Scotellaro, o la fatica della mediazione – di Marco Gatto

Scotellaro, o la fatica della mediazione – di Marco Gatto

4 Agosto 2020 Off di Francesco Biagi

Marco Gatto

 

La pubblicazione del Baobab mondadoriano dedicato a Tutte le opere di Rocco Scotellaro cade in un momento in cui l’attenzione per il mondo contadino, per la cultura dei subalterni e per il destino della terra si carica di significati nuovi. Le lotte per un’equa distribuzione delle risorse e la denuncia per lo sfruttamento dei territori da parte di un capitalismo sempre più aggressivo e criminale incontrano, nelle aree depresse, le istanze di una rinnovata questione ecologica, sociale e civile. In tal senso si riapre, a livello locale e globale, una possibile partita per il Meridione e per chi abbia voglia di riflettere sui nodi storici, economici e culturali che ne hanno decretato passività e isolamento. Non si può che ripartire, allora, da quel momento nevralgico che segna, negli anni Cinquanta della nostra storia nazionale, il disintegrarsi della civiltà contadina e di tutto un mondo rurale nel nome di un falso progresso e di un’inefficace, quanto dannosa, politica dello sviluppo; non si può che ripartire dallo scoperchiamento di una contraddizione storica e sociale che si riaffaccia a Sud ogni volta che riappare il tema dell’Italia a doppia velocità, oggi declinato, in modo imbarazzante anche a sinistra, nel verso secessionista della cosiddetta autonomia differenziata; non si può che ripartire da chi quel conflitto lo visse dall’interno, restituendone il senso e patendone gli esiti, come capitò, fra i tanti, a Scotellaro. Da tempo si richiedeva la ristampa delle poesie, dei racconti, delle inchieste, e una restituzione il più possibile completa del lavoro culturale messo in campo dal giovane sindaco di Tricarico nell’arco della sua brevissima esistenza: dobbiamo questa bella impresa al suo massimo studioso, Franco Vitelli, e all’impegno di Giulia Dell’Aquila e Sebastiano Martelli.

Occorre però, da lettori e custodi dell’opera di Scotellaro, essere chiari su un punto, che è anzitutto politico-culturale: non può e non deve trattarsi di una canonizzazione o di un tributo, di un’operazione che relega lo scrittore a “bene di cultura”. Non può e non deve per una ragione: Scotellaro oggi merita di essere riletto e riscoperto non come “documento” di un mondo estinto, ma come l’esempio più vivo di una militanza culturale, politica e intellettuale che riconosce al principio di realtà – che è, da sempre, la lotta dei poveri contro i ricchi – l’irrefutabile compito di guida e orientamento. Ciclicamente questa lezione non smette di interrogarci. Fu così a Matera, nel febbraio del 1955, quando, a pochi mesi dalla morte, intellettuali e politici di estrazione socialista e comunista si incontrarono per commemorare il sindaco-poeta, non mancando di legare a quel ricordo, anche commosso e partecipato, la sensazione di trovarsi in un momento delicatissimo per le sorti del Mezzogiorno, già selvaggiamente vittima della depredazione capitalistica. Fu così vent’anni dopo la scomparsa, a Torino, nel febbraio del 1974, in un incontro aperto da Manlio Rossi-Doria, il quale, riflettendo sull’attualità di Scotellaro e parlando soprattutto ai “giovani meridionali che in lui si riconoscono, conoscendo se stessi”, insisteva sull’identità di vita e opera, sul lascito di quella esperienza, il cui contributo definitivo – lasciato in eredità ai contadini di ieri e agli sfruttati di oggi, e volto a demistificare la storia scritta dai vincitori – consisteva nel “rompere il mito della loro immobilità, della loro incapacità di progresso” (l’intervento si legge nel volume collettivo Il sindaco poeta di Tricarico, Basilicata editrice, 1974). È così oggi, nel momento in cui una questione meridionale andrebbe ripensata e rimeditata, dopo trent’anni di vuoto interpretativo, che hanno prodotto solo immagini meridiane buone per gli interessi dell’industria culturale.

Ma Scotellaro non smette di sollecitare l’attenzione di chi intende il lavoro intellettuale come un lavoro politico per una ragione specifica, che emerge dalla lettura di Tutte le opere. Descritto come il cantore dell’epopea rurale, ritratto come il poeta-contadino, Scotellaro fu anzitutto un grande realista. E, da realista, un vero intellettuale organico, nel senso più squisitamente gramsciano del termine. Lo fu da sindaco, da esponente del Partito socialista, e lo fu da scrittore, da agitatore culturale, da megafono di un popolo, in virtù di una coerenza e di un’unità di intenti che ne garantivano, per giunta, l’assoluta originalità. Perché originale fu il suo modo di interpretare le istanze che provenivano dai contadini lucani, di avvicinarsi a essi provando a identificarsi con le loro ragioni profonde; perché originale fu la consapevolezza che una pur minima distanza, dovuta a ragioni di classe (veniva da una famiglia con una modesta disponibilità economica, comunque in grado di garantirgli un percorso di formazione quasi lineare), tra lui e loro si dava, e che in quella distanza si situavano le ragioni politiche, mobili, transitorie, e per questo delicatissime, della delega. La grandezza di Scotellaro – una grandezza che lo accomuna a uno dei suoi maestri, Carlo Levi, interprete, seppure su altre basi, di una civiltà dimenticata, e al già citato Rossi-Doria – sta nella capacità di porsi il problema dell’approssimazione a un mondo che, diversamente, potrebbe essergli ostile. Sta, cioè, nella coscienza realistica, direi verghiana, della regressione. In Scotellaro essa non si lega a un’elaborazione teorica di stampo programmatico, non è una “tecnica”, ma è l’esito di un lavoro di identificazione, a tutti i livelli, con i suoi interlocutori, di un impegno che, da sindaco, gli fa scrivere, in un appunto politico per un convegno di amministratori a Brindisi: “i nostri maestri sono i contadini”, e che gli detta il vero proposito della sua azione politica: “Essere del mondo contadino”, cioè appartenervi. E si noti che in questo avvicinamento non solo sentimentale al popolo riluce la presa di coscienza di quell’inevitabile distanza che rende possibile il legame organico (ancora in senso gramsciano) con il proprio destinatario politico. Ecco perché la sua opera è un dirompente riflesso di quel momento storico: nel comporla Scotellaro inscena, secondo modalità del tutto originali, un lavoro culturale fondato sulla fatica della mediazione, sul travaglio che l’intellettuale socialista pone in essere nel momento in cui ambisce a identificarsi con gli esclusi, tentando di dissimulare, ben conoscendola, la necessità della vece, della rappresentanza.

Proprio perché consapevole di quanto faticosa sia la mediazione, da Scotellaro, come scrive Michele Abbate, “è lontana ogni forma di idoleggiamento sterile del mondo contadino”. Se per lungo tempo si è parlato, a proposito della sua figura, e a mio parere erroneamente, di preconcetta difesa dell’autonomia contadina, bisogna allora ribadire che il lavoro di Scotellaro percorre una direzione diversa, direi demartiniana: intende, cioè, dimostrare la presenza storica delle masse dimenticate, il loro corredo culturale, mentale, materiale, il loro essere parte di un più generale processo storico, dal quale si sono, in verità, difese. E questo compito di rappresentazione, di immissione di un intero mondo in una prospettiva più ampia, è un’ulteriore cifra dell’impossibile scissione tra il momento culturale e quello politico. Scotellaro è poeta del mutamento, non dell’immobilità. Una visione autonomistica, del resto, avrebbe autorizzato un’adesione acritica al mondo contadino, e non avrebbe concesso ai dubbi, alle contraddizioni, alle ambiguità di scoperchiarsi. A scrivere Contadini del Sud – ad accorgersi del valore storico di un Chironna o di un Mulieri, figure-simbolo di una regressione in atto, di un’imminente fine della cultura rurale, del suo assorbimento nelle trame dello sviluppo, ma pure di un costume tutto italiano, dedito al qualunquismo e al “particulare” – è un intellettuale che vuole mostrare senza sconti la ferita e che vuole difendersi dalle lusinghe del buonismo. In ciò sta la sua distanza dagli esiti più scontati del neorealismo: l’oggetto rappresentato non viene caricato di miticità, di sensualismo, di poesia, di decorazione letteraria. La lucidità con cui Scotellaro guarda all’imminente tramonto di una civiltà – convinzione sofferta che gli veniva dall’esperienza drammatica del carcere – sta ancora in uno sguardo realistico, che gli suggerisce di non potersi accostare ai contadini in modo consolatorio o quietista.

Di questa fedeltà al reale è testimonianza l’itinerario poetico. In uno studio di qualche tempo fa, intitolato A giorno fatto. Linguaggio e ideologia in Rocco Scotellaro (Basilicata editrice, 1977), Rosalma Salina Borello ha dimostrato come la traiettoria letteraria – dalle primissime poesie giovanili sino ai testi legati alla sua esperienza politica – segua la ricerca di una lingua in grado di aderire alla realtà, il più possibile liberandosi da forzati orpelli, eppure ben conoscendo l’inevitabile peso della tradizione e del privilegio culturale. Lo diceva anche Franco Fortini a Matera nel ’55: “Solo la pratica possibilità di modificare il reale in senso sociale e politico l’ha sottratto, se non sempre almeno spesso, al gusto della decorazione” (La poesia di Scotellaro, Basilicata editrice, 1974). È un processo di irrobustimento poetico che resta inchiodato alla sua morte prematura, certo. Ma uno sguardo analitico leggero – di cui fu colpevole, fra gli altri, Pier Paolo Pasolini – ha generato grossolane visioni definitive: Scotellaro erede di un certo neocrepuscolarismo; Scotellaro non indenne da forzatissime sintesi tra arcaismi di maniera e fughe verso la realtà; Scotellaro a un tempo ermetico e neorealista; e via dicendo. Vero è che questo intrico di possibili riferimenti e rimandi andrebbe letto come il sintomo di un attivismo poetico militante quanto quello politico, ossia come una ricerca inesausta della giusta dimensione di parola. Nel dissidio che viene a crearsi tra lessico alto e approssimazione alla lingua corrente sta ancora il segno di un lavoro politico di mediazione. Se Scotellaro non sceglie di rifugiarsi nella pura dialettalità, è perché sente la contraddizione stilistica come necessaria, e sa che solo quella deve seguire, pur costandogli l’imperfezione. In tal modo, egli si preserva dagli abbandoni letterari – non è vero, come ebbe a dire Corrado Alvaro in un intervento sul “Corriere della Sera” dell’11 settembre 1954, che nella sua opera vi sia “disprezzo” per la letteratura (si può leggere l’intero capo di accusa in Omaggio a Scotellaro, a cura di Leonardo Mancino, Lacaita, 1974) – e dal disimpegno programmatico proprio di Pavese e altri, per accedere a una rappresentazione pressoché antropologica della “vita che si fa” (per usare un’espressione di Vitelli, che il lettore potrà trovare in un saggio che accompagna il volume mondadoriano), che poco ha a che vedere con la vulgata neorealistica.

È possibile che i problemi stilistici con cui Scotellaro si trovò a fare i conti rappresentino i nodi cruciali di qualsiasi realismo. Nella sua opera risultano esibiti. Oggi, in tutt’altro contesto, e quarant’anni dopo l’ultimo vero e denso dibattito sul suo lascito, è forse opportuno interrogarsi su un rischio. In tempi di banalizzazione della questione meridionale, di neoborbonismo risorgente, di semplificazioni storiografiche, di falsa democratizzazione della vita culturale (specie in letteratura), in tempi di meridianismo a buon mercato e di brandizzazione esotica dei luoghi, in cui il Sud si riassume in un safari vacanziero, occorre difendere Scotellaro dai suoi ammiratori. Vale a dire battersi affinché la sua poesia non divenga una merce fra le altre o il marchio di una supposta genuina semplicità espressiva. Vale per costoro l’ammonimento materano di Fortini: “La poesia facile non esiste”, e, quando tale si presenta, non è autentica. Si può difendere Scotellaro mantenendosi fedeli al suo lascito, che, se da una parte può risultare ancorato a un’epoca ormai lontana, dall’altra potrebbe rivelarsi, in un futuro ormai prossimo, incredibilmente attuale nello sforzo di tenere assieme i motivi dell’impegno politico-culturale e il bisogno di uno sguardo irrequieto sul mondo, le ragioni del pensare e le necessità del fare.

 

[pubblicato su “Gli Asini”, n. 68, 2019, pp. 117-120]