Spettacolo del confine, necropolitica e inconscio coloniale nell’interregno postdemocratico – di Alessandro Simoncini 

Spettacolo del confine, necropolitica e inconscio coloniale nell’interregno postdemocratico – di Alessandro Simoncini 

30 Marzo 2020 Off di Francesco Biagi

Spettacolo del confine, necropolitica e inconscio coloniale nell’interregno postdemocratico.

A partire da «Governare la crisi dei rifugiati» di Miguel Mellino*

 

Alessandro Simoncini

 

  1. Lo «spettacolo del confine» nell’interregno postdemocratico

 

La crisi del 2007-2008 ha incrinato l’egemonia del capitalismo neoliberale, aprendo un «interregno» che non si è ancora chiuso[1]. Visto dall’Europa questo interregno – entro il quale l’ordoliberalismo ha continuato a proporsi come soluzione alla crisi – è stato lo spazio-tempo in cui si è realizzata una «rivoluzione dall’alto» che ha rafforzato la «costituzione finanziaria» e la «debitocrazia», innescando una «recessione democratica»[2]. Prende quindi forma qualcosa di  simile a un’«apocalisse della democrazia» che connota il momento in cui viviamo come «interregno postdemocratico»[3]. Nell’interregno è cioè riemersa apertamente la radice oligarchico-aristocratica della democrazia rappresentativa, che a conti fatti ha mostrato di essere il governo dei «pochi scelti» autorizzati in nome della sovranità popolare a difendere il popolo dalla «confusione della moltitudine» e dalle «passioni smoderate delle fazioni», come sostenevano i padri nobili[4]. Lo Stato, diretto dai «pochi scelti», si è riconfigurato un po’ ovunque come quel fascio di funzioni governamentali pratico-amministrative che da una parte supporta le operazioni estrattive, logistiche e finanziarie con cui il capitale mira a valorizzarsi, senza più attenzione per la protezione sociale, e dall’altra mira a funzionalizzare la condotta delle popolazioni ai ritmi del mercato globale e alle «necessità della società-mondo»[5].

Sempre di più, e un po’ ovunque, nell’interregno lo Stato neoliberale ha puntato a sincronizzare gli spazi e i tempi della politica a quelli del comando finanziario. La «costituzione economica» tende così a emanciparsi dalla costituzione giuridica, dalla democrazia sociale e dal principio di uguaglianza[6]. Il rilancio del neoliberalismo in risposta alla crisi – con l’«attivismo dei banchieri centrali» a supplire il vuoto della politica[7] – ha inasprito le politiche di austerità, che hanno avuto due effetti principali: sul terreno antropologico hanno decostruito la mitologica figura dell’imprenditore di se stesso obbligandola a una forzata convivenza con quella penitenziale dell’«uomo indebitato», che fin dall’inizio del ciclo neoliberale rappresenta il suo lato osceno e perturbante; sul terreno sociale hanno tracciato il solco per l’affermazione di un campo populista occupato in misura crescente dalla «nuova onda bruna globale» post-fascista[8]. Tra il 2015 e oggi, in una parabola che dall’elezione del presidente Trump negli Stati Uniti giunge fino alla recente vittoria elettorale di Boris Johnson in Gran Bretagna, si è consolidato un «ciclo politico reazionario»[9].

Uno dei «fenomeni morbosi»[10] che ha caratterizzato maggiormente l’ultima fase dell’interregno postdemocratico è stato quindi lo spettacolo del populismo. Nell’estate del 2015 – quando una moltitudine di profughi e migranti provenienti da Siria e altri paesi asiatici ha rivendicato materialmente la libertà di movimento e il diritto d’asilo previsti dall’art. 13 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, esercitando concretamente il «diritto di fuga» dalle contraddizioni di una globalizzazione squilibrata – è andato in scena lo «spettacolo della crisi delle frontiere d’Europa»[11]. In nome della difesa della società dal «fantasma del corpo estraneo» negli anni successivi si è consolidato il sovranismo, o se si vuole un «populismo del capitale che, alimentando l’illusione della patria contro l’Europa e i migranti, promette inutilmente di restituire agli individui pezzi di sovranità sulle loro vite»[12]. Si è assistito, quindi, a una versione straripante del consueto «spettacolo del confine» (che mantenendo al centro della scena la figura del migrante illegale, serve ordinariamente a invisibilizzare le misure legislative ed esecutive con cui viene prodotta la sua illegalità): l’ostilità ormai apertamente esibita verso profughi e migranti che trovavano innanzi a sé porti chiusi, e la criminalizzazione delle Ong impegnate nelle operazioni di soccorso in mare, ridefinivano la solidarietà come «una colpa da punire – anche in materia penale»[13] – e aggiungevano un elemento di livido rancore al razzismo strutturale già presente nelle politiche migratorie europee.

Nella costituzione materiale della Ue, tenuta in forma da quello che è stato definito il «consenso di Maastricht-Schengen»[14], hanno del resto sempre convissuto l’eccezione e la norma: i morti nel mediterraneo, il blocco dei confini, il razzismo, la proliferazione globale dei campi (che peraltro normalizza la loro presunta eccezionalità) – in una parola quelli che Luigi Ferrajoli ha definito «crimini di sistema»[15] – sono sempre andati insieme alla razionalità logistica del migration management: a un governo della mobilità migratoria, cioè, un po’ utopistico, just in time e to the point, che – nel quadro di un rafforzamento dei confini interni ed esterni che prevede la loro esternalizzazione – continua ad avere per posta in gioco principale l’inclusione differenziale del lavoro migrante nell’ordine della produzione e della riproduzione[16]. Un’inclusione che riguarda anche il lavoro illegale e che, come sottolinea Nicholas De Genova, rappresenta il «supplemento osceno» di uno spettacolo del confine che ha per corollario umanitario e inferiorizzante la rappresentazione paternalistica dei migranti come vittime incapaci di autodeterminazione[17].

 

  1. «Un’unica hydra dalle due teste»: ordoliberalismo e sovranismo

 

Su questi snodi problematici, decisivi per l’Europa contemporanea, si concentra l’ultimo lavoro di Miguel Mellino, che indaga l’ascesa del sovranismo nel contesto della crisi del «consenso di Maastricht-Schengen» (GCR, 7). Alla crisi del 2008, che ha messo in discussione il «consenso di Maastricht», l’Europa ha risposto rilanciando la «governance commissaria di mercato»[18]: con l’adozione del Fiscal compact e del Mes sono stati riproposti e inaspriti gli assiomi ordoliberali e austeritari[19]. È seguita la crisi del «consenso di Schengen», che è stata innescata da «formidabili movimenti di resistenza e soggettivazione di migranti capaci di far letteralmente saltare il management europeo dei confini degli ultimi vent’anni» (Ibidem). I singoli Stati e l’Unione europea hanno risposto in modo emergenziale e ibrido in continuità con quella che per Mellino è la «costituzione materiale razzista» dell’Europa di Maastricht (GCR, 10)[20]. Gli Stati hanno ingaggiato una corsa scomposta a chi sapeva difendere meglio il proprio territorio, reinstallando confini e costruendo «muri in cima ai vecchi confini»[21]. L’Unione ha predisposto l’«approccio hotspot», cioè il «tentativo di riorganizzare logisticamente il regime dei confini e delle migrazioni europee»[22], irrigidendo ed esternalizzando ulteriormente i confini esterni. Il risultato è stata «la fine del tradizionale regime dei diritti umani riguardanti rifugiati e richiedenti asilo e la sua sostituzione con una legislazione orientata alla loro produzione come forza lavoro differenziale e razzializzata per i mercati del lavoro locali» (GCR, 38)[23]. La crisi di egemonia della costituzione materiale dell’Ue e del «consenso di Maastricht-Schengen», insieme all’assenza di risposte progressive, ha permesso al sovranismo di aprire il cosiddetto «momento populista» in Europa[24]. La destra sovranista ha saputo infatti presentarsi come l’espressione di una resistenza popolare alle trasformazioni politiche ed economiche postdemocratiche avvenute negli anni dell’egemonia neoliberale. Senza in alcun modo rappresentare una reale alternativa all’ordoliberalismo, ma più verosimilmente incarnando l’espressione della volontà di una sua ristrutturazione interna, i sovranismi si sono accreditati come il bastione eretto a difesa della sovranità e dei confini nazionali «in nome del popolo e dell’identità […], contro il liberalismo delle élite europee»[25]. Coniugando le ormai tradizionali politiche economiche neoliberali con la promessa di ricostituire il «primato necessario della nazione, della famiglia, dell’identità, del dovere e della sicurezza» (in una parola di quella che Lacan chiamava «la società del nome-del-padre»[26]), i sovranismi sono apparsi convincenti. E, anche grazie a una particolare abilità sul terreno dei social media, proponendosi come attori della «restaurazione di un ordine economico, patriarcale e razziale perduto» (GCR, 13)[27], hanno saputo canalizzare la volontà di vendetta dei «perdenti della globalizzazione»[28].

Nell’ordine del discorso dominante, allora, si è instaurata una logica binaria che ha insistentemente descritto ordoliberalismo e sovranismo come due progetti politici contrapposti. La buona coscienza dei democratici europei ha feticizzato il primo, intendendolo come unico argine al dilagare del secondo. Contro questa narrazione Mellino ha mostrato come, pur incarnando due diversi progetti di governo della crisi, ordoliberalismo e sovranismo abbiano in comune molto più di quanto effettivamente li distingua. Sono infatti parte integrante di quel «realismo capitalista» che – secondo la lezione di Mark Fisher – si dimostra capace di «dominare l’inconscio politico-economico» imponendosi come la sola ragione in grado di guidare le nostre esistenze sociali[29]. Sovranismo e ordoliberalismo vanno considerati come due «pulsioni» del realismo capitalista, perché condividono l’intenzione di rilanciare il «modo di accumulazione neoliberale, concorrenziale, proprietario e securitario» e quella di inasprire ulteriormente i «dispositivi razzisti e coercitivi, tanto sui migranti quanto sulle popolazioni “post-coloniali” del continente» (GCR, 10). Sia il sovranismo che l’ordoliberalismo – Mellino fa riferimento esplicito a Macron e al suo giro di vite sull’immigrazione – propongono infatti un «nuovo “contratto razziale” di cittadinanza» con i ceti medio-bassi autoctoni e offrono un maggiore controllo sui migranti e sul loro lavoro (GCR, 10-11). Entrambi si collocano quindi in continuità con la «persistente e spettrale linea del colore» che solca la «lunga storia coloniale e post-coloniale europea»[30].

Sulla scorta della psicanalisi lacaniana, Mellino osserva che ordoliberalismo e sovranismo non possono essere compresi con il solo riferimento all’economia e alla politica che, per quanto necessario, resterebbe troppo in superficie. La loro «interpellazione politica» infatti funziona perché agisce su «”dispositivi soggettivi” collettivi profondi e trasversali» e perché attiva un «“complesso pulsionale” che attraversa una parte delle popolazioni europee» (GCR, 9). Mellino mette il suo studio all’insegna della domanda di Wilhelm Reich, rilanciata da Deleuze e Guattari, sul «perché le masse hanno potuto desiderare e non solo subire il fascismo»[31]. Con Raymond Williams sostiene quindi che ordoliberalismo e sovranismo non sono il prodotto di un inganno: sono invece «strutture di sentimento» – capaci di mobilitare passioni e di sollecitare coinvolgimento affettivo – che finiscono per essere desiderate dai soggetti che vi si riconoscono[32]. Per Mellino queste due strutture di sentimento fanno ugualmente leva, sia pure in modi diversi, su quello che Jacques-Alain Miller ha definito «odio del godimento dell’altro» (GCR, 11). Fanno leva, cioè, sull’odio contro il presunto benessere dell’altro, contro il fatto «che egli possa godere più di me», e attivano una critica costante del «modo in cui l’altro vive, veste, mangia, lavora, gioisce, desidera» (Ibidem). L’altro in questione è il migrante post-coloniale, che occupa un luogo centrale nell’ordine simbolico europeo: il «luogo dell’estimità (esterno/intimo) – scrive Mellino citando Miller -, ovvero dell’alterità costitutiva della propria identità/identificazione culturale (alterità divenuta parte dell’intimità)» (Ibidem). L’identità europea ha in sé il trauma storico del colonialismo e dell’imperialismo, che pur rimossi – come rimosso è il fatto che un tempo non si diceva «ognuno a casa propria», ma si andava nei territori da cui oggi provengono i migranti per «vederli da vicino e per imporre ordine e civiltà» – sono fondativi dell’identità europea e sono destinati a tornare con il loro carico di violenza cieca «nel nostro interno (nella nostra intimità)»[33].

Quello che fa problema, allora, non è semplicemente la virulenza razzista del sovranismo, con il suo progetto di inasprimento dei dispositivi di gerarchizzazione della cittadinanza. Il razzismo sovranista, infatti, non è che «una sorta di radicalizzazione di alcune tendenze già iscritte nel razzismo istituzionale e strutturale promosso dal regime migratorio europeo» (GCR, 14)[34]. Il vero problema consiste nel fatto che sovranismo e «neo-ordo-liberalismo» – come Mellino chiama il dispositivo di governo in via di allestimento –  appaiono come «un’unica hydra dalle due teste» e condividono «l’estroiezione di una pulsione razziale che affonda le radici nel rapporto storico dell’Europa con i suoi altri “coloniali”» (GCR, 15). In una parola, si tratta quindi di «porre in discussione la colonialità della stessa costituzione della Ue come progetto politico ed economico» (Ibidem): una colonialità rimossa che, come la violenza traumatica che la connota, coincide con «l’inizio stesso della modernità capitalista» e che – come ha ricordato Mario Pezzella – ne costituisce il «rovescio osceno»[35]. La colonialità che riaffiora sia nel sovranismo che nell’ordoliberalismo è «il Mr. Hyde che ossessiona fin dall’inizio Dr. Jeckyl» e giace «nell’inconscio del collettivo [dove] i tempi sono coesistenti e paralleli e anche la ferita subita secoli prima sopravvive in modo deforme e obliquo nell’istante attuale»[36].

 

  1. Genealogia della necropolitica e inconscio coloniale

 

Per Mellino quindi l’Europa di oggi è contesa tra due progetti, sovente intrecciati, di governo della crisi: uno è il «”neoliberalismo progressista” e razzista» della Ue e l’altro è il «”neoliberalismo regressivo” e apertamente xenofobo» della destra sovranista (GCR, 50). Sono le due componenti di un medesimo volto: quello dell’Europa neoliberale, che nella crisi e nella stagnazione ha partorito «l’Alien “sovranista”» (Ibidem). Alien solo apparente, perché il sovranismo non è affatto estraneo alla costituzione materiale neoliberale della Ue. Ne è infatti il lato osceno, la «nemesi», l’effetto perverso: è stata proprio la «costituzione ordoliberale europea della società e del mercato […], dei “territori” e delle “popolazioni” ad alimentare l’emergere di forze e movimenti sovranisti regressivi» (Ibidem). Movimenti che – nell’impossibilità di praticare una sovranità nazionale rivendicata retoricamente sul terreno economico – propongono essenzialmente «un governo razzista della crisi», ossia una gestione «sicuritaria e razzista delle migrazioni, ma soprattutto della forza lavoro e dei diritti di cittadinanza» (GCR, 55,52). In altri termini, i sovranismi ripropongono una «concezione bianca, escludente e razzializzata di popolo» i cui tratti di fondo non sono rigettati nemmeno dall’ordoliberalismo e la cui genealogia politico-culturale è rinvenibile nella storia colonial-imperiale degli Stati europei: in quella «colonialità costitutiva», cioè, che dell’Europa moderna costituisce il «nucleo pulsionale storico» e che oggi riaffiora in superficie (GCR, 52)[37]. Ben lungi dall’essere un incidente di percorso della modernità capitalista – sostiene Mellino con Achille Mbembe -, quel nucleo profondo abita l’inconscio collettivo europeo. Rappresenta la componente necropolitica strutturale della biopolitica moderna, il suo «rovescio costitutivo», il suo «necessario e complementare dispositivo di governo» (GCR, 59, 61).

Fin dal primo capitalismo e dalla costituzione schiavistica della piantagione, il dominio europeo sul mondo si è dato infatti come sfruttamento globale dei territori non europei «nell’intreccio della sovranità moderna occidentale con il razzismo coloniale» (GCR, 61).  Con la sua messa in atto sistematica delle politiche di morte e del razzismo, la colonia è il luogo di provenienza della necropolitica, quello in cui la sovranità si dà schmittianamente come «il potere di decidere in condizioni di “stato di eccezione”»: è la «formazione di terrore» dove vediamo all’opera «la prima sintesi fra il massacro e la burocrazia, essendo quest’ultima l’incarnazione della razionalità occidentale»[38]. Mentre in Europa valgono le regole dello Jus publicum Europeum e della guerre en forme combattuta tra justi hostes, la colonia è «lo spazio di assoluta assenza di legge» dove la violenza si fa assoluta[39]. Sulla base della negazione di qualsiasi tratto di comunanza razziale tra colonizzatore e colonizzato – tra civile e selvaggio -, nella colonia la violenza dello stato di eccezione si ridefinisce come vettore di civilizzazione. Per questo, come ha sottolineato Hannah Arendt, quando gli europei massacravano i colonizzati «era come se non fossero del tutto consapevoli di commettere un omicidio»[40].

Nell’interregno postdemocratico riemerge in forme nuove questa pulsione necropolitica coloniale rimossa. La «logica della razza» – sia pure schermata dai riferimenti alla «cultura» e all’«etnia» – viene riattivata in sinergia con il «potenziamento dell’ideologia securitaria»[41]. Dentro i meccanismi biopolitici più avanzati, che mirano a prendere in carico la vita delle popolazioni e a metterla integralmente al lavoro, la radice necropolitica rimossa del Moderno riemerge «come una delle risposte politiche più potenti per affrontare e governare la crisi» (GCR, 63). Non c’è nulla di eccezionale, sostiene Mellino criticando gli approcci agambeniani. Si tratta infatti della riattivazione di un dispositivo – quello razzista – che rappresenta la norma della storia europea e la attraversa tutta depositandosi nel suo inconscio. Da questo inconscio può quindi riaffiorare in superficie, come accadde fin da subito nei «processi di gerarchizzazione della cittadinanza costitutivi del neoliberalismo» (GCR, 86). Mellino ricorda, con Stuart Hall, che «la prima law-and-order-society neoliberale di Europa» è stata l’Inghilterra del «populismo autoritario» thatcheriano (GCR, 18)[42]. Il primo neoliberalismo nasce come progetto finalizzato a «riconquistare nella società e nello Stato un’autorità morale e un potere di classe messi in discussione negli anni precedenti dalle lotte operaie, delle comunità nere, delle donne e dei diversi movimenti sociali» (GCR, 18). Proprio per questo, «per la prima volta in un paese europeo dopo la sconfitta del nazifascismo», il neoliberalismo thatcheriano proponeva di governare la crisi con un «riordinamento post-coloniale delle gerarchie razziali della società», promettendo esplicitamente ai proletari bianchi una sua «sutura razzista» (GCR, 21).

Fin da subito, cioè, la necropolitica razzista è in un rapporto di interdipendenza con la biopolitica neoliberale: non si darebbero «la messa al lavoro della vita, la produzione di libertà, di concorrenza e di auto-imprenditorialità di una parte della popolazione» senza «la segregazione, il terrore, il disciplinamento, l’inferiorizzazione, lo sfruttamento servile, l’incarcerazione e la morte (fisica e sociale) di un’altra» (GCR, 147). Per Mellino il regime di accumulazione neoliberale è intimamente connesso al regime europeo (e globale) di governo delle migrazioni e al suo razzismo strutturale. Senza quest’ultimo, infatti, il contratto razziale di cittadinanza che garantisce il consenso di una parte rilevante degli autoctoni non prenderebbe forma. Del resto, in Europa, migranti, rifugiati e popolazioni post-coloniali vivono «quotidianamente e materialmente il razzismo come uno dei dispositivi primari della loro proletarizzazione, inclusione differenziale o anche esclusione» (GCR, 86). Generando «una distribuzione complessiva disuguale di gerarchie e privilegi» (GCR, 87), il dispositivo razzista investe normalmente l’intera popolazione e le società europee, che nella loro globalità sono «società razzialmente strutturate»[43]. Il razzismo è dunque un «fatto sociale totale» che non può essere limitato alla sola questione dei migranti[44]: riguarda infatti i processi di produzione della soggettività di un’intera popolazione.

Nella crisi, mentre la governamentalità ordoliberale postdemocratica asserve la cooperazione sociale alla valorizzazione capitalistica e colpisce duramente quote crescenti di popolazione europea costituzionalizzando l’austerità, il «rovescio [necropolitico] costitutivo delle tecnologie neoliberali di governo» torna ad assumere centralità (Ibidem). Con il suo intreccio di «repressione/sorveglianza/deportazione/morte da una parte, accoglienza/incorporazione differenziale umanitaria dall’altra», il dispositivo europeo post-coloniale di governo delle migrazioni rinnova la promessa classica della necropolitica razzista (GCR, 151)[45]: quella, condivisa con sfumature anche significative di differenza da ordoliberali e sovranisti, di «difendere la società contro una parte della popolazione» (GCR, 148). Il razzismo garantisce così ai «piccoli bianchi» europei un «salario psicologico»[46] che coincide con il loro primato immaginario, un certo rispetto nei loro confronti e la garanzia del tutto illusoria di non cadere nei gradini più bassi della scala sociale, dove infatti ci sono già gli altri: quei migranti e quei rifugiati le cui vite sono riprodotte come «forza lavoro sempre più precarizzata» e tendenzialmente «servile» (GCR, 164). Come ha mostrato Foucault, nel corso della modernità i dispositivi di razzializzazione hanno svolto il compito di assicurare «la funzione della morte nell’economia del bio-potere»: di introdurre cioè una separazione «tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire» in una popolazione presa in carico dai dispositivi biopolitici[47]. La morte dell’altro – recita il discorso razzista – «è ciò che renderà la vita in generale più sana»[48]. La necropolitica neoliberale delle migrazioni continua a svolgere questo compito in forme adatte all’interregno postdemocratico: costituisce «società, spazi o territori striati, duali o eterogenei» (GCR, 144), garantendo che la morte fisica o sociale degli altri possa venire percepita come il rafforzamento di se stessi «in quanto membri di una razza o di una popolazione»[49].

Oggi come ieri, il capitalismo ha bisogno di «sussidi razziali  per sfruttare le risorse planetarie»[50]: sussidi indispensabili a gerarchizzare popolazioni che assistono al dilagare della violenza su scala planetaria, alla svalorizzazione globale del lavoro dei viventi, al divenire superfluo di quote crescenti dell’umanità ritenute inutili alle reali esigenze del sistema produttivo. In questo senso, Mbembe ha sostenuto che «le prospettive di un divenire negro del mondo non sono mai state così evidenti»[51]. È nel vortice di questo divenire negro che le popolazioni europee, sempre più spesso prive di supporti sociali, temono di cadere. Hanno «paura di risvegliarsi un giorno nei panni del Negro o con la pelle scura dell’arabo»[52]. Questa paura sta alla base del consenso fornito ai dispositivi necropolitici del razzismo, che si alimentano dell’inconscio coloniale europeo, lo richiamano in superficie e lo mettono politicamente a frutto. Il razzismo non è un’eccezione, ma lo strumento centrale per la gerarchizzazione della cittadinanza. Non è solo un dispositivo economico di inclusione subalterna dei lavoratori migranti, ma anche il fenomeno costitutivo della storia d’Europa e del suo «inconscio politico-culturale» (GCR, 88). «Razza e razzismo fanno parte dei processi fondamentali dell’inconscio» e «si riferiscono ai vicoli ciechi del desiderio umano: appetiti, sentimenti, passioni, paure»[53]. È la mobilitazione politica di questo inconscio a rendere possibili ed efficaci i processi contemporanei di razzializzazione delle società.

Nell’interregno postdemocratico il razzismo si conferma come «un modo di affermare e stabilire la potenza»; parte significativa della sua forza consiste proprio nel fare risalire brutalmente in superficie «il materiale [coloniale] rimosso»[54]. Il lato necropolitico e osceno dell’identità europea ritrova così centralità e la razza, la nazione, il popolo, l’etnia, l’identità religiosa e culturale tornano a essere oggetti di «investimento libidinale» (GCR, 141). Si fanno «struttura immaginaria» e, attraverso un colossale «sviamento della realtà» che ripopola il mondo di «esseri da frantumare», operano come una «forza pulsionale» capace di fornire un «disperato sostegno alla struttura di un io che viene meno»[55]. Quell’io si aggrappa al perturbante razziale della colonialità europea, che riemerge e gioca un ruolo decisivo nella produzione del regime psichico collettivo. Così, «nell’ora della decerebrazione meccanica e dell’ammaliamento di massa» – per dirla con Mbembe -, il razzismo si fa «nanorazzismo»: diventa «cultura, respiro» e si infiltra con abilità microfisica «nei pori e nelle vene della società»[56].

 

Note:

 

* Le citazioni dal testo sono indicate con la sigla GCR.

[1] E. Balibar, Europe, crise et fin?, Le bord de l’eau, Paris, 2016, pp.7-31.

[2] Per questi concetti cfr. E. Balibar, «Europe: la révolution par en haut», in  Id., Europe, crise et fin?, cit., pp. 177-182; A. Negri, «A proposito di costituzione e capitale finanziario», in P. Ametrano et alii, Dalla rivoluzione alla democrazia del comune. Lavoro, singolarità, desiderio, Napoli, Cronopio, 2016, pp. 11-25; A. Amendola, Costituzioni precarie, Manifestolibri, Roma, 2016; P. Dardot, C. Laval, Ce cauchemar qui n’en finit pas, La Découverte, Paris, 2016, pp. 161-175; D. Palano, «La “recessione democratica” e la crisi del liberalismo», in A. Colombo, P. Magri (a cura di), La fine di un mondo. La deriva dell’ordine liberale, Ledi, Milano, 2019.

[3] A. Simoncini, Democrazia senza futuro? Scenari dall’interregno postdemocratico, Mimesis, Milano, 2018.

[4] A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il Federalista (1788), Giappichelli, Torino, 1997, p. 86. Invece che di democrazia rappresentativa, sarebbe meglio parlare di «governo rappresentativo» con B. Manin, Principi del governo rappresentativo, Il Mulino, Bologna, 2010  o di «regime rappresentativo» con M. Abensour, La communauté politique des «tous uns». Entretien avec Michel Enaudeau, Les belles lettres, Paris, 2014, pp. 119-147.

[5] M. Ricciardi, «Il problema politico dello Stato globale», in Equilibri, 2, 2014, p. 298; S. Mezzadra e B. Neilson, The Politics of Operations. Excavating Contemporary Capitalism, Duke University Press, Durham, NC, 2019.

[6] M. Tomba, «Scontro fra temporalità: capitale, democrazia e piazze», in Tysm, 4, 2013, on line; M. Ricciardi, «Costituzionalismo e crisi. Sulle trasformazioni di un paradigma politico dell’ordine», in Giornale di storia costituzionale, 32, 2016, p. 107.

[7] M. Bertorello, C. Marazzi, «Un nuovo Quantitative Easing for the people», in Alternative per il socialismo, 40, 2016.

[8] M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato.Saggio sulla condizione neoliberista, Deriveapprodi, Roma 2013; Id., La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Deriveapprodi, Roma, 2012; M. Löwy, “The far right: a global phenomenon”, in Internationalviewpoint, 10 gennaio 2019, on line; E. Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, Verona, 2017; G. Calella, «Il popolo è una scorciatoia. Colloquio con Enzo Traverso», in Dov’è finito il populismo, Jacobin Italia, 5, 2019, pp. 30-37.

[9] A. De Nicola, Relazione introduttiva alla Presentazione di Jacobin Italia, Dov’è finito il populismo, Roma, Esc, 18 dicembre 2019, in Radiosonar.net, on line; Id., «L’Italia nel ciclo politico reazionario», in Dinamo press, 16 febbraio 2018, on line.

[10] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975, 4 voll., Q 3, §34, p. 311; sul populismo come «rappresentazione spettacolare di nuovo conio che sostituisce la contesa fantasmatica dei vecchi partiti», cfr. M. Pezzella, «Critica della ragion populista», in S. Cingari, A. Simoncini, Lessico postdemocratico, Stranieri University Press, Perugia, 2016, pp. 187-200.

[11] S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte, Verona, 2016; N. De Genova, «La “crise” du régime frontalier européen: vers une théorie marxiste des frontières», in Contretemps, 3 giugno 2019, on line.

[12] E. Balibar, Il fantasma del corpo estraneo. Per un diritto internazionale dell’ospitalità, Castelvecchi, Roma, 2019; Connessioni precarie, «Essere radicali come la realtà», in Connessioni precarie, 2 agosto 2019, on line.

[13] M. Pirone, «La solidarietà sotto sequestro», in Euronomade, 7 agosto 2017. Di «razzismo istituzionale», per il caso italiano, parla L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Roma-Bari, 2018, pp. 203ss. Cfr. anche N. De Genova, «Spectacles of migrant “Illegality”: The Scene of Exclusion, the Obscene of Inclusion», in Ethnic and Racial Studies, 7, 2013, pp. 1180-1198.

[14] M. Mellino, Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberalismo, razzismo e accoglienza in Europa, Deriveapprodi, Roma, 2019, pp. 5-15. D’ora in poi GCR nel testo.

[15] L. Ferrajoli, «Crimini di sistema», in L’ospite ingrato, 4 marzo 2019, on line. Relativamente ai respingimenti sistematici di migranti in Libia e alle correlate torture, persecuzioni, detenzioni, stupri, annegamenti in mare, gli avvocati internazionalisti Omer Shatz e Juan Branco hanno presentato un esposto alla Corte Penale Internazionale contro l’Ue e gli Stati membri dove parlano di «crimini contro l’umanità» compiuti con consapevolezza, premeditazione e intenzionalità, anche foraggiando «le milizie libiche per eseguire crimini di cui sono complici». F. Murard-Yovanovitch, «Dall’Europa alla Libia, il crimine esternalizzato», in Left, 3gennaio 2020, pp. 32-34.

[16] N. De Genova, S. Mezzadra, J. Pickles, «New Keywords: Migration and Borders», in Cultural Studies, 1, 2015, pp. 55-87; G. Campesi, Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo, Deriveapprodi, Roma, 2015; A. Arienzo, «Se le stelle stanno a guardare. Una governance per le migrazioni oltre il governo dei migranti», in Cosmopolis, 1, 2019, on line. Cfr. S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 213-261; European Commission, The Hotspot Approach to Managing Exceptional Migratory Flows, scaricabile al sito https://ec.europa.eu/.

[17] N. De Genova, «The border spectacle of migrant “victimisation”», in Open democracy, 20 maggio 2015, on line.

[18] A. Arienzo, La Governance, Ediesse, Roma, 2013, pp. 131-145; Id., «Lo Stato nella globalizzazione e la governance economica della politica», in Scienza & politica, 57, 2017, pp. 105-120.

[19] Per uno sviluppo del tema cfr. A. Simoncini, Democrazia senza futuro?, cit., pp. 15-31. Sulla recente proposta di riforma del Mes, cfr. R. Vitali, «Il Mes è la nuova “polizia dei mercati” europea», in Jacobin Italia, 27 novembre 2019.

[20] Mellino parla di «razzismo strutturale», o di «razzismo come struttura strutturante» – con Pierre Bourdieu -, per definire una situazione come quella italiana in cui, secondo il rapporto CENSIS del 2017  l’88% dei 6 milioni di stranieri regolarmente residenti è impiegato in nicchie del mercato del lavoro ad elevato sfruttamento e solo uno su dieci riesce a sottrarsi ai suoi segmenti più bassi, precari e sottopagati; gli stranieri rappresentano il 34% della popolazione carceraria (pur essendo poco più di un decimo della popolazione) e il 28% delle famiglie straniere è in povertà assoluta a fronte del 4,5% di quelle italiane.

[21] M. Dotti, «Europa 2016: il ritorno dei muri. Intervista a Saskia Sassen», in Vita, 1 marzo 2016, on line.

[22] S. Mezzadra, «Logistica, mobilità e migrazioni. Un’agenda emergente per la ricerca sulle migrazioni?», in N. Cuppini, I. Peano (a cura di), Un mondo logistico. Sguardi critici sul lavoro, migrazioni, politica e globalizzazione, Ledizioni, Milano, 2019, pp. 55-56.

[23] Cfr. «Special Focus Labour», Refugee Revue, III, Fall 2017.

[24]C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, Roma-Bari, 2018.

[25] D. Palano, La «recessione democratica», cit., p. 40.

[26]  J. Lacan, Il SeminarioLibro V, Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), Einaudi, Torino, 2004, p 473.

[27] Nei social media i sovranisti hanno sdoganato «l’appello perverso a liberare pratiche e discorsi sessisti/razzisti anti-immigrazione precedentemente non rivendicabili e/o impronunciabili come momento primario di soggettivazione politica». Ivi, p. 162.

[28] Cfr. M. Revelli, La politica senza politica, Einaudi, Torino, 2019.

[29] M. Fisher, Realismo capitalista, Nero edizioni, Roma, 2018, p. 148.

[30] Cfr. W. E. B. Du Bois, Sulla linea del colore: razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, Bologna, Il Mulino, 2010.

[31]«No, le masse non sono state ingannate, hanno desiderato il fascismo in tal momento, in tali circostanze, ed è questo che occorre spiegare, la perversione del desiderio gregario». G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 1975, p. 32. Cfr. W. Reich. La psicologia di massa del fascismo, Einaudi, Torino, 2009.

[32] R. Williams, The Long Revolution. London and New York, Columbia University Press, 1961, pp. 64ss.

[33] J.-A. Miller, Extimidad, Paidos, Buenos Aires, p. 50.

[34] Nel laboratorio italiano lo confermano la sostanziale continuità tra l’operato dei Ministri degli Interni Minniti e Salvini e il fatto che la Ue non si sia praticamente opposta ai «decreti sicurezza» di quest’ultimo.

[35] M. Pezzella, La voce minima. Trauma e memoria storica, Manifestolibri, Roma, 2017, p. 113, che richiama le fondamentali pagine del capitolo 24 del primo libro del Capitale di Marx sulla «cosiddetta accumulazione originaria». K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, libro primo, III, Editori, Riuniti, Roma, 1975, pp. 171-224.

[36] Ibidem.

[37] Sulla «colonialità del potere capitalistico moderno», cfr. A. Qujiano, «Colonialidad del poder. Eurocentrismo y America Latina», in E. Lander (a cura di), La colonialidad del saber, Clacso, Buenos Aires, 2003, pp. 201ss.

[38] A. Mbembe, Necropolitica, Ombre corte, Verona, 2016, p. 27.

[39] Ivi, p. 30, che rilegge C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», Adelphi, Milano, 1991, pp. 263ss.

[40] A. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1967, p. 192.

[41] A. Mbembe, Critique de la raison negre, La Découverte, Paris, 2015, p. 41.

[42] S. Hall (a cura di), Policing the crisis. Mugging the Stateand Law and Order, Routledge, Londra, 1978; Id., «The great moving right show», in Marxism Today, January 1979, pp. 14-20.

[43] Cfr. S. Hall, «Razza, articolazione e società strutturate a dominante» (1980), in Id., Cultura, razza e potere, Ombre corte, Verona, 2015.

[44] Cfr. A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano, 2002.

[45] Mellino osserva, peraltro, come la figura del «buon migrante meritevole di essere accudito» disegnata dal sistema europeo dell’accoglienza sia intrinsecamente segnata dall’eredità del «vecchio rapporto coloniale». Ivi, p. 156.

[46] W. E. Du Bois, Black Reconstruction in America, 1860-1880, Atheneum, New York, 1970, p. 701.

[47] M. Foucault, «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 223 e 220.

[48] Ivi, p. 221.

[49] Ivi, p. 223.

[50] A. Mbembe, Critique de la raison negre, cit., p. 257.

[51] Ibidem.

[52] Id., Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2019, p. 72.

[53] Id., Critique de la raison negre, cit., p. 57.

[54] Ivi, p. 58

[55] Ivi p. 57.

[56] Id., Nanorazzismo, cit., p. 73.