i problemi e i rischi che possono emergere sono di portata tale da non poter essere minimizzati. L’inarrestabile sussunzione formale e reale dei processi sociali in forme digitali richiede, come risposta, di immaginare momenti di interazione sociale e politica che abbiano come scopo la messa in discussione del processo in corso e abbiano l’ambizione di pensare nuove occasioni di riflessione e di azione critica sul presente. Se assunto criticamente il concetto di sfera pubblica elaborato da Jünger Habermas potrebbe contribuire a questo scopo. Com’è noto, per il filosofo tedesco «nella sfera pubblica borghese si sviluppa una coscienza politica che, in opposizione al potere assoluto, rivendica e articola il concetto di leggi generali e astratte e infine impara ad affermare se stessa, in quanto opinione pubblica come unica fonte legittima di queste leggi»[xxxi]. Se rapportiamo la prospettiva di Habermas alla condizione odierna, difficilmente possiamo sostenere che vi siano le condizioni per la sua realizzazione. Come ricorda Han esiste una crisi del concetto di sfera pubblica. Tuttavia, attorno a questo concetto è possibile individuare una serie di possibilità politiche. «La decadenza della sfera pubblica e la crescente mancanza di rispetto si determinano a vicenda. La sfera pubblica presuppone, tra le altre cose, che si distolga rispettosamente lo sguardo dal privato: il prendere le distanze è costitutivo dello spazio pubblico»[xxxii]. Han mostra quindi i limiti della visione habermasiana, ma segnala nello stesso tempo come il concetto di sfera pubblica, criticamente inteso, possa rimanere uno strumento politico di grande utilità. La figura di una sfera pubblica, di uno spazio votato al confronto sociale, alla dialettica politica, alla discussione di ipotesi politiche alternative appare rilevante proprio oggi. È qui che si configura uno spazio per quella che a inizio di questo contributo si è identificata come una pedagogia politica. Nella condizione odierna essa consiste nella pedagogia alla politica. La crisi dell’ipotesi novecentesca di agire comunicativo, come luogo dell’universalizzazione[xxxiii], congiunta alla sussunzione degli spazi di relazione sociale all’interno del sistema di valorizzazione del modo di produzione capitalistico nella sua espressione tecnologicamente avanzata, reclama questo spazio. Uno spazio che, se osservato politicamente, semplicemente non c’è più. Esso è stato polverizzato dai processi di individualizzazione sociale, che hanno reso irrilevanti gli spazi politici che, con tutti i loro limiti, hanno abitato gli ultimi secoli della modernità. È quello che Han ha descritto efficacemente con l’immagine dello sciame che vive nella dimensione virtuale della rete. Perciò occorre considerare che «i soggetti economici neoliberisti non costituiscono un Noi capace di un’azione comune»[xxxiv]. La costruzione di uno spazio pubblico radicato prioritariamente in un sistema di relazioni sociali non virtuali appare come uno dei passaggi fondamentali per gli anni a venire. L’ottica della retroguardia si distanzia da una visione nostalgica del passato e, allo stesso tempo, non assume le forme tecnologiche contemporanee, quelle largamente votate alla mercificazione di ogni forma di relazione, come orizzonte d’azione sociale naturalizzato. Tuttavia, ed è qui il problema più significativo sul quale occorre riflettere, tali spazi, anche quando venissero istituiti, richiederebbero un confronto continuo con la contingenza attuale all’interno della quale i soli linguaggi funzionanti sono quelli della semplificazione e delle dicotomie amico/nemico. In questo contesto, la fenomenologia del corona virus Covid-19 insegna come la realtà (in questo caso rappresentata dal pericolo del contagio) abbia una complessità spazio-temporale che si articola secondo grandezze che vanno oltre le nostre rappresentazioni quotidiane del complotto o della logica schmittiana sopra accennata[xxxv]. Come immaginare e costruire uno spazio pubblico intellegibile anche a chi usa esprimersi con dei ‘like’ e, al tempo stesso, capace di comunicare con linguaggi alternativi, comprensibili, efficaci, convincenti, ma senza perdere le qualità razionali e critiche, è una delle sfide con cui occorrerà misurarsi nei prossimi anni. Un modo di parlare alle popolazioni, alternativo e disincantato, pena l’irrilevanza politica e l’accentuarsi delle derive sociali in atto.

Di conseguenza, la questione dello spazio pubblico interroga il problema della distanza. Le condizioni sociali odierne, determinate dalla tecnologia, permettono forme di azzeramento della distanza attraverso canali di comunicazione digitale (ad esempio i social-media) in grado di azzerare la distanza, ma il prodotto di questa interazione tende ad essere l’individuo-sciame stigmatizzato da Han. Perciò la socialità dei social, azzerando la distanza, realizza l’azzeramento dello spazio pubblico, una cattiva socialità. Questi ultimi mesi hanno mostrato un’ulteriore specificazione del concetto di distanza, quello necessariamente imposto dagli stati ai cittadini, come forma di sicurezza anti-contagio. In questo caso la distanza diviene distanziamento sociale. Se l’azzeramento digitale della distanza coincide con lo svuotamento della prassi politica, sussunta in forme espressive binarie (si/no), ebbene anche il distanziamento sociale produce un risultato di azzeramento della dimensione politica. Non è un caso se questi due processi consentono alla galassia dei movimenti di destra di strutturare le proprie forme di comunicazione secondo l’asse emergenziale o passionale del Freund/Feind. Da tutto ciò, pare ragionevole ricavare che la dimensione politica sia connessa a quella di distanza. Meglio: se consideriamo la distanza come prerequisito del pensiero e dell’azione politica, ricaviamo uno strumento prezioso per la ricostruzione per una sfera pubblica del XXI secolo. Laddove si voglia intendere la politica come possibilità di emancipazione, un tempo si sarebbe detto proletaria, allora praticare la dimensione della distanza spaziale e temporale, intese nel senso ampio del processo della riappropriazione di queste grandezze da parte delle classi lavoratrici, implica due obiettivi: (1) la resistenza a forme di sussunzione tecnologico-politica sempre più pervasive, (2) la possibilità di riappropriarsi di ciò che è stato sussunto. Riflettendo su queste ultime righe non si può non pensare a quanto detto da Marx ai lavoratori della Prima Internazionale nel 1864. Egli ricordò come la riconquista di uno spazio di lotta, quello per la giornata lavorativa di dieci ore, produsse «immensi vantaggi […] da un punto di vista fisico, morale e intellettuale», per «gli operai manufatturieri». La situazione di quegli operai, risolta solo grazie a una mirabile «lotta di trent’anni» forse può insegnarci ad affrontare le grandi difficoltà del momento con la stessa «ammirevole perseveranza»[xxxvi] dei lavoratori inglesi del XIX secolo.

 

Note: 

[i] Boaventura De Sousa Santos, La crudele pedagogia del virus, tr. it. di Eliana Vitello, Castelvecchi, Roma, 2020.

[ii] Si tratta di quella convinzione sociale che, come ricorda Fischer richiamando Jameson e Žižek, ritiene più facile «immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», Mark Fisher, Realismo capitalista, tr. it. di Valerio Mattioli, Nero, Roma, 2018, p. 26.

[iii] Emblematica è la riflessione marxiana sul rapporto tra tendenze e controtendenze, Karl Marx, Il capitale: Critica dell’economia politica. Libro terzo, tr. it. di Maria Luisa Boggeri, Ed. Riuniti, Roma, 1989, p. 283.

[iv] Carl Schmitt, a cura di Pierangelo Schiera e di Gianfranco Miglio, Le categorie del politico: saggi di teoria politica, Il Mulino, Bologna,1972, p. 108.

[v] B.D.S. Santos, op.cit.

[vi] Slavoj Žižek, Virus: Catastrofe e solidarietà, tr. it. di Federico Ferrone, Bruna Tortorella, Valentina Salvati, Ponte alle Grazie, Milano, 2020, Kindle edition.

[vii] Carl Benedikt Frey, Michael A. Osborne, «The Future Of Employment: how susceptible are jobs to computerisation?», 2013, http://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf; McKinsey Global Institute, «Disruptive Technologies. Advances that Will Transform Life, Business, and the Global Economy», maggio 2013, https://www.mckinsey.com/business-functions/mckinsey-digital/our-insights/disruptive-technologies; Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, tr. it. di  Giancarlo Carlotti, Milano, Feltrinelli, 2015; McKinsey Global Institute, «A Future that Works. Automation, Employment, and Productivity», gennaio 2017, https://www.mckinsey.com/~/media/mckinsey/featured%20insights/Digital%20Disruption/Harnessing%20automation%20for%20a%20future%20that%20works/MGI-A-future-that-works-Executive-summary.ashx; Martin Ford, Il futuro senza lavoro. Accelerazione tecnologica e macchine intelligenti. Come prepararsi alla rivoluzione economica in arrivo, tr. it. di M. Vegetti, Il Saggiatore, Milano, 2017.

[viii] AA. VV., «Is Europe preventing covid-19 layoffs or merely delaying them?», The Economist, s.d., https://www.economist.com/graphic-detail/2020/06/26/is-europe-preventing-covid-19-layoffs-or-merely-delaying-them.

[ix] Jim Brunsden, Sam Fleming, Mehreen Khan, «Brussels eyes markets to fund €100bn pandemic jobs scheme», aprile 1, 2020, https://www.ft.com/content/3eaa8a0c-21a9-469a-9d69-a1c7b2b6c897.

[x] Kim Moody, «High Tech, Low Growth: Robots and the Future of Work», Historical Materialism, vol. 26, fasc. 4, dicembre 2018, pp. 3–34.

[xi] AA. VV., «Working life has entered a new era», The Economist, maggio 30, 2020, https://www.economist.com/business/2020/05/30/working-life-has-entered-a-new-era.

[xii] Ivi.

[xiii] Zack Friedman, «Google Employees Will Work From Home Until Summer 2021», Forbes, luglio 27, 2020, https://www.forbes.com/sites/zackfriedman/2020/07/27/google-amazon-facebook-microsoft-twitter/.

[xiv] Recentemente la proprietà di Google ha dichiarato che il lavoro smart verrà esteso fino al 2021 I lockdown ha prodotto certamente accelerazioni che hanno coinvolto https://www.agi.it/economia/news/2020-07-30/trimestrali-google-facebook-apple-amazon-9299919/

[xv] Pierre Lévy, Il virtuale Qu’est-ce que le virtuel?, tr. it. di Maria Colò e Maddalena Di Sopra Cortina, Milano, 1997, p. 11.

[xvi] Ivi.

[xvii] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Vol. II, tr. it. di Enzo Grillo, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1978, p. 181.

[xviii] Karl Marx, Friedrich Engels, Werke Bd. 42, Berlin, Dietz, 1983, p. 445.

[xix] Per una sintesi di questo punto di vista si veda Sjoerd Van Tuinen, «Philosophy in the light of ai: Hegel or Leibniz», Angelaki, vol. 25, fasc. 4, luglio 2020, pp. 97–109.

[xx] Si vedano ad esempio Nick Srnicek, Platform Capitalism, Polity Pr, Cambridge, UK ; Malden, MA, 2016. Geert Lovink, Sad by design: on platform nihilism, Pluto Press, London, 2019.

[xxi] Si può solo qui accennare al fatto che con il termine tecnologia ci si riferisce non tanto alla cosiddetta base tecnica, ossia l’insieme dei software e degli hardware disponibili nel periodo indicato, bensì si intende l’insieme degli strumenti e della razionalità complessiva che ne regola l’azione, insomma, quella che per il mondo tedesco del XVIII secolo era la Technologie. La questione della Technologie ha un significato sociale, economico e politico strategico. Si veda Frison, Le tecniche, l’uso della forza-lavoro e la tecnologia in Marco Melotti, Macchine e utopia, Dedalo, Bari, 1986, p. 38. Sul significato del termine Technologie risulta molto rilevante la ricostruzione fornita da Frison. Si veda Guido Frison, «The First and Modern notion of technology: from Linnaeus to Beckmann to Marx», Consecutio Rerum, vol. 3, fasc. 6, giugno 2019, pp. 147–162..

[xxii] Peter Eavis, Steve Lohr, «Big Tech’s Domination of Business Reaches New Heights», The New York Times, agosto 19, 2020, par. Technology, https://www.nytimes.com/2020/08/19/technology/big-tech-business-domination.html.

[xxiii] https://www.agi.it/economia/news/2020-07-30/trimestrali-google-facebook-apple-amazon-9299919/

[xxiv] Cecilia Kang, David McCabe, «Lawmakers, United in Their Ire, Lash Out at Big Tech’s Leaders», The New York Times, luglio 29, 2020, par. Technology, https://www.nytimes.com/2020/07/29/technology/big-tech-hearing-apple-amazon-facebook-google.html.

[xxv] Zoe Kooyman, «Remote education does not require giving up rights to freedom and privacy», www.gnu.org, maggio 14, 2020, https://www.fsf.org/blogs/community/remote-education-does-not-require-giving-up-rights-to-freedom-and-privacy. Si segnalano inoltre che sono stati messi in atto alcuni embrionali esperimenti di utilizzo di software non proprietari anche in questo nuovo campo. Si veda, Gerald Jay Sussman, «Teaching My MIT Classes with Only Free/Libre Software», www.gnu.org, luglio 22, 2020, https://www.gnu.org/education/teaching-my-mit-classes-with-only-free-libre-software.html.

[xxvi] Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, tr. it. di Paolo Bassotti, Roma, Luiss University Press, 2019.

[xxvii] Evgeny Morozov, «The danger of Alphabet’s move into the risk business», settembre 1, 2020, https://www.ft.com/content/cfe91d3e-624e-4f66-a9de-cc9bbdb016f5.

[xxviii] È interessante notare come secondo un esperto di nuovi media come Ely Pariser si configuri qui un pericolo per la democrazia, Il filtro, cit., p. 119.

[xxix] Evan Stewart, Douglas Hartmann, «The New Structural Transformation of the Public Sphere», Sociological Theory, vol. 38, fasc. 2, giugno 2020: 7.

[xxx] Ivi.

[xxxi] Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, tr. it. di Augusto Illuminati e Ferruccio Masini e Wanda Perretta, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 63.

[xxxii] Byung-Chul Han, Nello sciame: visioni del digitale, tr. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma, 2015, p. 11.

[xxxiii] «La sfera pubblica è insomma colta, da Habermas come da Koselleck, come la funzione politica – ancorché interna al campo della società civile – della borghesia del diciottesimo secolo, espressione dei suoi interessi particolari elevati alla sfera dell’universalità», Gennaro Imbriano, «“Critica illuminista” o “opinione pubblica”? La contesa tra Koselleck e Habermas sulla sfera pubblica borghese», Politica & Società, fasc. 3, 2016: 422.

[xxxiv] B. C. Han, op.cit., p. 27.

[xxxv] Vincent Manancourt, «Thousands protest against coronavirus measures in Berlin», POLITICO, agosto 1, 2020, https://www.politico.eu/article/coronavirus-berlin-protest/.

[xxxvi] Karl Marx, «Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai», Gian Mario Bravo (a cura di), La prima Internazionale: storia documentaria 1, Roma, Editori riuniti, 1978, p. 127.