La scommessa malinconica di Daniel Bensaïd – di Michael Löwy  

La scommessa malinconica di Daniel Bensaïd – di Michael Löwy  

17 Agosto 2020 Off di Francesco Biagi

di Michael Löwy

 

Si dà il caso che nel gennaio del 2005 io abbia fatto parte della commissione di abilitazione di Daniel Bensaid. Riproduco qui l’intervento che feci  in quella occasione: è al tempo stesso un omaggio e il richiamo ad alcune divergenze… La questione della «scommessa» mi sembrava già una delle principali scoperte di Daniel. Nel testo mi rivolgo direttamente al compagno e all’amico, al di là di ogni rituale accademico.

 

Il tuo percorso di filosofo e teorico politico inizia sotto l’egida del Maggio 68 con una relazione di Maîtrise su «La nozione di crisi rivoluzionaria in Lenin», presentata a Nanterre nel settembre 1968, sotto la direzione di Henri Lefebvre. Secondo una versione parziale pubblicata sulla rivista Partisans – e i tuoi commenti retrospettivi – si ha l’impressione di una sorprendente associazione del volontarismo di Lukács e dello strutturalismo di Poulantzas. Allora ero rimasto colpito dalla dura polemica contro Rosa Luxemburg…

Ma è vent’anni dopo, nel 1989, che inizia il tuo vero lavoro di ricerca, «sotto il duplice effetto dei cambiamenti politici nel mondo e di circostanze personali». Vorrei saperne di più sulle motivazioni di questa «svolta»: precede di poco gli avvenimenti del 1989, poiché il libro Moi la Révolution appare in quest’anno, prima della «caduta del muro». In ogni caso, il risultato è impressionante: in pochi anni, sei diventato uno degli intellettuali più inventivi e più creativi nel campo del pensiero marxista in Francia – e oltre, poiché si comincia a tradurti in inglese, spagnolo, portoghese, giapponese, ecc. Senza nulla rinnegare del tuo impegno rivoluzionario, hai aperto un gran numero di piste nuove e contribuito alla riscoperta di tesori dimenticati della cultura radicale.

In dodici libri, di importanza ineguale, ma che costituiscono un insieme di grande coerenza, tu svolgi «tre figli intrecciati»: la ricerca di un Marx «intempestivo», la critica della ragione messianica, a partire da Walter Benjamin, e il ripristino della dignità della politica, in un rapporto strategico al presente. Il tuo bilancio dell’opera di Marx, le tue analisi sociologiche, la critica dei pensatori contemporanei sono sempre interessanti. Ma nei tuoi libri c’è qualcosa di più: delle vere e proprie illuminazioni profane in senso benjaminiano. Penso in particolare alla tua rilettura del marxismo, alla luce della costellazione libertaria e malinconica le cui stelle si chiamano Nietzsche, Blanqui, Sorel, Péguy, Bernard Lazare, Gramsci, Benjamin, José Carlos Mariategui. Rifiutando la miseria positivista del marxismo francese – fondata sulla fiducia cieca nel flusso lineare di un progresso a senso unico – hai scoperto/inventato/immaginato un marxismo della scommessa pascaliana (ispirandoti a Lucien Goldmann), un marxismo profetico, in senso vetero-testamentario – previsioni condizionali che sono appelli all’azione – insomma, un marxismo dell’incertezza. La tua visione strategica o messianica della storia, che si oppone alla storia storicista, «cancelliera del fatto compiuto», e che si prefigge di «decifrare il fascio dei possibili», è un contributo appassionante al rinnovamento della teoria critica. Certo, ho qualche disaccordo, dubbio o critica. Per esempio, sull’utopia, un vecchio tema di dibattito tra di noi. Tu respingi giustamente «l’utopia nel cattivo senso della parola», le costruzioni arbitrarie, le speculazioni dottrinarie sul futuro, le proiezioni improbabili. Ma esiste anche un’utopia nel «buon senso», nel senso etimologico di «ciò che non esiste da nessuna parte (ancora)», o nel senso della definizione di Mannheim: insieme di idee che hanno una portata sovversiva rispetto all’ordine delle cose esistenti. In Walter Benjamin mi sembra che il messianismo e l’utopia non siano affatto contraddittori: esiste una corrispondenza tra l’era messianica e la società senza classi. L’utopia di Benjamin si riferisce a Marx – l’abolizione delle classi -, ai pensatori libertari – la fine del dominio -, a Fourier – l’armonia con la natura. Si richiama a Bachofen per immaginare una società senza patriarcato.  Sono d’accordo con te che si tratta di un’utopia strategica. Ma la strategia non avrebbe senso senza un orizzonte utopico, senza la prospettiva di una società radicalmente diversa.

L’altro disaccordo riguarda il termine di «attesa» messianica, che usi spesso per descrivere l’atteggiamento di Benjamin. Mi sembra che Benjamin non sia di quelli che «aspettano» il Messia, appartiene alla tradizione eretica dei dochakei ha Ketz, gli «acceleratori della fine», quelli che vogliono precipitare – con azioni magiche o kabbalistiche – la venuta del Messia. Questo atteggiamento attivo, che chiama all’azione piuttosto che aspettare, mi sembra corrispondere meglio al pensiero di Benjamin – e al tuo, del resto! Terza e ultima domanda, che riguarda il giudizio: la distinzione tra giuridico, storico e politico è interessante, ma mi sembra che, eliminando il giudizio morale, si perda una dimensione essenziale del problema. Il giudizio etico non è riducibile né al giuridico, né allo storico, né al politico – e viceversa; esso possiede la sua autonomia, la sua dignità e la sua importanza. Non capisco come sarebbe possibile farne a meno…

Per concludere, cito un passo dall’abstract della tua tesi: «Nel lavoro per l’incerto l’unica regola consiste nel prendere le parti dell’oppresso. » La fedeltà a questa regola caratterizza sia la tua vita di militante rivoluzionario che la tua opera filosofica. Questa si chiama coerenza.

 

Le tournant philosophique de 1988-1989

Torniamo un attimo a questa famosa svolta nell’opera di Daniel. Aveva scritto alcuni libri importanti prima del 1989, avendo tutti come centro la questione della strategia rivoluzionaria, nella grande tradizione leninista.Tuttavia, a partire da quest’anno, con la pubblicazione di Moi la Révolution: remembrances d’une bicentenaire indigne (Gallimard, 1989) e Walter Benjamin, sentinelle messianique(Plon, 1990), inizia un nuovo periodo, caratterizzato da una nuova qualità di scrittura, un fantastico flusso di idee, una straordinaria inventiva. Senza abbandonare per un solo istante il suo interesse per la strategia, affronterà un gran numero di questioni filosofiche nuove, con una straordinaria apertura dell’orizzonte, un approfondimento della riflessione, che conduce ad un autentico rinnovamento del pensiero marxista e della teoria rivoluzionaria. Ognuno di questi nuovi libri è un’invenzione che esce dai sentieri battuti e ci porta un soffio d’aria fresca formidabile. Certo, non si tratta di un insieme sistematico e chiuso – come il comunismo platonico e matematico di un Alain Badiou – ma di una serie di saggi, con tutto quello che ciò implica come fragilità, discontinuità, asimmetria – ma anche, in cambio, come qualità letteraria, stile fiammeggiante e incisivo, creatività intellettuale.

Quali sarebbero le ragioni di questa svolta filosofica, di questo «salto qualitativo» nel senso dialettico del termine? È forse la caduta del muro di Berlino nel 1989, quell’evento ambiguo che avrebbe cambiato il corso della storia moderna? Non è sicuro, poiché Moi la Révolution, che inaugura la nuova tappa della sua opera, è stato redatto prima del 1989. Ci vorrebbe uno studio di sociologia della cultura, e una biografia intellettuale di Daniel, per spiegare questo «salto». Nella sua autobiografia, Daniel stesso parla di una «svolta personale» che colloca nel corso degli anni 1989-1990 – ma sappiamo che la svolta comincia già nel 1988. Daniel suggerisce tre possibili spiegazioni:

 

  1. La sua malattia: «Impedito per motivi di salute di viaggiare, non potendo agire ho cominciato a scrivere. » Ma questa malattia (l’AIDS), che ben presto ha messo la sua vita in pericolo, si era manifestata molto prima della «svolta».
  2. Il periodo storico: «Nel 1980 l’Europa entrava in una decade mortifera. [… ] L’avvento della Thatcher chiudeva il turbolento capitolo aperto nel 1968. L’ora della controffensiva liberale suonava». Bisogna aggiungere a ciò il gusto amaro, in Francia, dei «sinistri» anni ’80 – un’espressione che usava spesso – che sembrano consacrare il trionfo del social-liberalismo mitterrandiano e l’isolamento della sinistra rivoluzionaria. Daniel ha dunque sentito il bisogno, in un’epoca come questa, di «fare un passo indietro», di «frugare nuovamente le ragioni di una passione», di rileggere Marx e di intraprendere un lavoro di «ricostruzione».
  3. Un’occasione: «Devo dunque alle insistenze di Edwy e di Nicole di aver intrapreso nel 1988, di scrivere qualcosa di diverso dagli opuscoli, dagli articoli di bollettini interni, dai testi di circostanza» – sarà Moi la Révolution.

 

Aggiungerei un’altra possibilità: la scoperta, verso il 1988, dell’opera di Walter Benjamin. È possibile che il mio libro apparso in quell’anno, Redenzione e Utopia. L’ebraismo libertario in Europa centrale, il cui capitolo centrale era dedicato a Benjamin, abbia contribuito a questa scoperta? Non ne sono sicuro: probabilmente ha iniziato a leggere la sua opera prima di quella data. Si tratta senza dubbio di un incontro che lo ha segnato e lo ha scosso molto profondamente (mi era successa la stessa cosa qualche anno prima). In quel periodo ci sentivamo molto vicini, a partire dall’interesse comune per l’autore delle Tesi sul concetto di storia; ricordo di aver proposto a Daniel, verso il 1988 (ma posso sbagliarmi sulla data) di scrivere insieme un articolo su Benjamin – mi aveva risposto: «Perché non un libro»? Alla fine, ha scritto lui stesso questo libro, il magnifico Walter Benjamin sentinella messianica (1990), una delle prime opere filosofiche del nuovo periodo. Il nostro articolo comune fu realizzato, ma diversi anni dopo (2006); fu dedicato al rivoluzionario più amato da Walter Benjamin, colui la cui “voce bronzea” ha risuonato per due secoli: Auguste Blanqui.

 

La scommessa malinconica

Tra tutte le opere di questi anni post 1988, il più bello, il più ispirato, il più “illuminato” – nel senso profano di cui parlava Benjamin – è per me Le pari melancolique (Fayard, 1997). Ma questo è un punto di vista inevitabilmente soggettivo… In quanto segue riprenderò, in parte, le idee che ho esposto in un saggio intitolato «Daniel Bensaid, comunista eretico», ma con alcune differenze.

La molteplicità dei riferimenti dell’opera sconcerta in un primo momento: i «classici» – Marx, Lenin e Trotsky – sono ben presenti, ma si trovano anche Blanqui, Péguy, Hannah Arendt, Walter Benjamin, senza dimenticare Pascal, Chateaubriand, Kant, Nietzsche e una serie di autori minori. Nonostante questa diversità apparentemente eclettica il discorso è di grande coerenza. La sua rilettura di Marx, alla luce di Benjamin e di Péguy, lo porta a concepire la storia come una serie di ramificazioni e biforcazioni, un campo di possibili dove la lotta di classe occupa un posto decisivo, ma il cui esito è imprevedibile. La parte più innovativa e affascinante del libro è, mi sembra, l’ultimo capitolo, «La rivoluzione nei suoi labirinti», dove si parla, appunto, della «scommessa malinconica». Il punto di partenza di Daniel per parlare della rivoluzione è piuttosto inaspettato: la profezia biblica. Il profeta vetero-testamentario, come aveva già suggerito Max Weber nel suo lavoro sull’ebraismo antico, non procede a riti magici, ma invita ad agire. Contrariamente all’attesa apocalittica e agli oracoli di un destino inesorabile, la profezia è un’anticipazione condizionale, che cerca di scongiurare il peggio, di tenere aperto il fascio di possibili. Quando la profezia perde la sua dimensione politica, sovversiva, diventa apocalittica: la politica si cancella nella religione, la storia nell’eternità che conduce, inesorabilmente, all’immobilità. Ho qualche riserva quando Daniel loda la «sobria determinazione» degli stoici all’antica come Marco Aurelio; o quando sembra valorizzare l’attesa, un atteggiamento che consiste nello «stare in agguato»; o ancora quando parla di «pazienza attiva». Preferisco di gran lunga la «lenta impazienza», che dà il titolo alla sua affascinante autobiografia… All’origine della profezia, nell’esilio babilonese, si trova un’esigenza etica che si forgia nella resistenza ad ogni ragione di Stato. Questa alta esigenza attraversa i secoli: Bernard Lazare, dreyfusard e socialista libertario era, secondo Péguy, un esempio di profeta moderno, animato da una «forza di amarezza e di delusione», un soffio di indomabile resistenza all’autorità. Per Daniel lo stesso vale, beninteso, per Leone Trotsky, descritto da Isaac Deutscher come un profeta – a volte armato, a volte disarmato ed esiliato – del XX secolo.

Coloro che hanno resistito ai poteri e alle fatalità, tutti quei «principi del possibile» che sono profeti, eretici, dissidenti e altri insubordinati, si sono senza dubbio spesso ingannati. Hanno comunque tracciato un sentiero, appena leggibile, e salvato il passato oppresso dal grossolano saccheggio dei vincitori. Hanno saputo resistere, senza certezza di vittoria, perché hanno capito che le peggiori sconfitte sono le sconfitte senza lotta…

Secondo Daniel Bensaid, c’è della profezia in ogni grande avventura umana, amorosa, estetica o rivoluzionaria. La profezia rivoluzionaria non è una previsione, ma un progetto, senza alcuna garanzia di vittoria. La rivoluzione, non come modello prefabbricato, ma come ipotesi strategica, rimane l’orizzonte etico senza il quale la volontà rinuncia, lo spirito di resistenza capitola, la fedeltà viene meno, la tradizione (degli oppressi) si dimentica. Senza la convinzione che il circolo vizioso del feticismo e il giro infernale della merce possono essere spezzati, la fine si perde nei mezzi, lo scopo nel movimento, i principi nella tattica. Seguendo Walter Benjamin, Daniel mostra che l’idea di rivoluzione si oppone radicalmente alla fede paralizzante in un futuro garantito, nonché alla sequenza meccanica di una temporalità implacabile. Refrattaria allo svolgimento causale dei fatti ordinari, essa è interruzione. Momento magico, la rivoluzione rimanda all’enigma dell’emancipazione, in rottura con il tempo lineare del progresso, questa ideologia da cassa di risparmio così violentemente denunciata da Péguy, dove ogni minuto, ogni ora che passa, dovrebbero apportare la loro piccola parte di crescita e di perfezionamento. Come aveva capito Walter Benjamin, lo spettro della rivoluzione esige giustizia per il passato oppresso e annuncia un futuro liberato.

Il tempo e lo spazio della strategia rivoluzionaria si distinguono radicalmente da quelli della fisica newtoniana, «assoluti, veri, matematici». Si tratta di un tempo eterogeneo, kairotico – cioè scandito da momenti propizi e opportunità da cogliere. Ma di fronte ad un incrocio di possibili, l’ultima decisione comporta una parte irriducibile di scommessa.

Daniel si ispirerà, a questo proposito, ai lavori, troppo presto dimenticati, del grande pensatore marxista eterodosso Lucien Goldmann. Nel suo notevole saggio sulla visione del mondo tragica presso i pensatori giansenisti (Pascal e Racine), Il Dio nascosto (1955), Goldmann confronterà la scommessa di Pascal con quella di Marx. Mentre il primo riguarda «l’eternità e la felicità infinita promessa da Dio ai credenti», la scommessa marxista riguarda «il futuro storico che dobbiamo creare con l’aiuto degli uomini». Come hanno dimostrato Pascal e Kant, osserva Goldmann, nulla sul piano dei giudizi all’indicativo, dei «giudizi di fatto» scientifici, permette di affermare né il carattere errato né il carattere valido della scommessa iniziale. Quest’ultimo non è oggetto di una «prova» o dimostrazione fattuale, ma costituisce un «atto di fede», una speranza che si gioca nella nostra azione comune, nella prassi collettiva. D’altra parte, sia la scommessa pascaliana che la scommessa dialettica implicano contemporaneamente il rischio, il pericolo di fallimento e la speranza di successo. Ciò che li distingue è la natura trascendentale della prima – scommessa sull’esistenza di Dio – e puramente immanente e storica della seconda: scommessa sul trionfo del socialismo nell’alternativa che si offre all’umanità nella scelta tra socialismo e barbarie.

Non credo ci siano molti scritti di Marx o di Engels che fondano il cammino della storia verso il socialismo su un «atto di fede», piuttosto che su «giudizi di fatto» scientifici! Si tratta, da parte di Goldmann, di un’interpretazione – condivisa, come vedremo, da Daniel – abbastanza eterodossa e piuttosto iconoclasta… Stranamente, la geniale intuizione di Lucien Goldmann sul posto della scommessa nella riflessione marxista ha suscitato pochissimo interesse, anche presso i suoi biografi e discepoli. Lo stesso vale per il libro su di lui che ho scritto in collaborazione con Sami Naïr nel 1973, che dedica solo alcuni paragrafi a questa problematica. Solo molto più tardi, verso il 1995, ho scritto un articolo, in un’oscura rivista di scienze sociali, sulla «scommessa comunitaria» di Lucien Goldmann. In effetti, è Daniel Bensaid il primo marxista a mettere la scommessa al centro di una visione rivoluzionaria della storia. Ai suoi occhi, l’impegno politico rivoluzionario non è fondato su una qualsiasi «certezza scientifica» progressista, ma su una scommessa ragionata sul futuro: l’azione emancipatrice è, per riprendere una formula di Blaise Pascal, «un lavoro per l’incerto». La scommessa è una speranza che non si può dimostrare ma sulla quale bisogna impegnare la propria intera esistenza. La scommessa è inevitabile, in un senso o nell’altro: come scriveva Pascal, bisogna scommettere, siamo necessariamente in gioco. Nella religione del Dio nascosto (Pascal) come nella politica rivoluzionaria (Marx), l’obbligo della scommessa definisce la condizione tragica dell’uomo moderno.

Questa riflessione ha l’immenso vantaggio di liberare il marxismo dal pesante carico positivista/scientista e determinista che ha tanto pesato, nel corso del XX secolo, sul suo potenziale sovversivo ed emancipatore, e di dare tutto il suo posto al «fattore soggettivo», all’«ottimismo della volontà», all’impegno, all’azione collettiva, e quindi alla strategia. Grazie alla via indiretta di Pascal, Daniel dà una fondazione filosofica al suo leninismo rivoluzionario: non è il paradosso minore di questo libro stupefacente…

Daniel Bensaid – come lo stesso Goldmann – non si interessa molto dell’aspetto «matematico» della scommessa di Pascal, il calcolo delle probabilità, il confronto tra la felicità finita sulla terra e la felicità infinita dell’eternità – argomento che serve a giustificare, secondo Pascal, la scelta di scommettere sull’infinito. Mi sembra che ci sia comunque una differenza capitale con la scommessa rivoluzionaria: mentre il credente cristiano scommette su una felicità eterna grazie alla salvezza della sua anima individuale, il «credente socialista» scommette su una felicità collettiva a cui non ha alcuna certezza di partecipare. È possibile che la fede comunista sia più ascetica di quella del giansenismo di Pascal?

Perché questa scommessa è così malinconica? La risposta di Daniel è di una impressionante lucidità: i rivoluzionari, scrive, hanno sempre avuto la consapevolezza acuta del pericolo, il sentimento della ricorrenza del disastro. Da qui la malinconia inflessibile di Blanqui, suicida di Benjamin, lucida di Tucholsky, ironica di Guevara, irriducibile di Trotsky. La loro malinconia è quella della sconfitta, una sconfitta «quante volte ricominciata» (Péguy). In una lettera di gioventù, Walter Benjamin rendeva omaggio, ricorda Daniel, alla grandezza della «fantastica malinconia controllata» di Péguy; e nel suo saggio sul surrealismo (1929) si riferisce al trotskista Pierre Naville, secondo il quale il pessimismo è una dimensione essenziale della dialettica marxista. Questa malinconia rivoluzionaria dell’inaccessibile, senza rassegnazione né rinuncia, si distingue radicalmente, secondo Daniel, dal dolore impotente dell’ineluttabile e dei lamenti postmoderni per mancanza di finalità, con la loro estetizzazione di un mondo disincantato. Niente è più estraneo al rivoluzionario malinconico della fede paralizzante in un progresso necessario, in un futuro assicurato. Pessimista, non rifiuta meno di arrendersi, di piegarsi al fallimento. La sua utopia strategica – tutto il contrario delle «utopie chimeriche» del passato e del presente – è quella del principio di resistenza alla catastrofe probabile. Grazie a quest’ultima parte, il libro di Daniel Bensaid diventa molto più che un commento intelligente dell’attualità o una diagnosi critica della crisi: ci porta uno sguardo nuovo sulla speranza, uno sguardo che ci aiuta a ristabilire la circolazione tra la memoria del passato e l’apertura del futuro.

Senza ottimismo beato, senza illusioni sui «domani che cantano», senza alcuna fiducia nelle «leggi della storia», non di meno esso afferma la necessità, l’urgenza, l’attualità della scommessa rivoluzionaria. Una scommessa, certo, malinconica, ma mai rassegnata, mai fatalistica, mai passiva, neutrale o indifferente – l’indifferenza di coloro che scommettono, siano essi coscienti o meno, sulla non evoluzione, cioè sull’eterno ritorno dello stesso, sul regno infinito del capitale, sulla persistenza, per Omnia secula seculorum, del giro infernale della merce…

 

(Traduzione di Mario Pezzella)

Il testo francese si trova nel sito della rivista Contretemps, https://www.contretemps.eu/pari-melancolique-bensaid-lowy/