Nella crisi, oltre il virus. Karl Marx avrà avuto (futuro passato) qualche buona ragione se oggi…

Nella crisi, oltre il virus. Karl Marx avrà avuto (futuro passato) qualche buona ragione se oggi…

22 Luglio 2020 Off di Francesco Biagi

di Renato Tomba

 

A inizio febbraio, a tavola Giorgio Griziotti, nel suo discorso (di cui qui[1] una sintesi conviviale) sulla crisi della società nell’attuale fase del capitalismo, poneva una questione radicale: siamo di fronte a una biforca­zione della storia – o la rivoluzione globale o la catastrofe planetaria, e se non la catastrofe, una gestione totali­taria del potere (un nuovo fascismo). Non era una profezia, ma l’esito di un’analisi dell’attuale instabi­lità dell’economia, a dominio finanziario, del sistema-mondo capitalistico, e riferita anche alla circostanza di un eventuale disastro, come una pandemia, cui si fece cenno – in quel momento la dif­fusione del virus SARS-CoV-2 sembrava ancora solo una realtà relegata in Cina.

Di lì a poco, l’evento apocalittico è diventato cronaca, e il senso di una rottura nel tempo della storia è diventata l’insistente espressione di un immaginario collettivo: nulla sarà, o potrà essere, più come prima, espressione che non ne esclude una declinazione fatalista, o, al contrario, in uno slancio più pragmatico, se ne reclama l’opportunità, l’occasione per “cambiare il mondo”, per un altro possibile, migliore. Un mondo, l’attuale, che un minuscolo patogeno ha smascherato nella sua interna fragilità, non tanto per la viru­lenza di un agente infettivo, quanto per la macrosco­pica tossicità di un modo, il nostro, di abitare al mondo. Una rottura quindi neces­saria, ma forse non suffi­ciente, per il nostro “apprendistato” a vivere e a morire, per imparare a riflettere, come ci obbliga l’origine e la propagazione di un contagio virale, sull’in­treccio di rete della vita che è la con­dizione stessa della vita tutta, e del nostro stare al mondo.

Di certo, il futuro non verrà avanti da sé. Ma quale sarà l’esito – rivoluzione o catastrofe, in una qualche forma – è cosa difficile da immaginare, che non può che scontare la nostra costitutiva incapacità di fare previ­sioni. Al momento, siamo in grado di dire che nell’incontro con un patogeno mortale – negli spasmi della malattia, e del dolore – il rischio del “contagio” ci obbliga a riflettere sull’espressione politica dell’arte di vivere (βίος-τέχνη), su una pratica di cura cui ci ri­chiama la fragilità della vita corporea come a una ne­cessità comune. Un’arte del vivere, quindi, e, con più esattezza, un’arte del vivere insieme, della nostra con-vivenza, che forse richiede una riflessione più critica, perché in effetti c’è da dubitare della com­pren­sione che ab­biamo del nostro stare nel mondo, se appunto il nostro modo di vivere – nel processo vitale della riproduzione capitalistica della società – non solo mette a rischio la nostra sopravvi­venza di specie, ma registra un impatto crescente, a livello di tutto il sistema vivente, sulla già in corso sesta estinzione di massa.

Un’emergenza sanitaria – in forza di misure di pre­venzione del rischio, le misure emergenziali del “con­finamento” e del “distan­ziamento” – ha trasformato in modo improvviso e dra­stico la nostra vita sociale. La so­spensione di fondamentali libertà personali, che lo shock dell’evento ha comportato, è stata diagnosti­cata, e forse non senza ragione, come l’introduzione di un genere di autoritarismo, per il quale il dominio dell’eco­nomia di mercato capita­listica, proprio nel radicarsi a livello biologico della vita individuale, trova un nuovo regime di controllo politico, di regolazione della vita sociale.

La nostra vita quotidiana si è rarefatta, e non senza un certo sconcerto, perché tutto, o quasi tutto, delle condizioni sociali della nostra esistenza, pur nel rispetto precauzionale della distanza corporea, ha conti­nuato a funzionare. Così la gestione della nostra individualità ha assunto una piega paradossale, un carat­tere oppositivo, non privo di conflitto: la nostra esistenza, nel suo isolamento corporeo, si è affidata per l’espressione multi­laterale (economica, lavo­rativa, culturale, affettiva, comunicativa) delle sue potenzialità vitali all’apparato tecnologico infrastrutturale del capi­talismo, e ai suoi assetti proprietari (piattaforme digi­tali di e-commerce, di social network, di informazione e comunicazione); si è cioè dislocata in un’esistenza virtuale, mediata dai dispositivi della tecnologia digitale, veri e propri spazi materiali della produzione di socialità. Anzi, c’è stata una vera e propria esplosione di momenti di condivisione intelligente, di mobili­ta­zione di com­petenze cognitive, comunicative e sociali, basate proprio su un libero coinvolgi­mento sogget­tivo delle nostre vite. E, tuttavia, nel suo complesso, il mantenimento della nostra esistenza è dipesa, per una sorta di delega sociale forzata, dall’apertura dei luoghi della produzione materiale, una permanente apertura a garanzia delle necessità riproduttive e di cura della vita sociale. Tutto, o quasi tutto, è andato avanti come prima. E niente della socialità degli individui, per la riproduzione sociale complessiva della loro vita, in prevalenza nella sua multiforme esposizione digitale, è rimasto estrano alla messa a valore, al processo di valorizza­zione dell’economia capitalista.

Mai così prima d’ora, e in maniera così plastica, si è potuto fare esperienza di quel paradosso che è l’individualità moderna, e proprio in forza di quel periodo di reclusione corporea sperimentato durante l’emergenza sanitaria più cogente. Un senso di straniante consistenza ha pervaso, nella vita del singolo individuo, l’esperienza di stare al mondo: la vita individuale, richiusa in sé stessa, denudatasi della vita sociale, resasi estranea alla sua frequentazione, si è ridotta a misura dell’interesse privato della vita singola; e, tuttavia, la sua espressione sociale non è venuta meno, ma, come attraverso uno specchio, si è liberata solo in immagine, nel simulacro del suo doppio, nell’elaborazione tecnologica dei media digitali.

Quella stranezza non ha nulla di nuovo, è la situazione di esistenza dell’individuo come invenzione della modernità. E per averne un’intelligenza critica basta risalire a Karl Marx, che per primo ha formulato il problema che l’immagine dell’individuo comporta, che ne va cioè della nostra comprensione della società.

Infatti, il protocollo di emergenza dell’«isolamento», un esperimento sociale inedito per la sua dimen­sione globale, non è stato fallimentare, non tanto per l’efficacia nel contenere la diffusione del virus, quanto per l’ipotesi di fondo cui ha dato corpo: la diffusa immagina­zione collettiva con cui si fa riferimento all’in­divi­dualità di un essere umano. È appunto così che si considera la condizione di esistenza dell’individuo, come un’entità a sé stante, come qualcosa che può esistere indi­pendentemente dal suo contesto relazionale, dalla tessitura continua di una rete sociale. Se però si parte da questa immagine dell’individualità – dell’in­dividuo isolato – che persegue l’obiettivo di massimizzare la sod­disfazione del suo «interesse privato», di­venta diffi­cilmente comprensibile quale significato rivesta una società configurata come «società degli indi­vidui», quale sia cioè il senso dell’intreccio che tiene insieme individuo e società. A tal punto che, al limite, ne può risultare, a seconda delle posizioni, una «generale negazione» dell’esistenza di uno dei due termini.

Questa difficoltà in Karl Marx viene risolta in una duplice mossa. «Il punto vero e proprio – scrive – sta piuttosto in questo, che l’interesse privato stesso è già un determinato interesse sociale e può essere raggiunto soltanto all’interno delle condizioni che la società pone e con i mezzi che essa offre; quindi è legato alla riproduzione di queste condizioni e di questi mezzi» (Karl Marx, 1970, vol. I, p. 97)[2]. Non solo Marx ricon­duce l’esistenza dell’individuo – «il suo conte­nuto, come la forma e i mezzi della sua realizza­zione» – alla formazione della società cui appartiene; ma esplicita come l’illusione per l’individuo di esistere come sciolto da un destino relazionale dipenda dal fatto che «lo scambio generale delle attività e dei pro­dotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, la connessione che unisce l’un l’altro si mani­festa a loro stessi estraneo, indi­pendente, come una cosa» (ibid. p. 98). Si tratta di ciò che Marx definisce come processo di «reificazione (o cosificazione) del contesto sociale» – e la «cosa» cui si riferisce, anche un bambino lo sa, è il denaro, il denaro come connettivo generale della società. E, al riguardo, è tutt’altro che tenero nel qualificare la socialità integrale dell’individuo, che si afferma con l’economia capi­talistica della società bor­ghese, con «l’universale scambia­bilità di ogni cosa»: è un destino relazionale che «si identifica con la venalità e corruzione gene­rali», con «la prostitu­zione generale […] come una fase neces­saria del carattere sociale delle disposizioni, capacità, abilità e attività personali. In termini più compiti si dice: l’uni­versale rapporto di utilità e di utilizzabilità» (ibid., vol. I pp. 105-106). È una banalità, per quanto scan­dalosa, ma è questa banalità che fa girare il mondo.

Il paradosso dell’individualità è tutto qui: il «contesto di inter­di­pen­denza» dell’individuo non entra nella rappresentazione della propria soggettività, perché la sua espressione sociale, che di fatto è un esercizio di potere sulla attività degli altri o sulla ric­chezza sociale, quindi «il suo potere sociale, cosi come la sua con­nessione con la società» – in un’immagine plastica – «egli lo porta con sé nella tasca»; è appunto un potere che si mani­festa «come qualcosa di estraneo e di cosale di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subor­dinazione a rapporti che sus­sistono indipendente­mente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. […] Cia­scun individuo pos­siede il potere sociale sotto forma di una cosa. Strap­pate alla cosa questo potere so­ciale e dovrete darlo alle persone sulle persone» (ibid. vol. I p. 97-98) – un’opera­zione, quest’ultima, regressiva a forme di socialità precedenti la costruzione mo­derna dell’in­dividuo, e il suo contrario non è un’operazione di magia. È il risultato del processo storico della forma­zione capitalistica della ric­chezza della società – che, nella sua forma elementare, si manifesta, si riduce a merce – e la neces­sità ripro­duttiva, se riferita all’individuo, viene a dipen­dere da una modalità relazionale che non si realizza più sulla base di una diretta dipendenza personale (schia­vitù o servitù), ma sulla dissolu­zione storica di questa modalità; la generale dipendenza reciproca si esprime infatti nella necessità di una «di­pendenza materiale» da un «media­tore universale», dal denaro appunto, una cosa su cui si fonda la relativa «indipendenza personale» degli individui. Tuttavia, occorre non dimenticare che «questi rapporti esterni, non che essere una rimozione dei “rapporti di dipendenza”, ne sono anzi soltanto la risoluzione in una forma gene­rale; sono piuttosto l’ela­borazione del fondamento generale dei rapporti di dipendenza personali» (ibid., vol. I p. 107). E appunto perciò oggi, sem­mai, per una crescente moltitudine di indi­vidui, è una tasca vuota o, meglio, svuotata il segno evidente della “soggettivazione” sociale dell’in­divi­duo, della sottomissione alla «cosa», del medium domi­nante per mezzo del quale si realizza l’in­dividualità. In tempi di crisi, è un’even­tua­lità non così improbabile, e drammatica sul piano personale. Anzi, da tempo l’estorsione – il togliere dalle tasche quel potere sociale, senza restituirlo sotto forma di bene comune – è eretta a metodo di governo della società, è diventata un processo sistematico di espropriazione funzionale ad accre­scere il «potere estraneo» del denaro, al servizio di un’accumulazione capitalista che non sa più come per­se­guire altrimenti la sua crescita.

L’alienazione dell’individuo moderno non ha nulla quindi di esistenziale, non è riferibile a uno «svuo­ta­mento» di una presunta natura umana “al di fuori dalla storia”, anzi, è tutta la produzione della ricchezza stessa a ma­nifestarsi «come alienazione dell’individuo stesso» (ibid., vol. II p. 184) che elabora le condizioni del processo vitale produttivo della società. Ed è qui che Karl Marx si azzarda a delineare un passaggio a una società futura, che comporta la possibilità di uno sviluppo «sto­rico» dell’in­dividuo, una genesi sociale dell’«universalità dell’in­dividuo non come universalità pensata o immagi­nata, ma universalità delle sue re­lazioni reali e ideali», e quindi anche «comprensione della sua stessa storia come processo, e scienza della natura (che si risolve altresì in potere pratico su di essa) come suo corpo reale» (ivi). Un passaggio, dunque, che si risolve in un pro­blema di emancipazione dell’individuo e che, al tempo stesso, circoscrive una tem­poralità del capitalismo, una dinamica interna alla formazione della ricchezza reale. Un problema, che ancor prima che pratico, è logico: è «insulso pensare quella connessione soltanto cosale come una connessione na­turale, inscindibile dalla natura dell’indi­vidualità (in opposizione al sapere e volere riflessi) e a essa im­manente. Essa ne è il prodotto. È un prodotto storico. Appartiene ad una determinata fase del suo sviluppo» (ibid., vol. I p. 104). È in questo suo procedere oppo­sitivo che sta il limite (Schranke), per sua stessa natura, del «contesto di interdipendenza» dell’individuo – «la connes­sione del singolo indi­viduo con tutti, ma al tempo stesso anche l’indipendenza di questa connessione dai singoli individui stessi». Una condizione che delinea la pos­sibilità di un pas­saggio storico solo come «tendenza», e si po­trebbe dire che è una condizione necessaria ma non sufficiente: «è necessario anzitutto che il pieno sviluppo delle forze produttive sia diventato una condi­zione della pro­duzione; non che determinate condizioni di produzione siano poste come limite (Grenze) dello svi­luppo delle forze produttive» (ibid., vol. II p. 185); e questo è un limite esterno che permane fino a che la partecipazione dell’indivi­duo alla ricchezza generale è solo funzionale al processo di valorizzazione mone­ta­ria, in denaro, della pro­du­zione capitalistica. In altri termini, persiste fino a che non viene soppressa l’«estra­neità» – effettivo limite interno – con cui l’individuo continua a riferirsi «alle condizioni da lui ela­­bo­rate non come a quelle della propria ricchezza, bensì della ricchezza altrui e della propria po­vertà» (ibid., vol. II p. 184).

Perché allora la critica dell’individualità è importante? Perché non è possibile comprendere la società at­tuale senza osservare la «forma oppositiva» della processualità entro cui si costruisce l’individualità mo­derna – il «lato magnifico» del processo, per tornare al punto iniziale, «sta proprio in questo ricambio orga­nico materiale e spirituale, in questa connessione che si sviluppa natural­mente, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza recipro­che»; ma ap­punto, se è vero «che gli individui non possono subordinare a sé le proprie connessioni sociali prima di averle create» (ibid., vol. I p. 104), altrettanto non è possibile comprendere quella «forma opposi­tiva» come «tran­sito­ria», come «tendenza» verso una società futura, senza osservarne la con­flittualità potenziale che appartiene all’effettiva realtà della vita sociale.

Nel corso della crisi pandemica, la restrizione del contatto sociale è stata criticata come una revoca della libertà individuale, dell’indipendenza perso­nale, una deriva autoritaria iscritta nella gestione politica della vita sociale. In realtà, la situa­zione di libertà, di una presunta libertà perduta, si presenta così «soltanto a chi astrae dalle condizioni, dalle condizioni di esistenza (e queste sono a loro volta indipendenti dagli individui e, pur essendo generate dalla società, appaiono quasi come condizioni naturali, ossia in­controllabili dagli in­dividui) nelle quali questi individui entrano in contatto» (ibid. vol. I, p. 106). Quella perdita, semmai, non fa che portare allo scoperto nella sua forma più pura il carattere di esteriorità e autonomia del contesto che tiene insieme la società, una connessione sociale che è pari alla necessità della sua ripro­duzione complessiva. E che è già di per sé di una violenza intollerabile per la limitazione della vita che essa comporta per la maggior parte degli individui. «L’estra­neità e l’autonomia – scrive Karl Marx – in cui essa [la connessione sociale] ancora si trova rispetto agli individui, dimostra soltanto che essi sono ancora presi nella creazione delle condizioni della loro vita so­ciale invece di averla iniziata a partire da queste condizioni. […] Gli indi­vidui universal­mente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia. Il grado e l’universalità dello sviluppo delle capacità in cui questa individualità diventa possibile, presuppone ap­punto la produzione sulla base dei va­lori di scambio, la quale essa soltanto produce, insieme con l’univer­salità, l’estraneazione (Entfremdung) dell’individuo da sé e dagli altri, ma anche l’universalità e la versatilità delle sue relazioni e delle sue capa­cità» (ibid., vol. I p. 104).

Nel tempo della vita sospesa dall’emergenza, questa «universalità e versatilità» dell’individuo ha certo dato prova di sé, e anche, in alcune circostanze, si è espressa in una progettualità condivisa, impronta a tonalità emotive di pienezza. Ma è evidente che c’è una condizione politica mancante nella modalità della nostra convi­venza: il processo che mira ad «as­soggettare», a subordinare le stesse condizioni della vita so­ciale a un governo comune, a un «proprio co­mune controllo» da parte di quel che Karl Marx definisce il «libero individuo sociale» risulta del tutto inattuale. Nell’incidenza del virus sulla nostra convivenza, sem­mai c’è la traccia dell’esistenza di dinamiche profonde che limitano l’accesso a una comune ricchezza della vita so­ciale, e generano al contrario un’enorme disuguaglianza nel suo godimento: la diffusione del virus non ha risparmiato gli individui in condizione di “debolezza”, certo per la fragilità della loro condizione di salute, ma più spesso per la loro condizione di estrema dipendenza economica e sociale, quale fattore inci­dente sulla condizione fisica della loro fragilità, e in ciò non c’è nulla di naturale. La partecipazione sociale della vita individuale continua a essere data da una misura limitata e mediata di una cosa, dall’ac­cesso al denaro, una «astrazione reale», una rappresentazione simbolica e insieme materiale della ricchezza gene­rale: «Il denaro è quindi immediatamente la reale sostanza comune, in quanto è la sostanza universale dell’esi­stenza per tutti, e nello stesso tempo il prodotto sociale di tutti. Ma nel denaro, come abbiamo visto, la sostanza comune è nello stesso tempo mera astrazione, mera cosa estrin­seca, accidentale per il singolo in­dividuo e nello stesso tempo mezzo puro e semplice del suo soddisfacimento in quanto singolo individuo isolato» (ibid., vol. I p. 187).

È difficile dire se già esiste la condizione di potere abolire il denaro, per «avanzare a un livello più alto» di progettua­lità riflessiva della nostra socialità. Se ancora non è così, significa allora che: «La necessità stessa di trasformare il prodotto o l’attività degli individui anzitutto nella forma di valore di scambio, in denaro, talché in questa forma materiale essi acqui­stano e attestano il loro potere sociale, dimostra due cose, e cioè 1) che gli indivi­dui producono pur sempre per la società e nella società; 2) che la loro produzione non è immediatamente sociale, non è il risultato di una associazione (the offspring of association) che ripartisce al proprio interno il lavoro. Gli individui sono sussunti alla produzione sociale, la quale esiste come un fato a loro estraneo; ma la produzione sociale non è sussunta agli individui e da essi controllata come loro patrimonio comune. Niente può essere dunque più falso e insulso che presupporre, sulla base del valore di scambio, del denaro, il controllo degli individui associati sulla loro produzione glo­bale» (ibid., vol. I p. 100). A mancare è proprio questa «asso­ciazione», questa pa­rentela del comune, in grado di esercitare un controllo sulle con­dizioni di produzione della vita sociale. E tuttavia, per sciogliere il dilemma iniziale, c’è bisogno di sapere fino a che punto la configu­razione della vita sociale contiene già i dispositivi, le pratiche materiali e simbo­liche, da rendere attuale la possibilità di un cambiamento in direzione di un «controllo degli individui asso­ciati sulla loro produzione glo­bale». E ciò a tal punto da poter legittimare, su una base realistica, la do­manda: che società vo­gliamo?

Meglio però non farsi illusioni. È vero che l’«estrinsecazione» di una universalità dei bisogni, delle ca­pacità produttive, materiali e cognitive, e in genere dell’espressione sociale della vita, della sua invenzione creativa come tale, ha dato prova di sé durante la chiusura sanitaria. Eppure, tutto questo permane subor­dinato, attraverso la rete dei sistemi della tecnologia informatica (di comuni­cazione, di produzione e di distribu­zione), a processi di valorizza­zione, di messa a valore, più spesso parassitaria, dei sistemi proprietari del capitalismo. Non è venuta meno la dinamica globale di una produzione della ricchezza sociale effettiva, che non continui a provocare un divario crescente nel possesso monetario della ricchezza, tra chi ha sempre di più e chi ha sempre di meno. Se c’è un’illusione – un’invenzione – che l’incidenza, la traccia sociale del virus fa emergere, è che non è possibile avere una comprensione del mondo, e immaginarne un futuro, fare cioè affermazioni relative alla realtà, senza farsi carico di come ci stiamo, nel mondo; che non è possibile cioè astrarre «dalle condizioni di esistenza nelle quali [gli] individui entrano in contatto», dalle modalità della loro con­vivenza. Se poi queste condizioni si presentano «a loro volta indipendenti dagli individui, e sebbene pro­dotte dalla società, si presentano per così dire come condizioni di natura, ossia incontrollabili da parte degli individui» (ibid., vol. I p. 106), allora stare al mondo, per starci meglio, e anche per essere più felici, è un problema che riguarda tutti. E «ciò che riguarda tutti può essere risolto soltanto da tutti» (Frie­drich Dürrenmatt, I fisici) o, per lo meno, è una questione che ci coinvolge in una personale responsabilità politica. La comprensione della “natura” del virus non può essere indipen­dente da come si interfaccia, da come entra a far parte della società in cui si diffonde – diffu­sione che si è rivelata, e ancora si rivela, morti­fera, in senso letterale. Quindi essere coinvolti nella compren­sione del mondo che verrà, signi­fica non solo fare i conti con il tempo, ma anche con le potenzialità che riguardano la nostra capacità di apprendere, di immaginare come starci, e starci bene insieme.

Siamo in presenza di una pandemia che non è la rivoluzione, e forse neanche una catastrofe. Che tut­tavia si presenta forse come un punto di rottura, o almeno di interruzione, della “normalità”, e ha il potere di mettere in gioco, in un tempo in apparenza sospeso, la regolarità del mondo. Ha il potere di mettere in discussione i sistemi di riferimento usuali con cui tentiamo di osservare le dinamiche di fondo che presie­dono al «ri­cambio organico materiale e spirituale» della società dentro la natura; ha il potere di mettere in di­scussione il sistema di idee che collegano la nostra vita materiale alla complessa rete della vita del mondo, entro cui prende forma la nostra convivenza.

Non possiamo sapere in anticipo cosa verrà dopo. Ma non è possibile eludere la domanda su come sia possibile uscire da quei «rapporti materiali che esercitano il dominio» sugli individui, da un sistema di do­minio nei cui termini continuiamo a comprendere la realtà, e la realtà della vita sociale. E, più esatta­mente, come sia possibile allora uscire in pratica dall’illusione che l’indipendenza della connessione sociale – che consiste in quella forma materiale (cosale) che è il denaro, con cui «gli individui acquistano e attestato il loro potere sociale» – possa equivalere davvero a fare riferimento alla complessa realtà effettuale della società. È pur solo sempre un’astrazione, che permette di dare «espressione teoretica» ai rapporti materiali che ci dominano – come il senso di “libertà” che corrisponde a una modalità relazionale materiale (cosale) in cui «i vincoli di dipendenza personale», le differenze, ad esempio, di educazione, «sono saltati, sono spezzati (i vincoli personali si presentano per lo meno tutti come rapporti tra persone). In realtà, quella indipendenza individuale – «che in sé stessa è soltanto e andrebbe definita più esattamente indifferenza» – è solo una parvenza, un’illusione, al più un’espressione accidentale della vita dell’individuo, perché l’individuo singolo nella sua immediata esistenza «può ben superare e subordinare a sé rapporti esterni», e così la limitazione materiale di parte di questi rapporti sociali. Al contrario, «la massa di coloro che ne sono dominati no, giacché il loro semplice sussistere esprime la subordinazione, e la subordi­nazione necessaria degli individui ai rapporti stessi»» (ibid. vol. I p. 107). È un’astrazione – quella della libertà – che, per quanto normata in concreto, non basta a soddisfare il “desiderio di non essere dominati”, non è in grado di negare la dinamica profonda di un processo la cui totalità «si presenta come connessione ogget­tiva che nasce na­turalmente, che è bensì il risultato dell’interazione reciproca degli individui coscienti, ma non risiede nella loro coscienza, né, nel suo insieme, viene ad essi sussunta» (ibid., vol. I p. 151). Quel processo non si rovescia già nella produzione del “comune, al singolare”, come ciò che “è prodotto” del e nel fare insieme, come espressione della cooperazione umana come tale.

Non è soltanto una questione, per così dire, epistemologica. Del tutto inutile, per altro. Infatti: «se noi non trovassimo già occultate nella società, così com’è, le condizioni materiali di produzione e i loro corri­spon­denti rapporti commerciali, per una società senza classi» – e cioè una società del «libero scambio tra indi­vidui associati sulla base dell’appropriazione e del controllo comune dei mezzi di produzione» – «tutti i tentativi di farla saltare sarebbero altrettanti sforzi don­chisciotteschi» (ibid., vol. I p. 101). L’alternativa – o rivo­luzione o catastrofe – è un’alternativa, in ogni caso, che è già al nostro «futuro passato». E già ne por­tiamo la responsabilità dell’esito, in una direzione o nell’altra, per il semplice fatto che «il carattere opposi­tivo» dell’unità sociale – che abbiamo così bene sperimentato durante l’emergenza pandemica, e che ancor più verrà sperimentato nella crisi economica, sociale e climatica che avanza – non può essere sciolto, «non può essere mai fatto saltare attraverso una pacifica metamorfosi» (ivi). La sua realtà è così insostenibile, e in ma­niera così crescente, da essere inevitabilmente conflittuale.

Ora, a me sembra che alla fine di questa lettura del testo di Karl Marx, pur così scarna, e certo insuffi­ciente, istigata da una conversazione a tavola, si possa avere una qualche buona ragione per affrontare insieme la fatica di pensare il tempo futuro. E così aprire qualche spiraglio, a cominciare dal mettere in ta­­vola una domanda e, in una modalità conviviale, avviare una conversazione come modo di parlare per imparare a pensare insieme. E a pensare in grande.

La domanda è allora: Come si cambia la società se, così com’è, non basta?

Non c’è risposta facile. Al contrario, ma la domanda, in questa formula un po’ ingenua, è una richiesta di fornire qualche strumento di comprensione – attraverso una pluralità di voci – per riuscire a praticare la difficile arte di una convivenza globale.

 

Note:

 

[1] https://youtu.be/1Be0n5UT8Ro

[2] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858 (Gründrisse), Firenze, La Nuova Italia,1968.