Tutti a bordo, ma diretti dove? – di Antonio Tricomi
[L’articolo qui pubblicato esce in contemporanea anche sul sito della Fondazione per la critica sociale www.fondazionecriticasociale.org ]
di Antonio Tricomi
Era fisiologico: per quanti già la conoscessero, la pellicola cui tornare con la mente, in queste settimane, non poteva che rivelarsi Contagion, presto perciò eletta – dai mass-media come pure sui social – a visionaria anticipazione dell’incubo che ovunque nel mondo si sta vivendo per effetto della pandemia di covid-19. Non per nulla, la Warner Bros ha di recente comunicato al «New York Times» che, tra quelli disponibili nel proprio catalogo per la fruizione domestica, il film girato da Soderbergh poco meno di dieci anni fa è ormai il secondo più visto, laddove esso, fino al dicembre scorso, occupava il duecentosettantesimo posto appena in tale classifica. D’altro canto, oggi vien quasi naturale approcciare quel godibile ma scolastico (e non ideologicamente neutro) prodotto commerciale, più che al pari di una distopia costruita però secondo i moduli del thriller, alla stregua di un oracolare reportage sui nostri giorni. L’autentico protagonista del racconto offertoci da Soderbergh era infatti un virus – affine all’influenza suina e, tuttavia, assai più nocivo – proveniente dalla Cina e capace di diffondersi nel pianeta intero: sia perché rapidissimo nell’incubazione e nella trasmissione, sia perché non tempestivamente arginato, dai Paesi infettatisi, con sempre adeguate misure pubbliche di contenimento.
Ciononostante, se cerchiamo un film distopico che ci consenta non tanto di scoprire profeticamente rispecchiate, nelle sue sequenze, le nostre attuali angosce, quanto di interrogarci su quale configurazione sociale il mondo, non solo occidentale, avesse assunto prima del dilagare del covid-19 e su cosa potrebbe a maggior ragione verificarsi una volta superata tale emergenza sanitaria, conviene guardare altrove, che non a Contagion o a un’altra pellicola, di venticinque anni fa, oggi non meno citata: Virus letale di Petersen. Si potrebbe per esempio sbirciare Snowpiercer. Film che rientra nel filone post-catastrofico, è ispirato a una serie di fumetti francese degli anni Ottanta, Transperceneige, e col quale Bong Joon-ho ci aveva già affidato la sua corrosiva, claustrofobica decodifica del nostro tempo, prima di precisarla, sei anni più tardi, in quel magnifico apologo surrealista che è il recente Parasite, grottesco ritratto tragicomico di una società ritenuta compiutamente apocalittica. Basata cioè su spietate logiche classiste; sul disprezzo, nutrito dai ricchi, per il presunto “fetore” dei poveri; sul desiderio, coltivato dai vinti, di raggiungere anch’essi il vacuo benessere dei privilegiati; sulla consapevolezza, degli uni come degli altri, che il destino di ciascuno, in siffatto ordine capitalistico di rediviva matrice feudale, è tuttavia irrevocabilmente sancito dalla nascita. Sull’eclissi, allora, di qualsivoglia ipotesi rivoluzionaria o, comunque, di ogni utopia di stampo egalitario, parimenti ridottesi, la prima come la seconda, a una fioca lucina che s’accanisce testardamente a pulsare per gli occhi, forse, di nessuno.
Snowpiercer raffigurava dunque un futuro, non troppo lontano, in cui la Terra – in conseguenza di non meglio precisati esperimenti scientifici o, fuor di metafora, in ragione di un vieppiù insostenibile, anche perché ferinamente diseguale, sviluppo economico e del dissesto ambientale da esso causato – fosse infine giunta a ghiacciarsi, decretando l’estinzione del genere umano. E immaginava gli unici sopravvissuti della nostra specie tutti accalcati in una sorta di ricostituita Arca di Noè, nella quale a ciascun individuo si fosse provveduto ad assegnare l’identico posto a lui riservato nel consorzio civile prima che questo implodesse. Ci raccontava, perciò, l’ininterrotto tragitto di un treno in costante e vano movimento, ossia alla disperata ricerca di un felice approdo ormai impensabile per i nostri posteri. Ma, soprattutto, l’insensato procedere di un locomotore i cui passeggeri fossero stati accolti, in questo o in quel vagone, secondo le logiche della tramontata gerarchia sociale: gli innumerevoli reietti in coda, ammassati come bestie destinate al macello; gli esponenti della classe media al centro del convoglio e, pur senza vedersi riconosciuti chissà quali diritti al lusso, messi però in condizione di non soffrire troppo il viaggio; gli sparuti benestanti in testa, a godersi ogni comfort e ad armare squadre di vigilanti incaricati di mantenere l’appena descritto ordine pubblico.
Un ordine pubblico – era questo il più intrigante assunto teorico tradotto in narrazione da Snowpiercer – tuttavia garantito, più che dall’operato di tali sgherri, dall’istituzionalizzazione, per così dire, di quanto Gramsci ribattezzava “sovversivismo”, cioè da sommosse analoghe a quelle che il filosofo, e Cuoco prima di lui, definivano “rivoluzioni passive”. Apprendevamo infatti, nelle battute conclusive del film di Bong Joon-ho, che le rivolte contro i ceti abbienti, via via susseguitesi nel succitato treno, erano sempre state a dire il vero pianificate in accordo tra il capitalista che del locomotore, da lui stesso costruito, deteneva il comando e l’uomo che gli indigenti avevano eletto a loro leader. Fin da principio, ad accomunare tali due individui era stata infatti l’idea che si dovesse insieme provvedere a scongiurare il rischio di un’alterazione dei consolidati rapporti di forza. E che, per ottenere un simile obiettivo, la strategia migliore fosse quella di favorire periodici bagni di sangue. I quali, per un verso, impedissero l’esaurimento delle limitate risorse disponibili sul treno, incaricandosi di sfoltire, a intervalli quasi regolari, la popolazione in esso stipata. E che, dall’altro lato, risolvendosi invariabilmente in carneficine di oppressi addirittura spinti a sbranarsi tra loro pur di non morire d’inedia, confermassero sì la supremazia dei più facoltosi, ma anche consentissero, a minime quote di quei diseredati di volta in volta sopravvissuti agli eccidi, di ottenere illusorie forme di avanzamento sociale e, ai padroni, di alimentare in tal modo la finzione di un potere – invece che chiuso, cioè di classe, e gattopardescamente immutabile, dunque autoritario – disposto, viceversa, a rinnovarsi di continuo, giacché aperto, plurale, orientato alla tutela del bene comune, per quanto militarizzato.
Così da denunciarne l’intrinseca deriva criminogena e potenzialmente autodistruttiva, Snowpiercer si incaricava insomma di trasfigurare in una barocca, parossistica rappresentazione distopica il mondo che, ormai da decenni, abitiamo. Un mondo tutto, tranne che improntato a logiche illuministiche; organizzato in caste che sempre più ricordano gli ordini medioevali; prono a un capitalismo neo-schiavista; orfano di credibili narrazioni culturali in nome delle quali chicchessia possa battersi in vista della modificazione del presente; in cui gli sfruttati sono costantemente sollecitati ad azzuffarsi tra loro, sì da non allearsi mai per contrastare i sovrani; votato a indotte ossessioni securitarie che solo crescenti strette autoritarie possano temporaneamente ambire a placare, salvo ogni volta riattizzarle per giustificare ulteriori revoche dei diritti concessi a questa o a quella miriade di emarginati o, semplicemente, di assoggettati. E, per dirla appunto con categorie gramsciane, un mondo congelato in siffatta sua retriva epifania neo-tribale dal succedersi di rivoluzioni passive, cioè di fittizi processi di modernizzazione, a loro volta determinate dalla sinergia di forme di sovversivismo “dall’alto”, ed escrescenze di sovversivismo “dal basso”, almeno in Occidente vieppiù veicolate, già da tempo, dalla competizione o dal tacito accordo tra i diversi populismi.
Per esempio, cos’era l’Italia prima dell’irruzione del covid-19 sulla scena pubblica? Un Paese in cui, da circa trent’anni, osservavamo la medesima dinamica: l’identificazione di intere masse – simili alle mute descritte da Canetti, quindi composte da devoti eccitati all’idea di essere sempre di più – con iconici capi carismatici abili ad offrire loro non un qualche discorso di realtà, ma slogan e diktat di cui esse potessero immaginariamente godere. Sicché un Paese via via consegnatosi a sovversive ricette populistiche quando di apparato – dal “berlusconismo” alla “rottamazione renziana” – e quando ligie ad altrettanto reazionari afflati qualunquistici – il “grillismo” –, per poi scoprirsi culturalmente attratto, benché non pienamente ancora persuaso in sede elettorale, da quel sanfedista, fascistico sovranismo in salsa “salviniana” e, non di meno, “meloniana” capace di dimostrarsi l’esito massimo delle pregresse manifestazioni di teppistico populismo corporativo. Perché si dovrà pur ricordarlo: negli ultimi trent’anni, la Lega è stata più volte, in Italia, forza di governo e ha amministrato o tuttora guida, in special modo al Nord, alcune tra le città o le regioni non solo economicamente più progredite della nazione. Ogni sforzo, compiuto dai suoi gerarchi, di presentare il vandeano programma particolaristico promosso da quel partito come un’offensiva lanciata contro il sistema, invece che alla stregua di un’ulteriore forma di consolidamento di uno specifico blocco di potere di cui il dominio si sostanzia, appariva ed appare, quindi, finanche risibile. Così come risultavano tuttavia precipitose, giusto prima della diffusione del virus nella penisola, quelle pur trattenute espressioni di giubilo con cui, in conseguenza della boccata d’ossigeno garantita al Paese dalla crescita del Movimento delle Sardine, taluni avevano inteso salutare l’alba di un presunto declino della retorica politico-culturale ancora prediletta dalla maggior parte dei cittadini. Neanche l’Italia complessivamente somigliasse, giunta ormai alla vigilia di quella pandemia che oggi la sta devastando, più all’Emilia Romagna, pronta, durante l’ultima tornata di elezioni regionali, a rintuzzare l’avanzata sovranista, che non, per esempio, alla Calabria, viceversa incline, in quella stessa occasione, a premiare le truppe cammellate dell’identitarismo xenofobo.
Nulla autorizza a pensare che, conclusasi l’attuale fase di emergenza sanitaria, in Italia e nell’Occidente intero non si esasperino processi dunque in essere da tempo. Stiamo già scivolando in una crisi economica di sistema senza precedenti nella nostra storia recente. Il ceto medio ne sarà ulteriormente mortificato e il prelievo fiscale a suo carico verosimilmente aumenterà. Come pure cresceranno in misura esponenziale sia le sacche di indigenza e di marginalizzazione civile, sia le disparità di censo, a tutto vantaggio di una sempre più esigua schiatta di signori che, in una società né interclassista né quindi incline a favorire forme di emancipazione individuale, erediteranno di padre in figlio i propri incontestati privilegi. E il Novecento ce l’ha tragicamente confermato: in congiunture siffatte, quanto più s’impone anche solo lo spettro di un impoverimento di massa, tanto più s’invocano, e infine s’accolgono, regimi apertamente liberticidi.
S’infoltirà magari il coro di quanti sosterranno che un mondo con più confini e più frontiere al proprio interno non avrebbe forse patito pandemia alcuna. Sesquipedale sciocchezza che potrà tuttavia legittimare l’esacerbazione di quelle stesse pulsioni nazionalistiche, e razzistiche, che già vediamo pressoché ovunque sdoganate. Così come, nel Vecchio Continente, non ci si esimerà dal soffiare sul fuoco di un risentimento già oggi assai diffuso: quello per un’Unione Europea dalla quale più di un Paese si dichiarerà sabotato nel proprio tentativo di risollevarsi dalla recessione e che rischierà perciò di sprofondare in un coma persino irreversibile.
Se da circa un decennio, ossia in conseguenza della crisi finanziaria del 2008 e per effetto, quantomeno in Europa, dell’intensificarsi dei fenomeni migratori, gli occidentali tutti – in cambio di ingannevoli forme di protezione a parer loro assicurate dalle varie retoriche identitarie e da turpi ideologie xenofobe – hanno smesso di coltivare in maniera oltranzistica la religione del consumismo, addirittura accettando limitazioni delle proprie libertà non solo di godimento, vieppiù osserveremo radicalizzarsi, con ogni probabilità, una simile tendenza. Lungi dal collassare, anche perché già oggi rimasto senza reali oppositori, il capitalismo saprà insomma regredire, pur di assecondare la propria vocazione totalitaria, a una sua forma più arcaica, in tutto compatibile con una padronale società post-borghese. Fondata più sull’interiorizzazione delle sue norme disciplinari ad opera dei cittadini, che non sui desideri di autoaffermazione nutriti da questi ultimi.
Gli sforzi, giustamente compiuti da scuole e università, per garantire i percorsi formativi degli studenti durante la pandemia, proponendo loro – pur senza tutelare a pieno, almeno in Italia, gli allievi socialmente svantaggiati, e dunque privi dei necessari strumenti per fruirle agevolmente – forme di didattica a distanza, daranno fiato alle trombe di quanti, tornati alla normalità, crederanno di poter scorgere in simili procedure d’insegnamento e di apprendimento il futuro di quella stessa filiera educativa da tempo piegatasi a logiche, e a un lessico, funzionali non alla trasmissione del sapere, ma alla preservazione dell’ordine dato. Se in un’aula, o in una biblioteca limitrofa, un discente può infatti maturare, non è perché lì reperisca pacchetti di nozioni acquisibili anche altrove (persino in rete e magari più comodamente), ma perché solo a contatto con plurali alterità incarnate, con culture vissute e parlate da corpi assieme ai quali lavorare il sapere e via via trasformarlo, imparando pian piano l’arte del dialogo e, addirittura, del conflitto democratico, egli può codificare l’unica strategia conoscitiva da giudicarsi realmente tale: quella che lo sprona a costruirsi come attore sociale. Viceversa, una scuola e un’università che – ligie a meccanismi, ormai innescatisi da anni, di ottundimento classista dei moderni percorsi di individuazione, cioè di graduale elaborazione soggettiva di un rapporto dialettico col mondo – si volessero sempre più a domicilio, implicherebbero, e soprattutto legittimerebbero finanche dal punto di vista etico, fruitori (compresi i docenti) non individualizzati, quindi meglio disposti ad assoggettarsi senza remore al discorso egemone. In altri termini, presupporrebbero e, in una qualche misura, produrrebbero monadi intrappolate nei loro originari recinti fisici e identitari (per esempio, le rispettive famiglie e culture di provenienza), nonché consegnate al destino sociale per ciascuna di esse stabilito dalla nascita.
Sì dirà: più che a perspicaci ragionamenti, o a infausti presagi, queste ultime considerazioni – svincolate da ogni autentico proposito di esegesi cinematografica – somigliano ad appunti per un possibile racconto distopico. Vero. O è almeno quanto c’è da augurarsi. Mentre comunque già ci s’industria per capire, quale che poi sarà il nostro tempo prossimo venturo, su che basi e con chi provare ostinatamente a reinventare, domani, la tradizione dell’utopia. Nella certezza ch’essa potrà tornare a farsi progetto, solo se noi sapremo quanto prima affrancarci da quello straziato sentimento di nostalgia, da quella rinunciataria afflizione, ma anche da quello spontaneismo arruffone che, ormai da anni, tendiamo a scambiare per le uniche maniere ancora concesseci di esserle fedeli.