LA DISTRAZIONE E L’EBBREZZA. NOTE A PARTIRE DA “A SENSO UNICO” DI WALTER BENJAMIN – di Mario Pezzella

LA DISTRAZIONE E L’EBBREZZA. NOTE A PARTIRE DA “A SENSO UNICO” DI WALTER BENJAMIN – di Mario Pezzella

18 Febbraio 2020 Off di Francesco Biagi

di Mario Pezzella

 

Strada a senso unico[1] è un libro (composto di brevi “immagini dialettiche”)  che Benjamin scrisse tra il 1924 e il 1928; esso esprime bene lo “stato d’animo” diffuso in Germania durante la crisi della repubblica di Weimar e l’approssimarsi del nazismo.

Perché rileggerlo ora? Alcuni tratti di quel tempo ricordano in modo sorprendente le ombre che noi attualmente stiamo vivendo, anche se, certo, le differenze sono non meno significative. Il libro descrive l’inconscio sociale degli anni Venti in Germania: non la vita empirica, ma quella simbolica e immaginaria che ne muove potentemente gli affetti ed è presente in ogni sua piega, in ogni dettaglio, analizzati da Benjamin col suo metodo micrologico. Vero centro, oltre che nucleo iniziale del testo, sono i frammenti intitolati Kaiserpanorama. Viaggio attraverso l’inflazione tedesca. Da qui, per cerchi concentrici, l’attenzione di Benjamin si estende alle potenze mitiche e allo stato d’emergenza che invasero l’immaginario collettivo, fino a dominare o annullare la resistenza della coscienza desta.

 

Un detto che conquista popolarità nei periodi di crisi è: «Così non si può andare avanti»; secondo Benjamin è un segno inequivocabile «di stupidità e di viltà»(13). La disgregazione della Germania di Weimar ci pone infatti di fronte a una “durata nella catastrofe”, che si è poi conclusa con la seconda guerra mondiale e la distruzione del paese. Occorre sostituire all’idea di “crisi” come precipizio acuminato e culminante, quella di un protrarsi indefinito e corrosivo di uno stato di povertà e derelizione, di disuguaglianza e ingiustizia. Il regresso della civiltà europea nel fascismo non è un incidente sulla via luminosa dello sviluppo del capitale; ne è piuttosto una forma estrema, nichilistica e distruttiva, di cui esso ha ciclicamente bisogno, certo variandone le manifestazioni concrete. Occorre dunque operare un rovesciamento di prospettiva e di angolo visuale, «accogliere i fenomeni di decadimento come il puro e semplice dato stabile, e solo un segno di salvezza come qualcosa di straordinario, ai limiti del portentoso e dell’incomprensibile» (14). Come ha dimostrato la storia della Germania di Weimar, «c’è solo un limite oltre il quale le sofferenze non durano: l’annientamento»(14). Che in effetti viene “scelto”, in un profondo e inconsapevole movimento psichico, con le elezioni tedesche del 1933.

 

Anche a voler trascurare i sinistri segnali di fascismo, razzismo e guerra che si stanno diffondendo nel nostro presente, l’annientamento ci minaccia per la distruzione ecologica che il capitale mette in opera sulla terra. Questo fenomeno concreto è talmente rimosso che il senso comune nemmeno esplode nella frase tanto criticata da Benjamin, «così non si può andare avanti»: benché chiunque abbia oggi almeno cinquant’anni possa constatare di persona e visivamente la scomparsa delle spiagge in cui faceva il bagno da bambino, l’incrudelirsi del cielo estivo, lo scioglimento dei ghiacciai. L’erosione della terra non suscita alcun allarme profondo, non si percepisce davvero il suo nesso con la sopravvivenza personale, viene comunque sentita come un evento remoto. Questa minaccia di annientamento, che è invece costante ed è legata allo sviluppo attuale del capitale, è recepita confusamente dalla coscienza, mentre la sua paurosa carica affettiva viene anestetizzata. È nota, ma non è conosciuta, non diventa esperienza.

Ciò non vuol dire che essa non costituisca un fattore emotivo profondo: si degrada in effetti a trauma inconscio e determina un’atmosfera psichica di angoscia e depressione, di tristezza e di mancanza di fiducia nel futuro, che è esclusa dal linguaggio e attribuita alla torva invasione di stranieri e nemici. La possibilità della distruzione, di cui si vuol ignorare la natura reale, viene spostata e condensata – come in un brutto sogno  – nella malignità perversa dell’ “altro”.

 

«Un singolare paradosso: la gente, quando agisce, pensa solo al più gretto interesse personale, ma al tempo stesso è più che mai condizionata nel suo comportamento dagli istinti della massa» (14). Ritorna nel secondo frammento di Kaiserpanorama il tema della stupidità della media borghesia tedesca, che soffrendo la perdita della sua antica condizione di relativa sicurezza, invece di rendersi conto della reale provenienza del pericolo aderisce agli irresistibili impulsi collettivi che la portano nel baratro. Il rimpianto per l’esistenza e la stabilità sociale dissolta è talmente acuto, da rendere “stupidi”, ottusi, di fronte alla minaccia effettiva, incapaci di approntare contromisure concrete; così che illudendosi di difendere, come si vorrebbe, il proprio status individuale, ci si getta nel risentimento primordiale di massa, in cui l’individualità in quanto tale diviene desueta ed è destinata a sparire. Invece di reagire a una paura in questo senso giustificata e comprensibile, si naufraga in un’angoscia impersonale e poi nel disperato tentativo di uscirne fondendosi nel magma ebbro proposto dal fascismo. L’ottusità (Dummheit) di cui scrive Benjamin non è una banale debolezza di mente: è l’effetto della rimozione radicale della causa del proprio dolore, che rende ogni risposta al pericolo inadeguata e ridicola e appartiene alla struttura profonda dell’epoca. C’è un lato comico, oltre a quello tragico, nella festosità con cui il piccolo borghese degli anni Trenta si getta in sfilate rutilanti e riti a suon di tamburi, dove perde quel poco di rispettabilità che pure voleva difendere. Stupido è chi, volendo evitare una perdita, si comporta in modo da renderla ineluttabile e prova in questo una intensa soddisfazione masochista. È uno stato d’animo, l’ottusità, una tonalità affettiva: o come Benjamin dice precisamente una Verfassung (disposizione di spirito).

 

La stupidità va presa sul serio, è forse lo stato d’animo che più ancora della violenza, del risentimento e dell’umiliazione predispone al fascismo: o meglio è il loro necessario complemento, perché li copre di un velo spesso di ignoranza e inconsapevolezza, così che possano agire in modo primordiale e massificato. Il razzismo è stupido perché muta il male concreto in pericolo immaginario, il nemico effettivo in un fantasma terrificante di alterità (che reincarna in forma paranoica in esseri umani). La stupidità è l’inverso della nobile follia di Don Chisciotte: prende i mostri reali del capitale per innocui mulini a vento. I grandi comici, tra cui vanno annoverati anche il Flaubert di Bouvard et Pecuchet e Joyce con l’Ulisse, hanno sempre intuito il suo lato minaccioso e oscuro, la sua predisposizione alla rovina e alla violenza.

Oggi il termine ha perso qualsiasi accento peggiorativo o critico. Il borghese di Weimar cercava probabilmente ancora di passare per intelligente, non essendolo: per il nuovo fascista italiano la stupidità esibita diviene merito e complicità con la massa, solidarietà egualitaria con l’ignoranza. Se volessimo esprimerci in termini lacaniani, essa implica il misconoscimento dell’ordine simbolico e lo spostamento sistematico del reale nell’immaginario: in parole più povere, è la premessa dell’immersione del singolo nell’ebbrezza e nell’odio distorto del collettivo. Perciò viene diffusa in modo incessante, con tutti gli strumenti della propaganda mediatica e televisiva. Le fake news che invertono costantemente la realtà nel fantasma collettivo sono causa ed effetto dell’idiozia generale.

 

Il danaro sta «in modo devastante al centro di tutti gli interessi dell’esistenza», scrive Benjamin, ma questa osservazione, di per sè abbastanza scontata in un periodo di crisi economica, trova il suo senso intero se accompagnata da quest’altra, che da essa dipende: «Tutti i rapporti umani più prossimi (näheren)…sono investiti da una limpidezza penetrante, quasi insopportabile, a cui difficilmente riescono a reggere»(15). Che il danaro e i suoi movimenti siano al centro della società del capitale è una verità permanente; ma prima della crisi, in un residuo di vergogna etica, si cercava di mascherare questo dato di fatto, per lo meno nelle relazioni familiari e di amicizia e insomma in quelle più intime. Alla fine dell’Ottocento, perfino la prostituta o la mantenuta di un banchiere esigeva un centesimo di romanticismo, un velo effimero sulla brutalità del reale. Il romanzo di Proust è – tra le altre cose – la descrizione infinita di tale velo e della sua inesorabile caduta.

Durante la crisi economica il rapporto di danaro, latente e silente in tempi più tranquilli, esibisce in modo spietato la sua verità e il suo potere, ed è questa la limpidezza penetrante, a cui neppure le relazioni più intime possono reggere. Il dominio reale del capitale ha definitivamente soppiantato quello formale, in cui i sentimenti privati conservavano una relativa autonomia. Il regime di desiderio governato dalla merce e dalla sua realizzazione in danaro tende a divenire totalitario. La limpidezza penetrante del danaro è lo splendore dell’astratto che nei periodi di crisi domina imperturbabile e indifferente la miseria dei corpi e la stupidità delle anime. In tali tempi l’amore può sopravvivere solo se unito allo spirito della rivolta.

 

Alcuni dei frammenti di A senso unico sono dedicati alla declinante arte del viaggio. La crisi economica giunge a minacciare una elementare conquista della borghesia: «Mai la libertà di movimento è stata in un rapporto peggiore rispetto alla ricchezza dei mezzi di trasporto»(19). L’isolamento di una nazione entro i propri confini aumenta lo stato d’animo generale della stupidità, impedendo la percezione e il confronto con l’alterità e lo scambio intellettuale. Da questo punto di vista, la situazione si direbbe oggi molto cambiata. Certo, i veramente miserabili sono confinati nelle loro periferie suburbane: ma non dilagano forse gli aerei low cost, le comitive di gruppo scontate, vacanze per pensionati con le loro badanti, le gite scolastiche?

Si è smarrito però il senso stesso del viaggio, di fronte alla sua spietata mercificazione:

l’immagine mitica o l’incanto di un nome, inseguiti in un luogo lontano o almeno diverso dal consueto, potevano forse deluderci, ma conservavano un ricordo di alterità, che oggi è perduto. La gentrificazione dei centri delle città, la loro trasformazione in una ininterrotta catena alberghiera o in un parco giochi a tema, l’ossessiva svendita delle opere d’arte esposte nei musei e ridotte a gadget, hanno distrutto il senso stesso del viaggio, che non incontra più l’altro ma ritrova il medesimo, come medesime sono le grandi firme che occupano fisicamente le strade più note delle città con i loro prodotti globalizzati. Per cui si potrebbe correggere in questo modo la frase di Benjamin: «Mai la libertà di movimento è stata più inutile rispetto alla ricchezza dei mezzi di trasporto». L’astratta fantasmagoria della merce ha sostituito il fascino dell’esotico e nei più frenetici spostamenti altro non si trova che la cifra turistica delle cose, attaccata come l’immagine tipica delle città alla catenina dei portachiavi: Tour Eiffel, microriproduzioni della faccia di Kafka o di una tomba del cimitero ebraico di Praga, Vesuvi, Battisteri, Duomi, ballerini di tango, centurioni.

 

Nota. Scriveva Kracauer: «Il Viaggio in Italia era dedicato al paese che Goethe cercava con l’anima, oggi l’anima…cerca il cambiamento dello spazio che il viaggio le offre. La meta del viaggio moderno non coincide con quella dell’anima, è semplicemente un luogo nuovo. Non si va alla ricerca della specificità di un paaesaggio, ma della diversità del suo volto»[2]. Vale a dire che il dominio dell’astratto si è esteso alla sfera del viaggio: si ricerca il movimento in quanto tale, destituito da qualsiasi nozione di esperienza, il moto perpetuo, il dislocamento prediletto per se stesso, come in certi quadri del futurismo, dove domina la frenesia motoria priva di senso. In tutto ciò è possibile scorgere una decalcomania dell’incremento puramente quantitativo del denaro. Il movimento in sé e per sé viene del resto venduto come merce.

 

Nella prima versione di Kaiserpanorama è ancora più evidente che è proprio la stupidità a essere considerata da Benjamin lo “stato d’animo” profondo della Germania di Weimar, più che l’angoscia o la noia, considerate da Heidegger come tonalità affettive dominanti; certo, essa ha un rapporto assai stretto con la chiacchiera, all’analisi della quale Heidegger ha dedicato pagine significative. L’idiozia è il polo soggettivo dell’ottusità che sul piano oggettivo colpisce gli oggetti di uso comune: «Si deve alla crescente e maligna ostilità delle cose insieme alla stupidità degli uomini, se la possibilità della vita in Germania sta esaurendo le sue residue risorse»[3]. Come già detto, la stupidità va presa nel suo senso, per così dire, speculativo: l’inversione sistematica tra il reale e l’immaginario.

Si può ricordare anche la distinzione proposta, sempre a proposito della Germania di Weimar, da Ernst Bloch, che ha un valore ideale e tipico per la formazione del fascismo: a un’epoca della distrazione seguirebbe un’epoca dell’inebriamento, e poi in prospettiva quella dell’eccesso, del superamento del limite e della distruzione[4]. Il libro di Benjamin compie senza dubbio un’analisi della distrazione, che è strettamente associata alla stupidità, ma con profetiche anticipazioni delle due scansioni successive. Del resto in una introduzione all’edizione olandese di una versione di Kaiserpanorama, Beniamin scrive: «Il barometro dell’economia, che in Germania è fermo da anni ai suoi livelli più bassi, permette per la prima volta un’analisi, grazie ai segnali che annunciano l’approssimarsi di un nuovo diluvio. Sollecitarne l’arrivo, non è materia della storia, ma della politica, non compito dei cronisti, ma dei profeti»[5]. Dove il “diluvio” è qui la rivoluzione, che impedirebbe la “durata nella catastrofe”, il “radioso Inferno”[6], verso cui precipita la crisi. Più sobriamente, nella versione finale, si afferma che occorre tagliare la miccia che sta conducendo  a un’esplosione, di cui viene piuttosto accentuato il carattere minaccioso.

 

Nota. La distrazione è anche uno dei temi studiati attentamente da Kracauer, a proposito dello stato d’animo dominante nel ceto medio degli anni Venti in Germania. In particolare egli parla di distrazione per il periodo così detto della “stabilizzazione” (dal 1924 al 1929), quando una relativa crescita economica – se non migliora in modo sostanziale le condizioni di vita – permette però di organizzare evasioni pianificate e superficiali da esse. L’industria culturale diviene industria del divertimento di massa, sul modello americano, sostenuta come tutta l’economia del paese dal debito estero: «I giochi d’acqua assomigliano alla vita di molti impiegati. Si salva dalla sua povertà con la distrazione, si fa illuminare dai bengala e si dissolve nel vuoto notturno, immemore della propria origine»[7]. In modo abbastanza singolare Kracauer pone questo ricorso alla distrazione in rapporto con una fuga – contemporaneamente – «dalla rivoluzione e dalla morte»[8]. Forse perché la coscienza della morte e della finitudine, se riconosciuta in pieno, renderebbe insopportabile la servitù in cui trascorre la vita e rivelerebbe il carattere ipnotico e sonnambolico della distrazione e della chiacchiera.

 

L’ottusità porta il singolo a una tale sottomissione agli impulsi collettivi di massa, che la Germania sembra regredita uno stadio storico arcaico, «come solo la vita di un primitivo è condizionata dalle leggi di un clan»(17). È un fenomeno che conosciamo anche noi: si esprime nella crescente prevalenza di una legge oscena e ufficiosa su quella codificata e pubblicamente affermata da una costituzione che prescrive uguaglianza e parità di diritti per ogni cittadino[9]. La gerarchia libidica del potere e del desiderio si afferma molto più nelle valanghe di insulti razzisti e sessisti che circolano via internet, che nelle affermazioni – divenute astratte – della legge scritta. La semplificazione barbarica del linguaggio è accentuata dal fatto che l’insulto o l’aggressione avvengono in comunicazioni sincopate e già predisposte ad accogliere solo l’elementare, cancellando le sfumature (i tweet, gli sms, etc.).

La violenza del linguaggio e sul linguaggio ­­– non dimentichiamo la vera e propria deformazione disgregante che l’hitlerismo fece subire alla lingua tedesca e il nostro Duce a quella italiana – può trasformarsi in violenza a tutto campo, quando le sue minacce non trovino un’eco immediata e a meno che gli oppositori non siano di così poco conto da tacere ancor prima che gli venga ordinato. Una ulteriore conseguenza di questa ottusità estesa alla sfera linguistica è che l’ironia, «il più europeo di tutti i beni»(17) diviene impossibile: il doppio senso, il gioco di parole, il malinteso voluto, il motto di spirito divengono incomprensibili. Ogni parola viene presa spietatamente alla lettera, da una coscienza capace solo di percepire voci rauche di comando o sibilanti di seduzione.

 

Nella prima stesura di Kaiserpanorama, Benjamin fa risalire l’ottusità dilagante in Germania – «I tedeschi inclinano alla Dummheit» – alla propaganda di guerra e alla generalizzazione della menzogna, a cui ha portato la sconfitta e l’imposizione del trattato di Versailles. La situazione si aggrava a causa della devastante inflazione del primo dopoguerra; la lingua stessa si disgrega divenendo un riflesso della quantità astratta in cui si calcola il danaro: «Il numero divenne onnipotente e decompose la lingua[10]. Se l’attenzione per l’interlocutore lascia il posto a quella per il prezzo delle sue scarpe, la comunicazione si spezza in frasi sincopate, ossessionata dall’oscillazione frenetica nel computo numerico del denaro. Questa decomposizione la predispone all’uso che ne faranno i nazisti, nel caratteristico accumulo di brevi e ripetute asserzioni. Una lingua spezzata e già incapace di trovare forme comunicative armoniche e complesse, viene poi invasata da un inebriamento irrazionale, che trasforma i suoi frammenti isolati in formule magiche, importanti per i loro effetti, nella nullità dei loro significati. L’abbassamento della lingua a espressione del danaro la prepara a diventare lo strumento grezzo delle rauche grida fasciste.

Questa osservazione di Benjamin ci invita a guardare al nostro linguaggio come a un sismografo: dopo un lungo periodo in cui esso è servito prevalentemente a misurare differenze quantitative e incrementi o decrementi del danaro, sia quello pubblico che quello privato, ora esso sembra pronto ad accogliere i sussulti di entusiasmo primordiale del nuovo fascismo. La lenta opera di svuotamento che ha subito nei decenni berlusconiani predispone le sue schegge rescisse a farsi veicolo di una sovranità autoritaria e grottesca. In effetti, osservava Benjamin, la difficoltà economica e ancor più la miseria, spingono gli uomini ad accatastarsi l’uno sull’altro, a perdere il senso della distanza e della differenza reciproca, tutti accomunati da bisogni e pulsioni primarie: cosicché essi perdono il sentimento della sobrietà (Nuchternheit).

Questa è un’altra manifestazione della stupidità, che spinge, invece che a rovesciare concretamente la situazione, a rivestirla per così dire di un significato supremo e trascendente, «a godere di questa impotenza come se si trattasse di una ricchezza di destino (schicksalshaltigen Reichtums[11], a trasfigurarla nell’ebbrezza totalitaria, fino a vivere «inebriati (berauscht) in una situazione inerte (trägen)». Questo passo, forse per la sua eccessiva negatività, anche se straordinariamente profetico, non compare nella stesura finale. In effetti è una situazione ossimorica quella a cui conduce il fascismo: una inerzia inebriata, un’ebbrezza inerte, una condizione immobile e reclusa e insieme indefinitamente esaltante, un sublime inchiodato. La premessa per un simile cortocircuito è l’ottusità come stato d’animo storico.

 

Nota. Così lo psicoanalista Roland Gori scrive delle nostre patologie e dell’ottusità che più da vicino ci riguarda: «Lo spazio analitico, allora, contribuisce alla ricostruzione della realtà interiore, offendo posto e senso a un’esistenza talvolta così dispersa da evocare la condizione di stultitia di cui parlavano i filosofi antichi. Lo stultus è esposto ai quattro venti: senza memoria, senza volontà, disperso nel tempo e nello spazio, lascia che la vita scorra senza poterla vivere. L’uomo di oggi è esposto all’attualità, gli manca il tempo per potersi raccogliere e ritrovare»[12]. In effetti la stoltezza e la distrazione sono il correlato psichico della merce e della moda, del suo objet petit a (nei termini di Lacan), che deve illudere e deludere il desiderio per assicurare la riproduzione continua del danaro.

 

Ai contemporanei di Benjamin poté apparire come una singolare sincronicità il degrado del tempo atmosferico, delle stagioni e dell’aria stessa che si respirava,  proprio nel momento in cui la società pativa crisi e disgregazione. Questa corrispondenza non motivabile razionalmente eppure indubitabile alla percezione comune, di cui se non altro esprime lo stato d’animo deformato e depresso, è uno dei temi ricorrenti e dominanti nelle opere di Shakespeare e in generale nel dramma barocco, che Benjamin studiava negli stessi anni di composizione di A senso unico. Comete, cataclismi, vitelli con tre teste, eclissi di sole e di luna, funesti allineamenti di astri, accompagnano la caduta dei sovrani, l’uccisione dei cesari, il crollo degli imperi, in una parola le crisi della sovranità, in cui «il tempo esce fuori dai cardini» e si annunciano violenze e disordini.

La natura, l’immagine che l’uomo ne percepisce, non è così separata dalla storia come lo pseudoilluminismo neoliberista tende a farci credere, e reagisce con moti di simpatia o di ripulsa agli eventi dell’epoca, come se un unico battito o pulsare cosmico unisse l’accadere storico alle forze profonde dell’universo. Nella Germania di Weimar il paesaggio sembra partecipe del decadimento umano: «Come le cose, anch’esso consuma l’uomo, e la primavera tedesca che eternamente manca all’appuntamento è solo una delle innumerevoli manifestazioni affini della natura tedesca in decomposizione»(19).

Quello che a Benjamin poteva apparire un evento sincronico interpretabile come una corruzione dell’apparato percettivo, diviene per noi una tragica verità fattuale, verificabile coi più semplici nessi di causa ed effetto. La devastazione della natura, la sua crescente aggressività o addirittura il suo impazzimento, i fenomeni abnormi che ci circondano, sono in stretta connessione con le modifiche irreversibili che il capitalismo ha imposto negli ultimi decenni all’aria, alle acque, al vento, alla terra. La crisi di sovranità è un portato del capitale quanto il disfacimento del nostro paesaggio e del nostro patrimonio artistico e storico; la decomposizione sociale prodotta dalla forma di merce e dal danaro è effettivamente connessa alla patologia della natura e dei corpi. Sicchè la metafora efficace con cui Benjamin conclude il suo frammento è diventata per noi una verità letterale e fisiologica: «In essa [natura] si vive come se da queste parti la pressione della colonna d’aria di cui ognuno porta il peso fosse divenuta, contro ogni legge, di colpo avvertibile»(19). Sono ormai frequenti i giorni in cui è meglio chiudersi in casa e avere meno contatti possibile con i veleni diffusi nell’atmosfera. Il fatto che respirare a pieni polmoni sia divenuto letale per i nostri bambini, dovrebbe da solo suscitare un cieco desiderio di ribellione, se non intervenisse un’altra profonda innervatura di stupidità: «Un padre che non può più dare un rifugio ai propri figli, un marito che non può più dare una casa alla sua donna, deve disimparare d’amarli»[13]. L’atonia emotiva, l’anaffettività preventiva è l’unica alternativa alla rivolta e dunque viene stimolata e sollecitata con tutti gli stupefacenti dello spettacolo e dei media, con l’economia della promessa e l’immagine di sogno dell’imprenditore di se stesso.

 

Quando il ciclo economico del capitale precipita in una crisi, il rapporto soggetto-oggetto entra in una sindrome depressiva: nel regime del capitale l’individuo è anzitutto acquirente di merce e merci sono appunto i suoi oggetti, sempre più tali in ogni piega della vita, anche quelle apparentemente più lontane dal danaro, come l’arte o l’istruzione universitaria. Il soggetto preformato e predisposto al consumo si trova privato in tutto o in parte della possibilità di realizzarlo: alla sua percezione ciò si presenta come un’ostilità, una particolare inimicizia e resistenza al suo desiderio: «Dalle cose svanisce il calore. In maniera lenta ma ostinata gli oggetti d’uso giornaliero allontanano l’uomo da sé»(18). Nella privazione, il rivestimento fantasmatico della merce, che la presentava rivestita di fascinose parvenze, viene meno ed essa mostra la sua scheletrica richiesta di danaro, così come in generale esibisce a pieno la sua natura seriale, priva di qualsiasi tratto distintivo e personale.

Gli uomini addetti al servizio delle merci, alla loro distribuzione e vendita, si conformano psicologicamente alla durezza di nuovo conio che appartiene alle cose: la precedente vernice di gentilezza cade sul volto come un rimmel pesante e anche in loro emerge il fondo prima nascosto, l’essere maschere di capitale, che sovrasta il nucleo interiore ed umano: «Controllori, funzionari pubblici, artigiani e venditori, tutti si sentono agenti di una materia riottosa la cui pericolosità si studiano di mettere in luce con la loro grossolanità»(18).

Nella crisi sporge il cranio aguzzo del capitale, gli zigomi ossuti del suo teschio: questa nuda miseria o questa atona mancanza di calore delle cose e degli uomini potrebbe far percepire una verità pericolosa, rendere palese, dietro l’euforia fantasmagorica, la freddezza sostanziale ed astratta del capitale, a un punto tale da renderla intollerabile. Ciò induce Benjamin a scrivere nella prima redazione: «Se il capitalismo disimpara l’arte di nascondere i propri meccanismi, va verso la sua distruzione». Una più esatta percezione deve averlo indotto a sopprimere questa frase. Il radioso inferno del nazismo, lo pseudoinebriamento delle masse, vengono in soccorso del capitalismo con un inedito virtuosismo del nascondimento: la freddezza del mondo delle cose viene compensata dall’ebbrezza distruttiva. L’operaio guerriero di Jünger diviene il nuovo eroe della tecnica.

 

Questa versione eroica e sublime della soggettività e della tecnica ci è – almeno per ora – estranea. Noi pure viviamo tuttavia in una lungamente coltivata atrofia del corpo emozionale, difendendoci con la soppressione dell’affettività dagli aculei insopportabili della crisi attuale: il nuovo fascismo promette di restituire calore alle cose e alle vite, riportandole a radici sicure di sangue e di suolo («Prima gli Italiani!»), espellendo l’ “altro”, accusato di inoculare il virus venefico della globalizzazione finanziaria. L’odio contro gli immigrati e i banchieri ebrei riscalda i cuori, passati dalla distrazione di massa del periodo berlusconiano al freddo cielo del debito e della colpa, che ci vengono imputati dagli organismi sovranazionali dell’economia.

Diremo dunque che sì, i meccanismi del capitale sono messi a nudo nella loro cruda freddezza e astrazione; ma invece di portare al suo crollo questa evidenza si ottunde nella critica di superficie della finanza (più o meno ebraica), nella fusionalità di massa, nell’ebbrezza entusiasta che si proietta nel capo di turno. Evidentemente oggi non c’è nella figura di quest’ultimo un ricorso al sublime, neanche di tipo caricaturale, ma all’esplicita familiarità del grottesco: per usare categorie di Laclau, il populismo del nuovo fascismo si presenta come un dispotismo fraterno, in cui è accentuata la prossimità del capo alla massa, piuttosto che il distacco sublime da essa. Il fraterno e il sublime coesistono in ogni movimento fascista, ma diversa è l’accentuazione del primo o dell’altro polo, ed è necessario comprendere le differenze di fatto del suo dispiegarsi. Il fascismo è una risposta regressiva alla freddezza atonale e desolata del liberismo capitalista, compensata da un’emotività in figura primordiale.

 

Se la crisi politica e l’inflazione costituiscono il tema centrale di A senso unico, Benjamin cerca anche di comprendere l’emergere di figure e impulsi arcaici, riferibili all’universo ctonio riscoperto da Bachofen ed esaltato negli anni Venti e Trenta dalla cultura prefascista. Nel ritorno di una simbologia matriarcale non tutto sarebbe negativo e da respingere. Il riemergere di archetipi materni potenti, di un’emotività profondamente legata al corpo e alle radici terrestri dell’uomo, contiene anche una risposta immediata alla crisi della società patriarcale nella sua forma capitalistica. Il nazismo, tuttavia, si impadronisce di questa come di altre pulsioni dello stato d’animo collettivo e le torce in una soluzione regressiva e passiva. L’elemento tellurico materno viene accolto nella fusionalità e nell’ebbrezza di massa, mentre il polo patriarcale persiste indurito fino all’inverosimile nella freddezza tecnica della modernità e nel persistente dominio dell’astrattezza del danaro.

«…Solo dall’altra sponda, dalla parte del giorno pieno, il sogno può essere evocato con memoria distaccata» (4). Benjamin propone un confronto con le forze oscure che si agitano nell’inconscio sociale: né immersione e identificazione con esse, né rifiuto razionalistico. Si tratta piuttosto di tradurre le immagini di sogno che esse contengono e di trasformarle in utopie concrete, senza dimenticare il pericolo costante che esse accechino la percezione della realtà. Il movimento psichico della massa, il suo disagio di fronte alla desolazione del capitale, richiede una risposta, che non può e non deve essere solo quella deviante e fascista.

 

Un frammento di immaginazione arcaica è il feticcio messicano che, in un sogno di Benjamin, un prete leva contro «un busto ligneo del dio padre» (9). Immagini che si riferiscono a un periodo più antico dell’umanità prendono forza di fronte alle rappresentazioni cristiane del dio patriarcale. In un altro sogno, nella piazza del mercato di Weimar, città culla dell’alta cultura tedesca, spunta la cuspide «di un santuario messicano dell’epoca del preanimismo» (21). È evidente che Benjamin  non riferisce queste immagini di sogno al suo solo inconscio personale, ma alle tensioni profonde che si agitano in quello sociale e storico del suo tempo. Questi sommovimenti di figure oniriche sono contemporanei all’ottusità della coscienza desta nel momento della crisi, costituiscono il risvolto soggettivo del viaggio nell’inflazione tedesca; si tratta, per così dire, della corrispondente inflazione psichica.

Uno dei frammenti più importanti, in questo confronto con l’immaginazione arcaica, è Bambino sulla giostra. Esso evoca l’alternarsi di presenza e assenza della Madre. La giostra porta il figlio lontano da lei e poi a lei riconduce, in una sorta di ripetizione ciclica o di eterno ritorno. La giostra gli propone una serie di immagini, che in realtà esprimono una storia condensata di figure divine precipitate nell’inconscio dopo l’avvento del cristianesimo: prima la cima di un albero «come il bambino l’ha vista già alcuni millenni fa» e che ricorda i culti animistici e la fase magica naturale; poi miti della religione greca, molto legati al mondo ctonio, Arione, Zeus-toro, Europa rapita dal dio: «L’eterno ritorno di tutte le cose è divenuto sapienza infantile e la vita una primordiale ebbrezza di dominio», e il bambino ripete nella sua giostra interiore il cammino percorso dall’umanità. Tuttavia l’eterno ritorno e l’ebbrezza di dominio sono anche le figure di un destino privo di redenzione e la minaccia profonda che incrina lo spirito del tempo. Come si può far fronte a queste forze senza farsene travolgere ed anzi traducendole in modo positivo nella psiche collettiva? Non è un caso che in questo frammento la figura salvatrice sia tratta da quello stesso mondo femminile-materno, da cui era iniziato il moto della giostra, la quale «diventa terreno infido. E spunta la madre, il palo saldamente conficcato nella terra, intorno a cui il bambino, approdando, avvolge l’ormeggio dei suoi sguardi» (35). Alla violenza patriarcale dell’ebbrezza di Zeus, dio toro, simile al padre freudiano dell’orda primitiva, può sostituirsi solo la clemenza di una divinità femminile. La distruzione della natura e di noi con essa, può essere compensata unicamente dal rispetto della terra-madre: il nuovo fascismo ne propone una caricatura distorta col suo regresso sviato alla limitatezza di un sangue e di un suolo.

 

L’inconscio sociale di dispone in faglie di tempo, in un multiversum temporale, e in esso si conservano le tracce del remoto passato, delle epoche tramontate, degli dei (apparentemente) scomparsi: Benjamin è consapevole che nel presente che lui sta vivendo, nell’indebolimento della coscienza desta dominata dal monoteismo ebraico-cristiano, strati più profondi della storia riprendono vigore e tendono a ritornare dalla rimozione in cui giacevano latenti: «Se ci si gira, la chiesa confina, come Dio stesso, col mare. Tutte le mattine l’era cristiana intacca la rupe, ma tra le mura sottostanti la notte torna ogni volta a spaccarsi nei quattro antichi quartieri romani». Questo passo ne ricorda uno, celebre, di Freud, che paragona l’inconscio alla sovrapposizione di faglie storiche diverse, che convivono l’una sopra l’altra, nei monumenti di Roma[14]. Il loro riaffiorare può esprimere l’esigenza di una integrazione e di un allargamento dell’unilateralità dell’atteggiamento cosciente, oppure, al contrario, un desiderio regressivo verso l’indistinzione arcaica. Per dirimere questa alternativa e questa domanda, il frammento discende a una faglia ancora più antica dell’inconscio, quella in cui si occultano le divinità femminili e materne, escluse dallo sviluppo della coscienza patriarcale: sono esse che possono portarci salvezza o distruzione, lasciando riemergere il fondo ebbro e barbarico dell’eterismo, o il volto donatore e generativo della Madre, secondo le polarità che Benjamin trae dall’opera di Bachofen: «Nella piazza del mercato una fontana. Verso sera, donne ai suoi bordi. Un gorgogliare arcaico»(44).

 

I frammenti di A senso unico più evidentemente politici proclamano uno stato d’emergenza contro la dissoluzione e la desolazione, che il capitale sta imponendo alla natura esterna ed interna dell’uomo: «Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata» (44). Il nostro può essere il tempo della fine del capitale o più in generale «la fine di un’evoluzione della civiltà tre volte millenaria». Quando Benjamin scrive, pensa ancora che esista un soggetto antagonista del capitale, capace di tagliare la miccia; noi oggi non vediamo nessuna analoga figura politica, benché sommovimenti di rivolta agitino il mondo intero, con progetti vaghi, con idee confuse. Così il risentimento e la rabbia scivolano sempre più verso i contenitori populisti e fascisti, che non taglieranno la miccia, ma finiranno per accelerarne il corso. Per fare solo un esempio, il regime di destra ora dominante in Brasile porterà a un punto di non ritorno la deforestazione dell’Amazzonia, accelerando l’inaridirsi del pianeta. Si dirigono, come i ciechi di Brueghel, alla propria e altrui distruzione. Se non sono capaci di vedere la devastazione più materiale e visibilmente concreta, ancora meno vedranno quella morale e psichica, l’immane disastro che produrrà nelle anime delle vittime e dei persecutori il genocidio che sta avvenendo nel Mediterraneo: un trauma irredimibile che spinge verso la guerra di tutti contro tutti. Per riprendere un termine che Benjamin utilizza nelle tesi Sul concetto di storia, queste sono le figure attuali dell’Anticristo.

 

L’ebbrezza e la tecnica sono i due temi dominanti nell’ultimo e decisivo frammento di A senso unico. Esse sono anche gli elementi compositi e apparentemente contraddittori che coesistono nella formazione e nella vittoria del nazismo: che ha vinto, tra l’altro, perché è riuscito a sovrapporle nel suo progetto di gestione della modernità, a riscaldare – per così dire – la mano che manovra il freddo metallico della macchina, a creare una illusione di soggettività adatta al dominio della tecnica. Alle conflittualità del presente, come Benjamin dirà nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, il fascismo ha risposto sul piano della rappresentazione e dell’immaginario, con la sua estetizzazione della politica, la sua ritualizzazione della guerra, il godimento sadomasochista della distruzione. Il tentativo di Benjamin, come già appare nell’ultimo frammento del libro, Planetario, è di forgiare un concetto di ebbrezza e di tecnica alternativo a quello fascista e alle sue radici nella desolazione del capitale.

 

Nel mondo antico l’ebbrezza avveniva nel rapporto con la physis, che investiva l’intera corporeità e la psiche e all’interno di una comunità. Lo sviluppo del capitale e della sua tecnica nell’età moderna ha distrutto però la sua figura positiva, riducendo il rapporto con l’universo a una «unione ottica», a partire dalla scoperta e dall’uso del cannocchiale; «Il contatto del mondo classico col cosmo si compiva altrimenti: nell’ebbrezza…È ebbrezza l’esperienza che ci assicura dell’infinitamente vicino e dell’infinitamente lontano, e mai dell’uno senza l’altro»(70).

Questa commozione estatica, che il mondo moderno rimuove al di fuori della coscienza desta, non scompare tuttavia interamente: ma si profonda e si sedimenta nell’inconscio sociale, riemergendo dalla sua negazione in modo distorto e distruttivo e cioè nella guerra. L’entusiasmo, l’esaltazione corporea, non più contenuti nelle forme cerimoniali della comunità (credo che Benjamin pensi qui soprattutto ai misteri dell’antichità e al loro culto della terra Madre), si scatenano in regressioni disgreganti, nell’euforia della distruzione: «…L’ultima guerra è stata il tentativo di un nuovo, mai esaudito connubio con le potenze cosmiche. Masse umane, gas, energie elettriche sono state gettate in campo, correnti ad alta frequenza hanno attraversato le campagne, nuovi astri sono sorti nel cielo, nello spazio aereo e negli abissi marini risuonava il rumore delle eliche, e da ogni parte si sono scavate nella madre terra fosse sacrificali», le quali rappresentano il riemergere del mitologema più arcaico del sacrificio di suolo e di sangue all’interno del massimo dispiegamento delle forze della tecnica.

Il fascismo, che comunque dalla guerra nasce e alla guerra riconduce, ha cercato di rendere permanente e quotidiano questo inedito connubio dello stato primitivo di inebriamento e della tecnica capitalista.

 

A queste figure del fascismo non si può rispondere col puro illuminismo, considerandolo come un incidente di percorso nel progresso della civiltà e della democrazia; neppure si può rimpiangere romanticamente l’età antica dell’ebbrezza e la sua perduta sacralità (per quanto in questo rimpianto si possano trovare semi di un’utopia da attualizzare in altro modo). Occorre fornire un nuovo e positivo concetto di ebbrezza e di tecnica, alternativo sia alla forma immaginaria nazista, sia alla desolata alienazione e astrazione del capitale, che di quella rappresenta la causa in ombra. È necessaria una diversa concezione della tecnica, che modificherebbe il suo fondamento e la sua relazione di sfruttamento con la natura: «…Non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanità»(71), comparato in modo significativo a quello che si dovrebbe avere con i bambini, non fondato su un ottuso dominio, ma controllando la relazione che intercorre fra le generazioni. Questa diversa visione della tecnica, anziché distorcere i corpi negli spasmi «epilettici» della guerra, favorirebbe la costituzione di una physis «nella quale il suo contatto col cosmo avverrà in forma nuova e diversa». Si ritorna qui come in circolo al frammento politico del libro, in cui Benjamin chiedeva che si tagliasse con urgenza la miccia dell’esplosione prossima ventura: «Il delirio dell’annientamento è superato dall’essere vivente solo nell’ebbrezza della procreazione»(72). La forza generativa dell’eros è qui convocata di contro al plusgodere dissolvente del fascismo e del capitale e chiamata a tradursi in una urgente azione politica rivoluzionaria. La rivoluzione fantasmatica e immaginaria del fascismo può essere fermata unicamente da quella reale del comunismo. Alla fine degli anni Venti, questa è l’alternativa delineata da Benjamin.

 

Noi siamo prossimi a un’urgenza storica paragonabile a quella degli anni Venti, se è vero che l’azione della tecnica capitalista ci sta letteralmente togliendo l’aria e l’acqua di cui viviamo e che l’unica risposta alla crisi economica e globale è quella immaginaria e fantasmatica del populismo. Non possiamo pensare di sventare questa minaccia difendendo i poteri finanziari del neoliberismo, o coltivando l’illusione di un “populismo buono”, di sinistra, che però ripeta strutturalmente i ruoli e le funzioni di quello di destra. Difficile d’altra parte comporre insieme in un soggetto antagonista le mille lucciole di opposizione che ancora persistono a illuminare sporadicamente la nostra notte[15]. Difficile, ma non impossibile seguire alcune scie luminose del loro percorso, che danno figura alle urgenze del nostro tempo-ora. Modifica dell’essenza interna della tecnica e delle sue intenzioni; arresto dell’incremento insensato e distruttivo del capitale; accenni di una nuova pedagogia e di un diverso rapporto con l’infanzia; collegamento dei temi più strettamente politici ed economici con le faglie inconsce della psiche e una rinnovata consapevolezza dell’immaginario e delle sue figure di sogno, sia in negativo che in positivo; questi messaggi nella bottiglia ci giungono in onde di tempo dalla lettura di A senso unico.

 

Note:

 

[1] Einaudi, Torino, 2006. Il numero di pagina delle citazioni è indicato tra parentesi in corpo testo.

[2] S. Kracauer, La massa come ornamento, Prismi, Napoli, 1982, p. 69.

[3] W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Band IV-2, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1980, p. 916.

[4] Cfr. E. Bloch, Eredità del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1992.

[5] W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Band IV-2, cit. p.935.

[6] Cfr. W. Benjamin, “Eine Chronik der deutschen Arbeitlosen”, in Gesammelte Schriften, Band III, cit. pp. 534-535.

[7] S. Kracauer, Gli impiegati, Einaudi, Torino, 1980, p. 98.

[8] Ivi, p. 96.

[9] Cfr. S. Zizek, Il Grande Altro, Feltrinelli, Milano 1999, p. 92 e sgg.

[10] W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Band IV-2, p. 914.

[11] Ivi, p. 924.

[12] R. Gori, Un mondo senz’anima. La fabbrica dei terrorismi, Poiesis, Alberobello, 2018, p. 69.

[13] Ivi, p. 913.

[14] «Ora facciamo l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, in cui dunque niente di quel che una volta è esistito è andato perduto, in cui accanto all’ultima fase di sviluppo continuino a esistere anche quelle anteriori…» (Il disagio della civiltà, Newton Compton, Roma 2010, p. 93.

[15] Il riferimento è alle tesi di G. Didi-Huberman in Come le lucciole, Bollati-Boringhieri, Torino, 2010.