Un antidoto contro l’alienazione: la scrittura secondo David Foster Wallace – di Antonella Bisardi

Un antidoto contro l’alienazione: la scrittura secondo David Foster Wallace – di Antonella Bisardi

10 Aprile 2020 Off di Francesco Biagi

Antonella Bisardi 

 

Quando si parla di David Foster Wallace non sembra possibile esimersi da qualche, seppure velato, riferimento al suo suicidio, un epilogo terribile ma pur sempre frutto dell’espressione estrema della sua volontà – una volontà forte e chiara, che lascia poco spazio all’interpretazione. Tentare di capirne le ragioni profonde, dando adito a teorie secondo cui tutta la sua opera sarebbe disseminata di riferimenti, sparsi sì ma quasi ossessivamente ritornanti, circa la fine che poi avrebbe scelto per la sua stessa esistenza, è un esercizio del tutto autoreferenziale e improduttivo. Come lo stesso Wallace scrive in Infinite Jest «qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme[1]».

Non essendo noi a conoscenza  del “terrore delle fiamme”, la scelta più proficua appare quella di sgombrare il campo da ipocrisie e giudizi moralizzanti e tentare di porre il problema del Wallace scrittore, saggista e insegnante, in poche parole, del Wallace vivo.

Un primo grande interrogativo verte sull’entità della sua fama, una fama per lo più ottenuta a posteriori, e forse ampliata dalla sua fine tragica; il punto è cercare di capire se lo scrittore dall’inconfondibile bandana in testa sia osannato per il suo essere stato vittima di se stesso o per la genialità del suo estro creativo e la lungimiranza del suo sguardo sul mondo. È la morte prematura che renderà Wallace eterno o l’eco delle sue azioni in vita? E, soprattutto, è lecito parlare di fama eterna?

David Foster Wallace è un autore difficile, cervellotico, a tratti sfiancante, ma che vale la pena conoscere e apprezzare. Al centro di tutta la sua ricerca creativa vi è la necessità di trovare un linguaggio chiaro e diretto, che limiti quanto più possibile l’inevitabile fraintendimento che il rapportarsi con l’altro comporta e che spesso induce all’innalzarsi di un invisibile muro di incomunicabilità. Wallace è un uomo dei nostri giorni, è un figlio della rivoluzione del ’68, è un figlio di quella nascente società dell’esasperante consumismo, è un figlio di quello che Mandel definisce tardo capitalismo. Non è tra coloro che meglio riescono ad adattarsi al nuovo ambiente; e tuttavia non vuole soccombervi, non vuole essere vittima impotente di un ineludibile progresso.

David è fin da bambino molto sveglio, curioso e avido di letture, riceve stimoli e sollecitazioni dai genitori, entrambi insegnanti, di lettere e di filosofia, e riesce a coglierli in modo proficuo; è uno studente eccellente e diventa poi un insegnante brillante, molto amato dai suoi allievi, anche in virtù dei suoi metodi diretti, anticonformistici e poco accademici. È però un ragazzo molto sensibile e cade vittima di una “dipendenza da televisione”, che lui stesso definisce la peggiore della sua vita, pur essendo stato afflitto da depressione. L’inizio del rapporto spasmodico e incontrollabile con il medium televisivo non nasce nella sua infanzia, probabilmente per il fatto di essere nato in una famiglia nella quale attività fondamentale di ogni giornata era quella della lettura: ogni sera prima di cenare ci si sedeva tutti sul divano per leggere ognuno un libro diverso di cui poi si discuteva, spesso David e sua sorella Amy ascoltavano le letture, quasi declamatorie, del padre; il tempo da dedicare alla tv era ristretto ed era circoscritto da veri e propri limiti imposti: due ore al giorno durante la settimana e quattro nei weekend, un solo programma violento a settimana, più ulteriori restrizioni in caso di punizioni. Con il trascorrere degli anni, però, il rapporto di Wallace con lo schermo si modifica, intensificandosi sempre di più: ed è egli stesso, in una sorta di autoanalisi regressiva, ad asserire che il suo problema non era tanto la quantità di ore che ininterrottamente vi dedicava ma la loro intensità, la sicurezza che quella “compagnia” gli assicurava, il totale senso di abbandono che provava guardando la televisione, in una vera e propria forma di adorazione.

 

Si tratta di un continuum, che ha però una direzione ben precisa. E cioè la ricerca di qualcosa di facile e piacevole al di fuori di me che mi faccia sentire bene. E non dico che in questo ci sia niente di sbagliato. Sto solo dicendo che è un continuum, e che a volte scivoliamo[2].

 

L’autoconsapevolezza induce Wallace da un lato ad allontanarsi completamente dalla televisione e dall’altro ad una attenta analisi del suo ruolo nell’odierna alienazione individuale, riflessione che attraversa tutta la sua opera, dalla narrativa alla saggistica. Conseguentemente, si rende necessaria anche una profonda riflessione sul ruolo della letteratura: sarebbe oggi anacronistico e velleitario anche solo poter sperare che essa soppianti la televisione e tutti quei mezzi di comunicazione di massa detentori di un’egemonia inscalfibile e la ragione principale risiede, secondo Wallace, nel fatto che si tratta di attività che richiedono livelli completamente diversi di attenzione: se la tv genera un piacere passivo e immediato, la letteratura implica uno sforzo di decodificazione da parte del lettore, implica impegno e richiede più tempo per ricavarne piacere. E, oggi più che mai, le attività veloci ed immediate hanno la meglio su tutto il resto – si tratta di modi semplici e low cost per prendersi delle vacanze da sé stessi: «moriamo dalla voglia di abbandonarci completamente a qualcosa. Di fuggire, di evadere, in qualche modo[3]». Wallace insiste più volte su un’analogia tra tv e caramelle: esse non sono paragonabili al vero cibo, sono incomplete da un punto di vista nutritivo ma generano piacere e dipendenza. Il continuum di cui si diceva è proprio questo: l’incapacità di ritagliarsi dei piccoli spazi della propria quotidianità da dedicare consapevolmente al divertimento, all’intrattenimento, la totale perdita di controllo dei propri bisogni e desideri, la dipendenza. E allora in che modo la letteratura può trovare spazio in un contesto di questo tipo?

 

Noi ce ne stiamo qui a lagnarci di come la tv ha rovinato il pubblico dei lettori, quando in realtà la sua unica colpa è di averci fatto il preziosissimo dono di renderci il lavoro più difficile. Capisci in che senso? Per come la vedo io, più è difficile far sentire a un lettore che vale la pena di leggere quello che scrivi, più è probabile che tu stia producendo vera arte. Perché solo la vera arte ci riesce[4].

 

Dunque, laddove la televisione e i mezzi di comunicazione di massa rappresentano il medium per eccellenza, di una comunicazione tuttavia fittizia, egli tenta di rilanciare, in un modo che potremmo definire a metà strada tra la militanza e l’utopia, il valore profondo della letteratura e del linguaggio, il cui fine universale e imprescindibile è quello di creare un riconoscimento tale da consentire di oltrepassare le barriere del solipsismo:

 

Il punto è che per Wallace il linguaggio era l’unica arma contro il solipsismo, il modo per ovviare al fatto che siamo esseri finitissimi, sofferenti e dolorosamente chiusi in noi stessi. Esprimersi linguisticamente con cura, precisione, originalità, riproducendo nella maniera più genuina possibile la ricchezza di idee, emozioni, immagini che si ha dentro può creare vera comunicazione tra sé e l’altro, scavalcare i confini del corpo, del tempo, dello spazio: è questa la potenza magica della letteratura, il clic che unisce d’un tratto scrittore e lettore nell’attimo in cui le parole sulla pagina creano riconoscimento. “Il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale” diceva in un’intervista a Salon subito dopo l’uscita del suo capolavoro, Infinite Jest. “Io non so cosa stai pensando o cosa si prova ad essere nella tua testa, e tu non sai cosa si prova a stare dentro la mia. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro”[5].

 

In diverse interviste Wallace ha affermato che lo scopo della letteratura è quello di spiegare cosa significhi essere umani e che lo scrittore deve dunque sforzarsi di scendere dal piedistallo dell’autoreferenzialità, del suo sentirsi superiore agli altri per tentare di creare empatia e fiducia: dare per scontato che la propria interiorità sia più ricca e più interessante di quella degli altri equivale a rivolgersi ad un pubblico anonimo, privo di volto. Porsi su un piano di parità e uguaglianza equivale a creare comunicazione vera. Solo in questo modo si possono indurre i lettori ad una riflessione sullo scorrere spesso insulso e superficiale di un’esistenza affamata di vacuità. Tutta la sua narrativa, dai romanzi ai racconti, è in diretta comunicazione con la sua saggistica, seguendo un unico, sebbene intricato, filo conduttore che è quello della condivisione della quotidianità, in tutti i suoi aspetti banali, che vengono osservati in modo originale e raccontati con una prosa sgorgante e audace.

 

Scriveva con degli occhi e una voce che parevano una forma condensata della vita di chiunque: erano i pensieri che pensavi a metà, le scene di fondo che vedevi con la coda dell’occhio al supermercato e facendo avanti e indietro al lavoro – e i lettori si accoccolavano negli anfratti e nelle radure del suo stile[6].

La sua scrittura può essere definita massimalista[7]: se il suo scopo è quello di comunicare, come si dovrebbe fare nella vita quotidiana, di mostrare cosa significhi essere vivi nella realtà – postmoderna, nel caso di Wallace – allora non può che essere ricca, divagante, piena di parentesi apparentemente sconclusionate, frammentata, caratterizzata da un bombardamento simultaneo di nuovi stimoli e non può che comportare una lettura difficoltosa e sfiancante. Tutta la sua opera, dal contorto romanzo d’esordio La scopa del sistema al frammentato e postumo Re pallido, può dunque rientrare nello sperimentalismo ed è pensata allo scopo di cogliere e rappresentare meticolosamente la sensazione che il mondo provoca sulle terminazioni nervose degli individui. Se un tempo era la letteratura realista ad occuparsene, oggi ciò non è più possibile a causa della perdita di linearità, almeno in quanto a percezione, della nostra vita.

 

A me sembra che la vita sia simile a una luce stroboscopica, e che mi bombardi di input. E gran parte del mio lavoro consiste nell’imporre a tutto questo un certo ordine, trovarci un senso. […] E non so come la vedi tu, ma per quanto mi riguarda…quel tipo di letteratura [realista] mi piace leggerla, ma non mi sembra per niente vera. La leggo per trovare sollievo da ciò che è vero. La leggo per trovare sollievo dal fatto che, per dire, oggi ho ricevuto cinquecentomila informazioni distinte, delle quali forse venticinque sono importanti. E come faccio a distinguere quali[8]?

 

Wallace parla dell’urgenza di una letteratura che si faccia portatrice di significati e che induca alla riflessione e crea a tal proposito un romanzo mastodontico, ipertroficamente postmoderno e frammentato, pieno di continue interruzioni rappresentate dalle insistenti e complesse note d’autore che costringono il lettore ad una continua interruzione, ad un continuo zigzagare alla ricerca di un filo conduttore che si nasconde in una trama estremamente fitta: quello qui chiamato in causa è il tanto osannato – ma forse poco letto – Infinite Jest. Si tratta di un romanzo che, opponendosi alla pratica decostruzionista che aveva avuto grande successo non molto tempo prima, prevede una specifica modalità di lettura: nonostante sembri di primo acchito un caos illogico, un flusso di pensieri liberi e associativi, lo schema seguito dallo scrittore ha una struttura non casuale ma regolata dal triangolo di Sierpinski, ovvero una forma primitiva di frattale[9]. Scopo di questa struttura complessa è, appunto, il tentativo di imitazione della vita pre-millennio in America, luogo di osservazione privilegiato da Wallace. Al centro di tutto il discorso – verrebbe da dire al centro dell’infinito flusso di pensieri –  c’è la resa della straordinarietà del banale.

Non sembrerebbe erroneo affermare che quella di Wallace con Infinite Jest sia in un certo senso una presa di posizione contro quel tipo di letteratura che si pone come ‘parte integrante del centro commerciale’ in un totale asservimento alle leggi economiche del mercato: certo, è anche in virtù della grande campagna pubblicitaria che ha accompagnato l’uscita del titanico romanzo che esso ha avuto grande notorietà – ed è Wallace stesso ad esserne consapevole, notando non senza un velo di rammarico che molti si erano mostrati entusiasti senza averlo nemmeno letto – ma l’obiettivo ultimo è sempre stato l’istaurazione empatica di un filo comunicativo con il lettore, di una riflessione metanarrativa; non è infatti la trama in sé, che a volte sembra essere dispersiva ai limiti dell’immaginabile, a contare, bensì i messaggi che si vogliono veicolare. Si tratta infatti di una grande e complessa allegoria – di un circolo di dipendenze e nichilismo che ruota attorno a due assi fondamentali rappresentati da un’accademia tennistica di eccellenza e da una casa di recupero per tossicodipendenti – dei pericoli della vita postmoderna e dello svuotamento culturale dell’Occidente intero. Wallace sembra voler mostrare, attraverso dei personaggi bizzarri in cui si potrebbero riconoscere tutti gli americani, il culmine di questo processo depredatorio di interiorità, ossia l’assoluto controllo delle menti:

 

«Ragazzi», dice Hal sottovoce, «non è più una cosa fisica. La parte fisica è solo pro forma. È una sulle teste che stanno lavorando. Giorno dopo giorno, anno dopo anno. Un intero programma. Vi aiuterà a vedere il loro disegno. Ci danno sempre qualcosa da odiare, odiare davvero tutti insieme mentre si avvicinano gli appuntamenti importanti. […] Un nemico comune.[…] Si dedicano completamente al nostro disgusto, calcolano i nostri punti di rottura e mirano a farceli superare, poi ci mandano negli spogliatoi quarantacinque minuti prima delle sessioni Fratelloni. Caso? Situazione accidentale? Avete mai visto qui intorno la più minuscola priva dell’assenza di una struttura freddamente calcolata?»[10]

 

La realtà messa in luce nel romanzo, che utilizzando con estrema cautela delle etichette di categorizzazione potremmo forse definire distopico, è caratterizzata da un ‘eterno precipitare senza né alto né basso’ – quello stesso di cui parlava Nietzsche – dall’assenza di trascendenza e da un’affannata ricerca di verità e rassicurazioni che sembrano palesarsi proprio nell’intrattenimento senza scopo – o almeno, apparentemente senza scopo. Al centro della vicenda si trova ‘la cartuccia’ Infinite Jest, un cortometraggio che genera assuefazione e catatonia negli spettatori, che immersi in una dipendenza totale, non riescono a smettere di guardarlo, preferendo questa attività passiva alla vita, la quale è totalmente e permanentemente annichilita. La dipendenza è sempre affiancata, nel romanzo come nella realtà, dal solipsismo: il ripiegamento sull’apparentemente privo di conseguenze intrattenimento filmico potrebbe infatti essere interpretato come una forma di fuga dalle complicazioni della vita. Ciò che ne consegue è che uno strumento di intrattenimento e presumibilmente creato al solo scopo di creare un piacere puramente visivo travalica la sua funzione per divenire fonte di un totale soggiogamento e soggetto di potere, anche e soprattutto politico.

E, oggi più che mai, non si può che convenire con Postman nel sostenere che «quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso pubblico si trasforma in un balbettio infantile, quando, in breve, un intero popolo si trasforma in spettatore e ogni affare pubblico in vaudeville, allora la nazione è in pericolo»[11]. Ed è sempre Postman che, in conclusione di Amusing ourselves to death, redarguisce sui pericoli di una vita superficializzata: «quello che affliggeva le persone nel Mondo nuovo non era il fatto di aver riso invece di pensare, ma quello di non sapere di che cosa hanno riso e perché hanno smesso di pensare»[12].

In un saggio pubblicato in Italia nella raccolta Di carne e di nulla Wallace ha scritto che se si dimentica come si muore – e si potrebbe pensare non solo alla morte fisica ma anche e soprattutto a quella che De Martino definirebbe ‘crisi della presenza’, ovvero il rischio che la propria vita zoe sopravviva a quella bios, il rischio di non riuscire a dare risposte adattive alla vita, che è poi la sorte del giovane protagonista del romanzo Infinite Jest – si dimenticherà anche come si vive.

Ciò che tutta l’opera di Wallace si propone è, appunto, cercare di far riflettere sui pericoli di una vita di solo intrattenimento e indurre dunque a vivere realmente. Alla luce di ciò, forse, si potrebbe concludere che la fama di Wallace debba essere attribuita alla sua potente lezione sulla vita, al suo credere convintamente nella letteratura e negli esseri umani. La sua storia non coincide con il suo suicidio, la sua storia è quella di uomo che sente le difficoltà dell’“esserci” nel suo tempo, cerca di comunicare con gli altri e lo fa attraverso il mezzo che reputa più vero e che gli è più congeniale, la scrittura.

 

Note: 

 

[1] La citazione completa è la seguente: «La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.» (D. F. Wallace, Infinite Jest, Torino, Einaudi, 2006, p. 835).

[2] D. Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Roma, Minimum fax, 2010, p. 240.

[3] Ivi, p. 148.

[4] Ivi, p.136.

[5] M. Testa, La mission (im)possible di metterlo in italiano, in «Robinson», n. 92, 2018, p.16.

[6] D. Lipsky, Come diventare se stessi, cit., p. 15.

[7] Sulla natura del romanzo massimalista si rimanda a Stefano Ercolino che inserisce Infinite Jest nell’insieme delle opere analizzate per dare une definizione del genere: si tratta di una forma ibrida che si sviluppa nel secondo Novecento negli Stati Uniti ed è caratterizzata da tensione massimalizzante e ipertrofica della narrazione. I suoi elementi costitutivi ed identificatori sono i seguenti: lunghezza, modo enciclopedico, coralità dissonante, esuberanza diegetica, compiutezza, onniscienza narratoriale, immaginazione paranoica, intersemioticità, impegno etico e realismo ibrido. Cfr. S. Ercolino, Il romanzo massimalista, Milano, Bompiani, 2015, pp. 9-13.

[8] D. Lipsky, Come diventare se stessi, cit., p. 94.

[9] A tal proposito, così si esprime Ercolino: «il frammento non denuncia una “perdita” del sistema, a detrimento di un’impalcatura intratestuale convenzionale e di una visione forte e modellizzante del reale, ma è esso stesso il sistema; un sistema aperto, frattale. Un sistema espandibile indefinitamente ma, come vedremo, regolato da istanze d’ordine perentorie. Il solo sistema testuale possibile per una letteratura dal respiro globale; il solo sistema testuale possibile per un romanzo che osa sfidare la complessità del mondo» (S. Ercolino, Il romanzo massimalista, cit., p. 98).

[10] D. F. Wallace, Infinite Jest, cit., p.135.

[11] G. Crainz, Storia della Repubblica, Roma, Donzelli, 2016, p.245.

[12] N. Postman, Amusing ourselves to death. Public discourse in the age of show business, New York, Penguin Group, 2006, p.163 [traduzione mia].