Fase 2, «ripartenza», tanatopolitica. Sulla crisi della società dello spettacolo ai tempi del coronavirus – di Alessandro Simoncini

Fase 2, «ripartenza», tanatopolitica. Sulla crisi della società dello spettacolo ai tempi del coronavirus – di Alessandro Simoncini

20 Maggio 2020 Off di Mario Pezzella

di Alessandro Simoncini

 

Generando un inedito e momentaneo blackout, il Covid19 ha determinato un plateale mutamento di scenario nella nostra società dello spettacolo. Quella che Nicholas De Genova ha definito la spettacolarizzazione «della crisi delle frontiere d’Europa» è sembrata d’un tratto sgretolarsi[1]. Per anni lo «spettacolo del confine» è stato un loop ossessivo, proiettato su tutti gli schermi in nome della difesa della società dal «fantasma del corpo estraneo»[2]. Provvidenzialmente, lo spettacolo del confine permetteva di produrre e riprodurre senza posa «comodi nemici»[3] da offrire in pasto a un «popolo» che, a turno, sovranisti e neoliberisti incitavano a tornare presto «padrone in casa propria». Pronto per essere ripristinato alla bisogna, quello scenario spettacolare fatto di porti chiusi e di criminalizzazione della solidarietà, di razzismo un tanto al chilo e di immagini ciniche fino al sadismo – il cui «supplemento osceno» era pur sempre l’inclusione differenziale del lavoro migrante nei gironi infernali della produzione e della riproduzione sociale – ha ora ceduto il passo (forse solo per un attimo) allo spettacolo della pandemia.

Dal nemico profugo-migrante si è passati di colpo al nemico virale; dalla paura del clandestino-criminale (o del profugo-invasore) al quella del morbo, tanto invisibile quanto ipervisibilizzato in ogni palinsesto del globo. Come ha acutamente osservato Stefano Righetti, però, nonostante Covid-19 sia diventato la star indiscussa della società spettacolare – e fiumi di parole, immagini, spot pubblicitari, fantasmi di morte recuperati mediaticamente lo abbiano installato al cuore di quel «rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini» (lo spettacolo appunto) che continua a governare la libertà dei viventi[4] – questo nuovo scenario non poteva funzionare a lungo[5]. Il virus, cioè, «porta lo spettacolo all’estremo, [ma] lo mette in conflitto con se stesso»[6]. Se è vero infatti che nella rappresentazione totalizzante del dramma virale lo spettatore continua a cercare le stesse rassicurazioni che il dispositivo spettacolare di norma sa offrire, ora non le trova più: mancano le informazioni che confortano, «lo spettacolo è vuoto e non basta a lenire la sua ansia»[7]. Il coronavirus insomma è, nella sua stessa sostanza, «l’altro inatteso» che rischia di incrinare e poi spezzare «il gioco degli specchi e il miraggio delle merci, insieme al loro riflesso desiderante»[8]. E questo perché quando gli scenari dello spettacolo sono capillarmente pervasi da tragedia, morte e paura, lo spettacolo non produce più alcuna compensazione. Non genera intrattenimento bensì angoscia. E a sua volta l’angoscia provoca disinteresse per ciò che di più importante lo spettacolo dovrebbe trasmettere e comunicare: «il desiderio per la merce»[9].

Per riattivare questo desiderio, con ogni probabilità la fase 2 è stata anticipata fingendo la possibilità di una ripresa in tutta sicurezza. Per di più, sia pure tra mille cautele, è stata presentata come l’imprescindibile «ritorno alla libertà»: libertà di mercato, libertà individuale, libertà privata di produrre e consumare[10]. Necessaria alla tenuta del neoliberalismo e alla ripresa dell’accumulazione, oggi come ieri quella libertà ha il suo lato osceno nello sfruttamento di un lavoro sempre più precarizzato – eppure appunto desiderato come fantasma della «libertà», percepito come paradossale «essenza dell’essere umano» a cui fare al più presto ritorno[11] – e in una forma di vita fatta di «auto, case e vacanze a rate in cui proiettare la soddisfazione di un desiderio che lo spettacolo ci rappresenta ogni giorno come l’unico necessario»[12].  Se in Cina la ripresa avviene innestando il collettivismo confuciano sul un comando autoritario e disciplinare – tecnologicamente attrezzato – del «socialismo di mercato», in occidente occorre ipostatizzare in modo quasi romantico la libertà individuale, ponendola però immediatamente in sincronia con gli assiomi concorrenziali del neoliberalismo e “sotto l’egida dello sfruttamento capitalista”[13].

La società dello spettacolo non è riuscita fin qui ad esorcizzare il pericolo virale. La retorica dei canti patriottici sui balconi e la speranza di un mondo post-virale rigenerato d’incanto hanno fallito. Lo scenario della «ripartenza» e del «ritorno alla libertà» è in fin dei conti l’unico attraverso cui lo spettacolo può “provare ad aggirare l’ostacolo dopo avere tentato di assimilarlo”[14]. Poco importa che – come ha causticamente osservato Alessandra Daniele – “nella Lombardia dell’orrore degli ospizi-lazzaretto, e in tutto il Nord dove non c’è mai stato nessun reale lockdown delle attività produttive […] si continui a morire a centinaia“: sotto la pressione di Confindustria e Confcommercio la ripartenza avviene come in una battuta di Alberto Sordi in Due notti con Cleopatra: “gli ufficiali tornino ai loro uffici, gli schiavi alle loro schiavitù. E se sapete un inno, intonatelo”[15].

Lo spettacolo gioca il tutto per tutto. Lo scopo è quello di riattivare la dinamica di assoggettamento della società alla valorizzazione del valore e al feticismo della merce. Alla minaccia mortale rappresentata dal virus – la minaccia di estinzione -, lo spettacolo oppone una linea di condotta estrema su cui sovranisti e neoliberali sembrano convergere: “riaprite tutto, qualunque sia la conseguenza”[16]. Il ritorno al lavoro minaccia concretamente una impetuosa nuova crescita dei contagi. Nella biopolitica del “capitalismo assoluto” – che come ha scritto Etienne Balibar non è qualcosa di “stazionario» o “una forma superiore di stabilità”, ma «un regime straordinariamente instabile, fragile e quindi aggressivo» fondato sulla finanziarizzazione cieca e sulla mercificazione illimitata sia delle risorse naturali che delle attività umane[17] – la contraddizione tra forza lavoro e capitale “assume caratteristiche esplicitamente tanatopolitiche”[18]. Si mettono cinicamente in conto morti da sacrificare alla ripresa di un sistema produttivo superato, ecocida e ormai in asfissia. Il feticismo della merce e la società spettacolare devono sopravvivere.

Nel paese più colpito dai contagi, e in un giorno nel quale si sono registrati 1.015 deceduti, parlando in Arizona Trump ha esemplarmente affermato: «l’America deve ripartire dopo i lockdown anche se ci saranno più morti»[19]. Qualche giorno prima Giuseppe Conte aveva inaugurato la cosiddetta «fase 2» in Italia con parole esplicite: «adesso inizia per tutti la fase di convivenza con il virus e dobbiamo essere consapevoli che in questa nuova fase, la fase due, la curva del contagio potrà risalire in alcune aree del Paese. Dobbiamo dircelo chiaramente, questo rischio c’è e dobbiamo assumercelo»[20]. Come in una riedizione virale della servitù volontaria, le popolazioni spettatrici devono desiderare il binario che li conduce a tornare al lavoro negli spazi delle mille aziende riaperte e/o mai chiuse. La ragione indiscussa del mondo – tutt’altro che nuova a dire il vero – è sempre la competizione di mercato, capace di stritolare chi in assenza di adeguati sostegni finanziari non si acconcerà a riaprire al più presto.

Insomma, come suggerisce con potenza sintetica Zero Calcare al termine del suo Fase 2. Post scriptum, «se guarisci so’ bono io, se mori sei un cojone tu»[21]. In simili condizioni, «non sarà la Provvidenza manzoniana a salvarci, né l’UE del MES, Miliardi Europei a Strozzo, né ‘Il sole dell’Italia che non si arrende mai’, come flauta melenso lo spot del cibo per cani che arricchisce Urbano Cairo, insieme a quello dello yogurt che ‘rinforza le difese immunitarie’»[22]. Piuttosto bisognerà presto «imparare a salvarsi da soli»[23].

 

Note:

 

[1] N. De Genova, La “crise” du régime frontalier européen: vers une théorie marxiste des frontières, in “Contretemps”, 3 giugno 2019, on line.

[2] E. Balibar, Il fantasma del corpo estraneo. Per un diritto internazionale dell’ospitalità, Castelvecchi, Roma, 2019.

[3] N. Christie, Suitable Enemy, in H. Bianchi, R. van Swaaningen (a cura di), Abolitionism: Toward a Non-Repressive Approach to Crime, Free University Press, Amsterdam, 1986; L. Wacquant, “Suitable Enemies”: Foreigners and Immigrants in the Prisons of Europe’, in “Punishment and Society”, 1,1999.

[4] G. Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi, 2006. p. 60. Mentre volge con diligenza il compito di giustificare la società esistente e di assoggettare le moltitudini alla signoria della forma-merce, per Debord lo spettacolo svolge una funzione di compensazione. Possiede infatti la forza di occultare la povertà di esperienza dei viventi, ricomponendo sul terreno delle immagini tutto quello che manca alla vita e la rende povera. Nello spettacolo, tuttavia, più l’individuo «contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio»: negli scenari spettacolari «gli spettatori non trovano ciò che desiderano, ma desiderano ciò che trovano» (ivi, pp. 63 e Id., Opere cinematografiche, Milano, Bompiani, 2004, p. 184).

[5] S. Righetti, Un virus si aggira per la società dello spettacolo, in “Officine filosofiche”, 4 maggio 2020, on line.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Mentre scrivo queste righe, del resto, il tg3 dell’8 maggio, ore 14, mostra la Milano dei Navigli riempirsi di giovani consumatori addensati intorno a birrerie euforizzate dalla “ripartenza”. Immediatamente il paternalismo delle tante figure istituzionali in cerca di bravi cittadini obbedienti, docili lavoratori e buoni padri di famiglia prudenti torna a calcare la scena mediatica, minacciando il severo castigo del ritorno alla fase 1.

[11] Per un’acuta critica del lavoro come “sacro sforzo umano”, cfr. K. Weeks , The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries, John Hope Franklin Center Book, 2011 e “Il lavoro non è l’essenza dell’essere umano”. Marina Zenobio intervista Kathi Weeks, in “Pop off”, 24 aprile 2016, on line.

[12] S. Righetti, Un virus si aggira per la società dello spettacolo, cit.

[13] A. Petrossiants, Franco Bifo Berardi: Pandemic and Reset of the global Machine, in «Strelkamag», 6 maggio 2020, on line.

[14] S. Righetti, Un virus si aggira per la società dello spettacolo, cit.

[15] A. Daniele, Hanno la faccia come il Covid, in “Carmilla”, 19 Aprile 2020.

[16] S. Righetti, Un virus si aggira per la società dello spettacolo, cit.

[17] E. Balibar, Capitalisme absolu: puissance, instabilité, violence, in Id., Histoire interminable. D’un siècle à l’autre, Écrits I, Paris, La Découverte, 2020, p. 277.

[18] R. Ciccarelli, Dopo il consiglio europeo. Una prima valutazione, dibattito on line in “Per la sinistra, per un’altra Europa”, Facebook, 27 aprile 2020.

[19] Trump: «Riaprire subito anche a costo di più morti», in «La presse.it», 6 maggio 2020, on line.

[20] Conferenza stampa del Presidente Conte, in “Governo.it”, 26 Aprile 2020, on line.

[21] Zero calcare, Post scriptum, in “Propaganda live”, 8 maggio 2020, https://www.la7.it/propagandalive/video/post-scriptum-il-cartoon-di-zerocalcare-08-05-2020-324012. In modo parodistico e geniale Zero calcare attribuisce la frase a Sun Tzu (!).

[22] A. Daniele, Hanno la faccia come il Covid, cit.

[23] Ibidem.