L’editoriale di “Altraparola” n. 3/2020 – L’inconscio sociale

L’editoriale di “Altraparola” n. 3/2020 – L’inconscio sociale

24 Aprile 2020 Off di Francesco Biagi

[Pubblichiamo l’editoriale del numero 3/2020 di “Altraparola” dedicato all’inconscio sociale. L’intero volume sarà liberamente scaricabile sul nostro sito da martedì 28 aprile] 

 

Sia Freud che Canetti hanno messo in rilievo l’oscuro ondeggiare del contagio psichico di massa, che è l’aspetto più evidente dell’esistenza di ciò che cerchiamo di indagare come «inconscio sociale». Le onde emozionali possono andare nel senso dell’esaltazione (come nelle folle totalitarie) o in quello dell’angoscia e della depressione (come di fronte al diffondersi di un’epidemia o al terrore nei confronti di un indecifrabile nemico). I due stati d’animo possono pure alternarsi e succedersi rapidamente l’uno con l’altro. Oltre a questi fenomeni evidenti, occorre interrogarsi sull’esistenza di un inconscio sociale meno clamoroso, più inavvertito, nelle pieghe del quotidiano e delle sue forme di vita (su questo avevamo cominciato a riflettere nel numero precedente, dedicato alla critica della vita quotidiana). Così, ad esempio, ci eravamo chiesti se può esistere uno «stato d’animo» fascista e razzista, ancor prima che questo prenda forma in una ideologia o in un regime politico. Non è compito di questo editoriale ricondurre a una artificiosa unità le prospettive plurali e differenti da cui partono i saggi raccolti nella parte tematica di questo numero. Sembra però giusto dare almeno alcuni spunti di lettura e di interesse, da cui è partito il lavoro della redazione.

Intanto occorre dire che l’inconscio sociale non è la stessa cosa dell’inconscio collettivo di Jung, benché non manchino punti di contatto e affinità. Esso è più simile a quell’ «inconscio del collettivo», ipotizzato da Benjamin nel primo exposé del Passagenwerk, termine in cui il genitivo introduce una sfumatura decisamente importante. L’inconscio di cui qui si parla appartiene all’esistenza sociale di un collettivo storicamente determinato, diviso tra il modo in cui rappresenta se stesso e l’immaginario da cui inconsapevolmente è posseduto. Su questa base Benjamin ha teorizzato l’esistenza e la potenza di immagini di sogno del collettivo, che – come nel caso di un sogno individuale – andrebbero sottoposte ad analisi e interpretazione e trasformate in immagini dialettiche. Con le immagini di sogno «la collettività cerca di eliminare e di trasfigurare l’imperfezione del prodotto sociale», cerca cioè di presentare il proprio tempo come quello del compimento della storia, in cui ogni conflitto è cessato o inesistente, come se nel presente si attuasse la «storia originaria…una società senza classi» (Benjamin). In ogni immagine di sogno emerge una contraddizione costitutiva: da un lato esse contengono un nucleo utopico, che promette la fine della storia, del dolore e dello sfruttamento; dall’altro tale fine è solo immaginaria e sottomessa al regime di desiderio del capitale. Ogni immagine di sogno è scissa tra la prefigurazione di una felicità che attrae il desiderio e la trasfigurazione del capitale in una sorta di dio immanente: Colui che concede – o meglio: è (sempre) sul punto di concedere – l’appagamento. Se ogni fenomeno sociale rilevante diviene merce, e se questa – come ritiene Benjamin – è insieme valore astratto e immagine di sogno, in essa opera una potenza utopica, che crea uno stimolo continuo alla sua realizzazione. D’altra parte tale utopia non mantiene mai ciò che promette, e rimanda l’adempimento del desiderio alla merce successiva, all’ulteriore espansione del capitale, confermando e allargando i suoi rapporti di produzione e la desolazione del lavoro astratto.

Un’altra prospettiva da cui abbiamo preso le mosse per iniziare la nostra riflessione sull’inconscio sociale è quella dello «stato d’animo collettivo» o «tonalità affettiva dominante», indicando con ciò un orizzonte di comprensione preliminare entro cui si dispongono le articolazioni possibili dei linguaggi di un’epoca. Il termine è ripreso da Heidegger, ma facendo ad esso subire una curvatura caratteristica, che ne modifica il senso originario. In Essere e tempo la tonalità dominante è l’angoscia, vista in una prospettiva strettamente ontologica ed esistenziale. Non è qui possibile un’analisi critica e una storia del concetto heideggeriano. Mi limito a ricordare che se la Stimmung diviene voce e vocazione dell’Essere o di una sua epoca, è difficile non considerarla come un destino, a cui non ci si può non abbandonare, denunciando come soggettivi e metafisici i tentativi di romperne la necessità. La vocazione sostituisce infatti la contraddizione storica determinata, che percorre con i suoi possibili in conflitto la situazione.

O interpretiamo la situazione come recipiente di una vocazione e di un appello dell’essere – o piuttosto come contraddizione di forze in conflitto, che nel farsi concreto della storia e delle sue micrologie di potere porta in effetti al costituirsi di una tonalità dominante. Heidegger vede «l’esserci attuale colpito in profondità dalla macchinazione della tecnica» (J. A. Escudero) a cui si oppone il ritegno come tonalità emotiva fondamentale; a questa concezione si contrappone quella di Benjamin, per cui la nostra non è l’epoca della tecnica, ma quella del capitale, e il suo fenomeno originante è la merce, che è insieme l’elemento determinante dell’economia e del regime di desiderio e di affettività che intorno ad essa si costituisce. In questo senso si può usare il concetto di tonalità affettiva e di esistenziale storico, come orizzonte e pulsazione della quotidianità.

Un rinvio può infine esser fatto all’ultimo Lacan. Secondo Lacan, a partire dagli anni Sessanta del Novecento un inedito «discorso del capitalista», ha sostituito, con la sua «ingiunzione al godimento» il più tradizionale «discorso del padrone», fondato sulla dialettica del servo e del signore. Il godimento accompagna e stimola all’infinito il consumo di merci ed è tutt’altra cosa dal piacere: è connesso alla pulsione di morte, al travalicamento dei limiti, all’incremento senza misura, anche a costo della consunzione di sé. Al tramonto del capitalismo weberiano, nutrito di ascesi e senso di colpa, si affermerebbe la nuova variante euforica-maniacale, alla ricerca continua dell’eccesso e di oggetti-feticcio, che colmino ogni vuoto e ogni mancanza del desiderio.

Questa analisi di Lacan sembrerebbe oggi rimessa in discussione. Non è forse caratteristico del capitalismo attuale il richiamo al debito-colpa e alla necessità del sacrificio? In realtà ci troviamo di fronte alla compresenza paradossale di due estremi, che parevano escludersi. L’immaginario è dominato dall’ingiunzione al consumo e dalla sua idolatria, che può essere sostenuta solo da un indebitamento crescente e continuo; i mali che ne conseguono sono tuttavia colpa dell’indebitato. Comandare il godimento e contestarne insieme la colpa sembra un comportamento contraddittorio e folle. In effetti lo è, ma su questa scissione il capitale instaura il suo regime di desiderio. L’imprenditore di se stesso è sempre in atto di trasformarsi nel colpevole fallito.

Il desiderio (a differenza del godimento) include in sé una mancanza, che non è solo negativa: esso contiene una funzione trascendente, un ethos del trascendimento (come lo chiamava De Martino), che anima il suo scorrere all’infinito. Attraversare il desiderio significa superare l’iniziale pretesa immaginaria di totalità e comprendere la natura provvisoria e finita di ogni sua incarnazione. La sua “insostanza”[1], la sua impermanenza diviene limite e fervore allo stesso tempo.

Se invece si sopprime interamente la coscienza della mancanza – ed è quanto avviene nell’ingiunzione al godimento del discorso del capitalista – si spegne anche ogni alterità e ogni non aderenza all’esistente dato; il desiderio è distorto verso oggetti-feticcio, merci che gli promettono assoluti immaginari, per poi sgretolarsi una volta adempiuta la loro transustanziazione in denaro. A una soggettività che accetta lo scorrere metonimico insieme mancante e trascendente del desiderio, si oppone quella ipermoderna, fondata sulla pura immanenza del consumo. Poiché questo si rivela labile e insoddisfacente, ne può derivare la depressione e il furore: non sarà un “altro” ad avermi sottratto la felicità? Nella struttura presente del capitale, non dobbiamo percepire una mancanza che potrebbe mettere in moto la critica. Sopprimere interamente tale percezione significa però abolire la coscienza dei propri limiti, della propria finitudine, e aprire le porte all’elogio dell’eccesso, alla sfrenata consumazione delle risorse naturali, all’euforia dell’autodistruzione.

Indicare l’ “altro” nemico in una categoria etnica e sociale determinata, è il compito del fascismo populista, l’effetto di capro espiatorio, che impedisce lo scatenarsi di una irrefrenabile violenza mimetica. La pretesa del godimento assoluto e la sua ripetuta delusione, contengono in germe la psicologia totalitaria, estrema risorsa di fronte alla crisi della presenza, scatenata dalla fantasmagoria del consumo. La democrazia dominata dalle merci richiama in servizio presto o tardi il suo complemento fascista.

Per questo continueremo nel prossimo numero a riflettere sull’inconscio sociale da una diversa prospettiva: quella della costruzione dell’altro, del minaccioso e perturbante estraneo, che funge da capro espiatorio della nostra coscienza inadeguata e irrisolta.

 

[1] Come la definisce Lacan.

 

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L’indice del volume:

ALTRAPAROLA n. 3 – L’inconscio sociale

 

Editoriale

Roberto Finelli, Il “Capitale” di Marx come “inconscio sociale”

Mario Pezzella, La distrazione e l’ebbrezza. Note a partire da A senso unico di Walter Benjamin

Alberto Zino, Effe. La faglia umana

Stefania Consigliere, Quello che ancora

Massimo Cappitti, Canetti: «Le qualità della massa»

Anna Maria Sassone, Individuale e collettivo in Jung: la cifra rivoluzionaria dell’identità analitica

Marco Gatto, Eccesso di cultura. Ostensione dell’inconscio ed egemonia dell’Io-esposto

Gianfranco Marelli, L’irriducibile scarto e la miracolosa utopia. Una società di lavoratori senza lavoro. (II Parte)

Mario Pezzella, Appendice. L’inconscio collettivo di Jung e l’inconscio razziale

 

LETTERATURA

Luca Lenzini, Scene di strada

Poesie di: Antonio Prete, John Ashbery (trad. di Matilde Manara), Yves Bonnefoy (trad. di Jacopo Rasmi), René Char (trad. di Mario Pezzella)

 

ARTE

Ruggero Savinio, Noia

Speciale su Pier Luigi Lavagnino con scritti di: Massimo Cappitti, Pier Luigi Lavagnino, Anna Lavagnino.

Francesco Biagi, Glosse a margine del film “Le donne e il desiderio – United States of Love”

 

FILOSOFIA

Giovanni Campailla, La cittadinanza nella fase «post-marxista» di Étienne Balibar

Alessandro Simoncini, Spettacolo del confine, necropolitica e inconscio coloniale nell’interregno postdemocratico. A partire da «Governare la crisi dei rifugiati» di Miguel Mellino

Marco Gatto, Una pedagogia della resistenza

 

Gli autori