Ivan Illich: celebrare la consapevolezza – di Massimo Cappitti

Ivan Illich: celebrare la consapevolezza – di Massimo Cappitti

10 Settembre 2020 Off di Francesco Biagi

di Massimo Cappitti 

 

Impresa improba, nello spazio inevitabilmente breve di una recensione, restituire la ricchezza dei testi di Ivan Illich qui raccolti*. Certamente, la preziosa e profonda introduzione di Fabio Milana, curatore del libro, orienta sapientemente il lettore, aiutandolo a cogliere la complessità dell’opera di Illich. Colpisce dell’autore la lucida e disinvolta capacità di muoversi tra temi e istanze differenti. Così le riflessioni teoriche affiancano testi più legati alle sollecitazioni del presente e alla necessità di un rapporto critico con il proprio tempo. Prospettive che, precisandosi, torneranno nella sua successiva produzione.

In particolare, non verrà mai meno il progetto di tenere insieme la critica della modernità capitalistica, del potere anonimo e pervasivo della burocrazia, da un lato, e, dall’altro, l’indifferibile esigenza di una radicale riforma della Chiesa, della quale peraltro non volle mai smettere di essere sacerdote. L’entusiasmo seguito al concilio non era bastato a dissipare le incertezze circa il futuro della Chiesa: troppo legata alle classi dirigenti, la Chiesa aveva dimenticato le sofferenze delle Chiese povere, limitandosi a intrattenere con loro un rapporto filantropico. Illich denuncia la burocratizzazione crescente dell’apparato ecclesiastico. Esso è, infatti, «la più grande burocrazia non governativa del mondo», gestita secondo criteri manageriali, soggetta alla tirannia dell’utile e all’egemonia della sfera economica. Eppure «proprio la meccanica regolarità del suo funzionamento getta discreto sulla Chiesa». Nasce, cioè, il sospetto che «essa abbia perso attinenza al Vangelo e al mondo». L’istituzione ecclesiastica, dunque, è espressione del «pervertimento del cristianesimo», più volte evocato dall’autore. Il messaggio del Cristo è stato tradito, poiché la Chiesa si è sottratta alla «chiamata di Dio e alle attese dell’uomo contemporaneo». Se davvero vuole nuovamente corrispondere alla sua vocazione originaria, deve avviare un cambiamento che implica «più di un sia pur drastico emendamento o una riforma intesa ad aggiornarla». Ciò che diffusamente viene percepita, dunque, è la crisi irreversibile dell’apparato e la conseguente necessità di tornare alla «povertà evangelica di Cristo». Il crollo della «sacra volta» e, come diremmo noi, dei fondamenti è definitivo ma, osserva Illich, occorre, «in spirito di profonda letizia», accogliere la scomparsa della burocrazia istituzionale. Nessuna nostalgia, quindi, che obblighi a percorrere strade che già hanno fallito. Che questo stato d’animo sia ampiamente condiviso, è provato dalle defezioni numerose di una quota consistente di membri dell’apparato stesso. Tra questi vi sono anche coloro che godono di «notevoli privilegi» e di «benefici personali e sociali». Già nella formazione del clero si annida l’adesione alla burocrazia vaticana. «Gli organismi appena creati assorbono nell’apparato clericale e nei servizi di programmazione grandi quantità di personale locale istruito». Il controllo centralizzato restrittivo e privo di fantasia sostituisce, pertanto, gli approcci più creativi e innovativi delle Chiese locali. Vi sono, dunque, sacerdoti che si sentono soffocati da «una sicurezza scandalosa e ingiustificata, combinata a controlli restrittivi e inaccettabili». Eppure, nonostante ciò, solo la Chiesa può rivelare «il significato integrale dello sviluppo», purché riconosca di «essere sempre meno in grado di orientare o produrre lo sviluppo stesso». Perciò, tanto meno essa è efficiente, come potere, tanto minore è l’efficace della «celebrazione del mistero». Missione della Chiesa, allora, è «testimoniare la fede in Cristo», ovvero la «rivelazione che lo sviluppo dell’umanità tende alla realizzazione del Regno, che è Cristo già presente nella Chiesa». Da qui «la celebrazione dell’esperienza del cambiamento». Illich non nega lo spaesamento che segue alla scomparsa di un mondo familiare ma sottolinea l’ambivalenza della scomparsa, poiché può garantire l’apertura di nuove e inedite prospettive, una più ricca consapevolezza di sé, ma anche può piegare l’individuo a un «egocentrismo difensivo», sordo alle esigenze altrui. Nell’Invito a celebrare Illich scrive che «siamo chiamati a vivere sapendo e mostrando che il futuro già c’è e che ciascuno di noi può farlo venire, volendo, a riequilibrare la bilancia del passato». Ciascuno di noi vive, pertanto, una «pluralità di tempi». Ispirato da Toynbee, Illich legge la storia non secondo un decorso lineare, positivamente orientato al progresso, ma, al contrario, privilegiando la pluralità dei tempi storici. Mondi materiali e spirituali, diversi tra loro, si intrecciano, interagendo anche all’interno di una stessa cultura, pur refrattaria a raccogliersi in unità. Illich prende congedo dallo «storicismo eurocentrico» e «dalla occidentalizzazione del mondo», cioè dalla pretesa occidentale di proporsi come cultura egemone se non unica. Il Regno, dunque, è già qui tra noi, come ricorda Agamben nella sua prefazione. Non ha fatto una irruzione violenta nella storia, piuttosto ha scelto di manifestarsi con labili tracce: «fonte di piacere e di gioia per i credenti e di scandalo per coloro che lo respingono». Tuttavia, la presenza del Regno non si traduce ancora nella sconfitta del male; c’è, infatti, ancora l’ultimo passaggio attraverso il negativo, ovvero la tragedia della croce. Arriva per ogni credente «l’ora della oscurità estrema», quando, cioè, ognuno deve farsi carico della sua croce. «La notte della sepoltura» sta tra la luce della fede e la visione.

In più occasioni, la critica del capitalismo dell’autore, grazie anche alla mediazione di Erich Fromm, riprende riflessioni già sviluppate dalla scuola di Francoforte, ad esempio il tema dell’alienazione. Si tratta di riprendere e riprendersi ciò che i poteri hanno sottratto agli uomini. Il mondo nuovo, quindi, può nascere solo quando gli uomini vengano a capo della loro mutilazione, quando cioè, ricercano la realizzazione di sé attraverso la poesia e il gioco. Aggiunge l’autore, però, che «questo nostro tendere all’autorealizzazione è gravemente intralciato da strutture obsolete, proprie dell’era industriale». In realtà i sistemi dominanti ci spingono ad accettare «qualsiasi tipo di armamento la tecnologia renda possibile». Inoltre, siamo obbligati ad approvare le tecniche pubblicitarie e la «persuasione occulta del consumatore». Capacità persuasiva perché le scelte obbligate figurano come «azioni desiderabili». Gli individui, così, sono diventati complici della propria autodistruzione, promossa da regimi «demoniaci», che piegano il vivente e annientano «l’immaginazione di possibilità diverse», a favore di una burocratizzazione dell’umano irrefrenabile. Prende forma la naturalizzazione dell’esistente, ovvero, la percezione di insuperabilità di un sistema dove pochi privilegiati si impongono sui molti diseredati. La scuola appare come una componente del sistema stesso. Infatti, essa non si limita a distruggere gli individui ma produce effetti sociali «mistificanti e psicopatogeni». Essa pretende di egemonizzare il tempo di vita degli studenti, trasformando «l’insegnante in guardiano, predicatore e terapeuta». Se l’insegnante-guardiano «vigila sull’osservanza delle regole e amministra l’intricato protocollo dell’iniziazione alla vita», quello moralista sostituisce le figure adulte, indottrinando l’allievo «riguardo a ciò che è giusto e sbagliato, non solo a scuola ma anche nella società in generale». Infine, l’insegnante-terapeuta, come il sacerdote, si sente autorizzato a «scavare nell’intimo dell’allievo allo scopo di aiutarlo a crescere come persona». Ciò si risolve nell’addomesticamento del discente e nell’annientamento dello spirito critico.

Si può senza timore affermare che Illich sia uno dei pensatori più radicali del tardo Novecento. La sua visione, infatti, nulla concede ai poteri: né necessità, né legittimità, né credibilità. Ne coglie, in sintonia con Foucault, le molteplici strategie di gestione del vivente e la capacità di costruire soggetti a sé consoni, dunque obbedienti. Questa constatazione non si risolve, però, nella celebrazione del negativo o, peggio, nella accettazione impotente dell’esistente. Egli non abdica mai alla possibilità che la rivoluzione si possa compiere. Compito della rivoluzione, allora, è «cambiare la coscienza» e aggiunge «solo l’autoliberazione da bisogni che altri hanno pianificato al tuo posto apre la strada al futuro». Da ultimo, ma non ultimo, è costante nella sua riflessione e nella sua vita la dimensione della spiritualità che confligge con il religioso che ne rappresenta la istituzionalizzazione.

 

Note:

* Ivan Illich, Celebrare la consapevolezza. Opere complete. Volume I, Neri Pozza Editore, Vicenza 2020, pp. 894.