Parigi non esiste più. “In girum imus nocte et consumimur igni” di Guy Debord – di Francesco Biagi

Parigi non esiste più. “In girum imus nocte et consumimur igni” di Guy Debord – di Francesco Biagi

3 Settembre 2020 Off di Francesco Biagi

Francesco Biagi

 

«Si, mi vanto di fare un film con qualsiasi cosa;

e trovo divertente che se ne lamentino

coloro che hanno lasciato fare qualsiasi cosa di tutta la loro vita.»1

 

 

Guy Debord non è mai stato un regista o un filosofo in senso tradizionale, ma uno stratega. Inesorabile nel mettere a punto il fuoco della rivolta, profeta compìto nel preconizzare il risveglio delle coscienze fatte sorde e mute dalle fantasmagorie dell’economia di mercato. Odiava essere ridotto a teorico. E un simile disprezzo per la teoria derivava dalla volontà performativa di unire indissolubilmente il pensiero con la pratica quotidiana, l’esercizio spirituale dello studio2 con la vita di ogni giorno. Ne troviamo conferma anche nella testimonianza di Giorgio Agamben a cui disse: «Non sono un filosofo, sono uno stratega».3 Perché Debord negherebbe con tale decisione lo statuto della filosofia? E infine: la negazione che ne consegue, quale sviluppo trova nel film che si vuole qui sottoporre a breve indagine?

La pellicola In girum imus nocte et consumimur igni (1978)4 si apre con un’inquadratura che ritrae degli spettatori seduti in sala. Un perfetto controcampo dove i medesimi spettatori scoprono se stessi nello schermo, il quale a sua volta è interscambiabile con la vita reale. La sequenza è scandita dalle parole:

«In questo film non farò alcuna concessione al pubblico. […] innanzitutto è abbastanza notorio che non ho mai fatto concessioni alle idee dominanti della mia epoca, né ad alcuno dei poteri esistenti. […] nello specchio algido dello schermo, gli spettatori non vedono in questo momento niente che evochi i cittadini rispettabili di una democrazia. Ecco appunto l’essenziale: questo pubblico così perfettamente privato di libertà, e che ha sopportato tutto, merita meno di ogni altro di essere trattato con riguardo.»5

Il pubblico è simultaneamente destinatario dell’analisi politica di Debord e suo bersaglio, accusato di ignavia e di apatia di fronte all’immagine di sogno cui è sottoposto. Allo stesso tempo la passività dello spettatore non è solo conseguenza ineluttabile del sistema spettacolare in cui egli è immerso, ma anche un tratto cromatico della tonalità di vita dell’uomo moderno. Lentamente seguono poi immagini rapinate (detournate) dalla pubblicità, le quali rappresentano per mezzo di un perverso realismo l’esistenza piccolo-borghese del popolo assuefatto alla società dei consumi.6 Più ci si addentra nella narrazione cinematografica, più si disvela l’incubo distopico all’interno del quale Debord ci guida. Nell’era del godimento consumista, di fatto, l’uomo muore:

«Collezionano le miserie e le umiliazioni di tutti i sistemi di sfruttamento del passato, ignorandone soltanto la rivolta. Somigliano molto agli schiavi, perché sono parcheggiati in massa, e stretti, in cattivi casamenti malsani e lugubri; mal nutriti da un’alimentazione inquinata e senza gusto; […] continuamente e meschinamente sorvegliati; tenuti nell’analfabetismo modernizzato e nelle superstizioni spettacolari che corrispondono agli interessi dei loro padroni».7

La società dello Spettacolo, stadio avanzato del capitalismo esemplificato da Karl Marx, parrebbe presentare tratti in comune con il protagonista del romanzo di Robert Luis Stevenson Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde: da una parte la società spettacolare appare affascinante e desiderabile (Dottor Jekyll), dall’altra lugubre e degradante (Mister Hyde).

Dopo aver messo a fuoco alcune delle questioni legate al vivere quotidiano dell’uomo moderno, Guy Debord introduce la critica all’organizzazione dell’urbano.8 La società spettacolare, quando si mostra nell’incarnazione dell’immagine di sogno, offre il meglio di sé. Si presenta come un vissuto colmo di opportunità, di scelte e di libertà: il mercato concede all’uomo tutto il godimento possibile. Tuttavia, vi è un lato diabolico – e qui entra in gioco il volto Hyde – nell’aver progettato uno spazio urbano funzionale alla produzione industriale. Più volte Debord indica i limiti dell’architettura funzionalista di Le Corbusier, confrontando la Parigi ottocentesca con quella della seconda metà del Novecento. Alla democrazia delle opportunità nel mercato, Debord contrappone le disuguaglianze che emergono nel quotidiano e nell’urbano.

È questo un uomo, che vive accatastato in grandi edifici accanto al quartiere industriale dove lavora? È questo un uomo, che vive alienato prima nel posto di lavoro e poi nei luoghi della riproduzione della vita quotidiana privata e pubblica? La vita in questo tipo di città è degna dei valori universali a cui si appella il liberalismo borghese? È degna una vita passata fra il lavoro e il tempo libero quotidiano, vissuta tra un appartamento in periferia e qualche divertimento goduto?9 La risposta è negativa, a partire dalla messa in evidenza dei paradossi della vita moderna: alle possibilità offerte dal mercato, corrisponde un alto grado di sfruttamento.

Tuttavia l’analisi si complica ulteriormente: tale stile di vita è imposto dallo Spettacolo in un regime formale di libera scelta. I dispositivi di governo, pur disciplinando le condotte di vita, permettono un certo grado di accettabilità dello sfruttamento, in cambio del “tempo libero”, regno del principio di piacere e del godimento sfrenato. Pertanto, la soggettività prodotta dallo Spettacolo – secondo Debord – è ancora più asservita rispetto all’operaio di fabbrica ottocentesco studiato da Karl Marx. L’accesso ai beni di consumo e al benessere sociale non ha rappresentato una progressione nel godimento dei diritti, bensì l’occasione di progettare nuove tecnologie di potere. Come spiega la voce di Debord nello scorrere dei fotogrammi, ai proletari moderni – immersi nelle fantasmagorie della merce e del consumo – è persino sottratta l’educazione dei figli, ai quali già impartisce insegnamento pedagogico lo Spettacolo stesso. È a questo punto che si snoda la riflessione sull’incomunicabilità, la mancanza di un autentico dialogo fra uomini, la quale rende tutti obbedienti allo Spettacolo. Ogni individuo è sottratto da un’autentica relazione con l’altro, ogni cosa è mediata dal futile consumo e dal fascino mistico della merce.10

Ritengo fondamentale soffermarci ancora un attimo intorno alle riflessioni sullo spazio urbano di Parigi. Guy Debord denuncia in modo tagliente la privatizzazione degli spazi, la speculazione edilizia e i processi di gentrificazione dei quartieri centrali, ancora abitati dai gruppi più umili e meno abbienti, funzionali a ingrassare la rendita immobiliare. Il ‘narratore’ intravvede quindi come lo spazio stesso sia diventato merce di scambio, oggetto di profitto a prescindere dai reali bisogni dell’uomo:

«In centro non vi erano case deserte, o rivendute a spettatori di cinema nati altrove, sotto altre travi a vista. La merce moderna non era ancora venuta a mostrarci tutto ciò che si può fare di una strada. Nessuno, a causa degli urbanisti, era obbligato ad andare a dormire lontano. Non si era ancora visto, per colpa del governo, il cielo oscurarsi e il bel tempo sparire, e la falsa nebbia dell’inquinamento avvolgere in permanenza la circolazione meccanica delle cose, in questa valle di desolazione. […] Parigi non esiste più. La distruzione di Parigi non è che un’illustrazione esemplare della malattia mortale che colpisce in questo momento tutte le grandi città, e questa stessa malattia non è che uno dei numerosi sintomi della decadenza materiale di una società».11

Mentre pronuncia simili parole, appare l’immagine di una cartina di Parigi risalente al diciannovesimo secolo. A partire dalle trasformazioni urbane della città, l’autore sostiene che sia cambiata anche la vita quotidiana degli uomini. Tessuto urbano e vita quotidiana sono strettamente legati:12 il degradarsi e disfarsi dell’uno è strettamente legato al deperimento dell’altra. È l’esempio di quei processi sociali che stanno accadendo in tante altre città. Non solo a Parigi, è morta l’idea di città che fino ad allora aveva trovato realizzazione concreta. La capitale di Francia non sopravvive all’intervento massiccio dell’industrializzazione introdotta nel secondo dopoguerra. Se il Barone Haussmann aveva sventrato le vie e i quartieri parigini per neutralizzare nuove insurrezioni urbane, il capitalismo fordista aveva completato il progetto, disciplinando le condotte dei cittadini.

Di fatto l’autore disprezza lo spettatore contemporaneo, contrapponendogli quel popolo parigino che alzò la testa e si ribellò contro il potere costituito più volte lungo tutto l’Ottocento e che, seppur oppresso e vessato dalle classi dominanti, fu protagonista della propria storia e della propria vita, non cedendo in modo supino al sistema che lo opprimeva: «Non se ne erano ancora scacciati e dispersi gli abitanti. Vi restava un popolo, che aveva fatto le barricate dieci volte e messo in fuga dei re. Era un popolo che non si contentava di immagini».13 Debord rende omaggio al popolo della Comune e a chi prima di esso aveva sollevato le barricate, poiché quella cittadinanza insorgente era stata capace di non conformarsi, di non accettare compromessi, e assumere – fino in fondo – la propria condizione, nella durezza della vita quotidiana. La popolazione parigina in rivolta, o meglio capace di ribellarsi di fronte all’ingiustizia, è così contrapposta alla massa amorfa e indifferenziata manipolata dallo Spettacolo. La tragedia che mette in scena Debord è quindi quella di una soggettività politica quasi estinta, di un’identità culturale e sociale cancellata e ormai dispersa.

Tuttavia non possiamo non interrogarci: quale cinema e quale filosofia sono ancora possibili? Se l’intera vita è così putrefatta dal sistema spettacolare, come risvegliarsi dall’incubo traumatico del capitalismo? In primo luogo, e per riprendere la suggestione d’apertura, l’autore rifiuta lo statuto di regista e di filosofo proprio nel momento in cui fonde esperienza cinematografica e filosofia per dare alla luce un’opera come In girum imus nocte et consumimur igni. Il detournement è lo strumento attraverso il quale l’autore celebra il matrimonio fra le due. Possiamo sostenere che l’autore reinventa radicalmente il montaggio, materializzando in scena il concetto di immagine dialettica di Walter Benjamin.14 Egli introduce la pratica della citazione-détournement nel cinema, dimostrando con acutezza come sia possibile una critica del capitalismo che si è fatto immagine, puro Spettacolo, ovvero massimo stadio dell’evoluzione storica di un sistema. Debord pertanto lo destruttura fino al sabotaggio nella sua trasformazione più elevata: l’immagine.15 In un simile contesto la parola détournement acquista appieno il significato di “spiazzamento”, “dirottamento” e “sottrazione” di un concetto che antecedentemente faceva parte del linguaggio spettacolare, per poi essere appunto “spogliato”, messo a critica, e utilizzato contro lo Spettacolo stesso. È questo un frammento strappato dalla sua dimensione di falsità, e sottoposto a critica per scorgere in esso la rivelazione della verità concreta.16

La tecnica del détournement, oltre a essere ampiamente utilizzata nella sequenza di immagini che si susseguono con la voce fuori campo dell’autore, compare anche nella frase latina che viene ripresa nel titolo. La cultura classica attribuisce la citazione a Virgilio, nonostante non si riscontri esplicitamente nei testi giunti fino a noi.17 La tradizione le attribuisce un fascino magico in virtù del suo essere palindromo, come accade per il film medesimo che si conclude infatti con le parole «À reprendre depuis le début».18 Possiamo ipotizzare due interpretazioni a proposito della scelta di questo titolo. La prima ci fa pensare al fatto che il palindromo possa rappresentare la Società dello Spettacolo, metafora di un modulo coatto sempre identico, che si ripete all’infinito, dentro al quale l’uomo si perde, erra e non ritrova più la sua autenticità. Il capitalismo, come specifica modalità di creazione del mondo portata fino all’estremo dello stadio spettacolare, è paragonabile pertanto a un pattern sclerotizzato che non ammette differenti declinazioni, luogo in cui l’uomo moderno vagherebbe senza meta, consumato dalle braci disumanizzanti dello Spettacolo.

La seconda ipotesi, che per altro non è in contraddizione con la prima, vede nel titolo un richiamo alla deriva urbana e alla flânerie situazionista, pratica per mezzo della quale i rivoluzionari situazionisti vagherebbero per la città seminando la fiamma della rivolta. Secondo questa interpretazione il consumarsi dell’incendio sarebbe attribuito allo spirito critico, alla possibilità di riattivare una coscienza sociale, e – infine – alla miccia della ribellione che il movimento situazionista voleva disseminare. Il fuoco, in una simile circostanza, è metafora della vitalità umana riassorbita nella fantasmagorica vita quotidiana dello Spettacolo; un barlume di speranza che divampa per sovvertire l’oppressione del potere costituito, annunciando così la possibilità di costruire nuove situazioni di vita al di fuori del modello spettacolare.

Resta a noi decidere cosa fare di fronte alla visione di questo film quasi quarantanni dopo. La prima ipotesi è ancora valida: siamo continuamente divorati oggi dal falò dell’ottusità neoliberista, a cavallo fra spettacolo, miseria materiale e sociale. Tuttavia l’eredità performativa che ci lascia Guy Debord parrebbe essere sedimentata nella seconda ipotesi: riattivare il sapere critico, avere il coraggio di smascherare la distopia neoliberale, tentare nuove vie di emancipazione sociale.

 

L’articolo è apparso originariamente nella rivista «Rifrazioni. Dal cinema all’oltre» (n. 17, anno 9, marzo 2018, pp. 40-49).

 

Note:

1G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, in Id., Opere Cinematografiche, Bompiani, Milano, 2004, p. 147.
2Cfr.: P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 1988, p. 21.
3«Una volta, mentre discutevamo, vedendo che ero tentato di considerarlo un filosofo, Debord mi disse: “Non sono un filosofo, sono uno stratega”. Debord ha visto il proprio tempo come una guerra incessante in cui tutta la sua vita era strategicamente impegnata.» (G. Agamben, Il cinema di Guy Debord, in E. Ghezzi – R. Turigliatto, (a cura di), Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro, Milano, 2001, p. 103)
4«Devo innanzitutto respingere la più falsa delle leggende, secondo la quale sarei una sorta di teorico delle rivoluzioni. Oggi, gli ometti paiono credere che abbia preso le cose per la teoria, che sia un costruttore di teoria, sapiente architettura che aspetta solo di essere abitata dal momento che se ne conosce l’indirizzo.» (G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, cit., p. 151)
5G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, cit., pp. 133-134.
6«Questa vita e questo cinema sono ugualmente poca cosa; ed è per questo che sono scambiabili con indifferenza. […] Sono dei salariati poveri che si credono dei proprietari, degli ignoranti mistificati che si credono istruiti, e dei morti che credono di votare. Come li ha trattati duramente il sistema di produzione!» (Ivi, p. 135).
7Ivi, pp. 135-136.
8«Sono trapiantati lontano dalle loro province o dai loro quartieri, in un paesaggio nuovo e ostile, secondo le convenienze concentrazionarie dell’industria attuale. Sono solamente cifre in grafici tracciati da imbecilli. Muoiono […] a ogni innovazione tecnica proficua per i vari imprenditori di uno scenario di cui sono i primi a farne le spese. Le loro dure condizioni di esistenza comportano la loro degenerazione fisica, intellettuale, mentale.» (Ivi, p. 136)
9«Sono rigorosamente costretti a risiedere un uno spazio unico: lo stesso circuito di abitazioni, uffici, autostrade, vacanze e areoporti sempre identici.» (Ivi, p. 138)
10«Si parla loro sempre come a bambini obbedienti. […] Separati fra loro dalla perdita generale di ogni linguaggio adeguato ai fatti, perdita che proibisce il minimo dialogo; separati dalla loro incessante concorrenza, sempre incalzata dalla frusta, nel consumo ostentato del nulla […] sono anche separati dai propri figli, che costituivano fino a ieri l’unica proprietà di coloro che non possiedono nulla.» (Ivi, p. 137)
11Ivi, pp. 155-157.
12Questa intuizione è stata condivisa per molto tempo con il filosofo e sociologo urbano Henri Lefebvre, prima di rompere la storica amicizia. Per una ricostruzione dei rapporti tra Lefebvre, Guy Debord e il gruppo dei situazionisti si veda: A. Merrifield, Henri Lefebvre. A Critical Introduction, Routledge, New York, 2006, pp. 30-38.
13G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, cit., p. 155.
14Cfr.: G. Agamben, Il cinema di Guy Debord, cit., pp. 103-107.
15«Il cinema di cui parlo qui è questa imitazione insensata di una vita insensata, una rappresentazione ingegnosa per non dire nulla, capace di ingannare per un’ora la noia con il riflesso della stessa noia; questa vile imitazione che è la vittima del presente e il falso testimone dell’avvenire; che, tramite molte finzioni e grandi spettacoli, non fa che consumarsi inutilmente accumulando immagini che il tempo porta via. Che rispetto da bambini per le immagini! Si addice a questa plebe della vanit.» (G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, cit., p. 145)
16«Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione; frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento, e in definitiva dalla sua epoca in quanto riferimento globale come dall’opzione precisa che essa era all’interno di questo riferimento, esattamente riconosciuto o misconosciuto. […] Il détournement non ha fondato la sua causa su nulla di esterno alla sua pura verità come critica presente.» (G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Sugarco, Milano, 1990, pp. 222-223)
17Cfr.: M. Canosa, In girum imus nocte et consumimur igni, in M. Dall’Asta – M. Grosoli (a cura di), Consumato dal fuoco: il cinema di Guy Debord, Edizioni ETS, Pisa, 2011, p. 191.
18«Ma niente traduceva questo presente senza via d’uscita e senza riposo come l’antica frase che ritorna integralmente su se stessa, essendo costruita lettera per lettera come un labirinto da cui non si può uscire, di modo che essa accorda così perfettamente la forma e il contenuto della perdizione: In girum imus nocte et consumimur igni. Giriamo in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco» (G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, cit., p. 168).