Le attività mutualistiche dell’Ex Opg «Je so’ pazzo», Intervista a Salvatore Prinzi di Francesco Biagi e Mario Pezzella

Le attività mutualistiche dell’Ex Opg «Je so’ pazzo», Intervista a Salvatore Prinzi di Francesco Biagi e Mario Pezzella

10 Febbraio 2020 Off di Francesco Biagi

[Pubblichiamo l’intervista a Salvatore Prinzi condotta da Mario Pezzella e Francesco Biagi uscita nel n. 2 (marzo-aprile) 2019 della rivista “Il Ponte”, pp. 36-45]

 

Puoi brevemente ricordare per un lettore che non ne sappia niente la storia e l’origine dell’Opg e la sua situazione attuale dal punto di vista politico e legale?

 

L’OPG di Sant’Eframo era un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Un luogo in cui, in teoria, dovevano essere curati soggetti che, pur affetti da problemi psichici, erano stati condannati per atti criminali; in pratica l’OPG era – come altre strutture simili sparse per il paese, con una concentrazione impressionante al Sud – un “carcere per pazzi”, una discarica sociale che fu attiva dagli anni ’20 del Novecento fino al 2008, quando fu abbandonato dalla Polizia Penitenziaria. Nell’OPG di Sant’Eframo finirono per decenni migliaia di persone povere e senza familiari, sofferenti psichici e vittime del sistema giudiziario e penale.

Il complesso, che si trova nel quartiere popolare di Materdei, immediatamente sopra il centro storico di Napoli, è gigantesco – circa 9000 mq. La sua storia inizia nel 1572, quando i cappuccini fondarono lì un monastero: l’impianto con alti muri, orto, chiostri, pozzi e cellette è ancora visibile. Nel 1866 la struttura fu confiscata dal neonato Stato Italiano e diventò una caserma, fino al 1925 quando, con il fascismo, fu trasformata in manicomio criminale, in cui furono reclusi anche oppositori del regime. Subito dopo il fascismo la gestione del carcere restò pressoché identica – addirittura il direttore De Crecchio, gerarca della prima ora che era stato allontanato dagli Alleati nel settembre del ’43, fu reintegrato nelle sue funzioni già nel ’44, a dimostrazione, anche in questo caso, della continuità negli apparati dello Stato fra il periodo fascista e quello repubblicano[1].  A partire dagli anni ’70, con la nascita della psichiatria critica e basagliana che a Napoli aveva esponenti del calibro di Sergio Piro, l’OPG di Materdei inizia a essere al centro di polemiche e lotte che strappano piccole riforme interne, fra cui qualche attività ricreativa per i detenuti, dentro un quadro che resta comunque desolante. I carcerati sono fatti oggetto di percosse, massiccio uso di psicofarmaci, umiliazioni, come riporta un lavoro del 2005 prodotto da una commissione di inchiesta[2]. Dal 2008 in poi l’OPG chiude e la struttura viene completamente saccheggiata. Nonostante fosse ancora sotto custodia della Polizia Penitenziaria, vengono prelevati tutti i beni di qualche valore – dalle suppellettili alle tubature, ai materiali sanitari, alle attrezzature, per finire con i marmi e le statue dell’antico monastero. È in queste condizioni di totale disfacimento che lo trovano i giovani che, il 2 marzo del 2015, decidono di occuparlo, rinominandolo “Je so’ pazzo”, giocando così sia sulla storia del luogo che sulla pazzia necessaria per trasformare il mondo, allo stesso tempo riferendosi a una celebre canzone di Pino Daniele, cantautore napoletano che era da poco scomparso.

Scopo dichiarato dell’occupazione è di restituire a un quartiere senza spazi ma con molte esigenze un centro di aggregazione, un luogo per organizzare lotte e risposte ai bisogni immediati. La riqualificazione della struttura comincia subito e va di pari passo con la partecipazione popolare e l’attivazione del quartiere, con l’avvio delle attività mutualistiche e delle iniziative culturali. La denuncia della Polizia Penitenziaria, però, arriva subito: di lì comincia una complessa battaglia mediatica, politica, legale, per far disimpegnare la Penitenziaria dalla struttura, che è di proprietà demaniale, e farla passare nelle mani del Comune, come peraltro è suggerito dalla legge con cui nel frattempo erano stati chiusi tutti gli OPG (Legge Marino del 2011). La determinazione degli occupanti, che hanno dormito 4 mesi di seguito nella struttura, la spinta di tutta la città che inizia a vivere quotidianamente l’Ex OPG, e l’impegno del Comune di Napoli, fanno sì che la struttura non venga sgomberata, e oggi sia aperto un tavolo di trattativa fra diverse istituzioni per concretizzare il passaggio dell’Ex OPG nel patrimonio immobiliare della città.

 

Puoi dire qualcosa sul mutualismo a cui vi ispirate?

 

Le attività mutualistiche sono il marchio che contraddistingue l’Ex OPG “Je so’ pazzo”: dagli sportelli legali per lavoratori e immigrati ai corsi di lingua per napoletani e stranieri, dal doposcuola per i bambini del quartiere alla palestra popolare, al teatro, alla biblioteca/sala studio, arrivando fino a un vero e proprio ambulatorio. Tutte le attività e i servizi sono gratuiti, aperti a tutti, e si svolgono quasi tutti i giorni dalle 15 alle 22. Nessuno dei volontari è pagato. I fondi che servono a far funzionare il posto – attrezzature, materiali per lavori di manutenzione o di recupero dell’edificio – vengono garantiti da serate di autofinanziamento (cene, concerti, spettacoli teatrali, proiezioni) e da sottoscrizioni di singoli cittadini.

Il mutualismo che pratichiamo non è però un’attività assistenzialistica o che serve solo a “far benvolere” il centro sociale nel quartiere. Per noi il mutualismo è una prassi conflittuale, che ha sia una dimensione tattica che strategica. Tatticamente permette di intercettare le persone in un momento in cui lo Stato taglia sui servizi sociali e dimostra di non essere in grado di rispondere ai loro bisogni. Soprattutto al Sud, nelle periferie e nei quartieri popolari, ci troviamo di fronte a vere e proprie emergenze sociali che ci toccano umanamente e che richiedono una risposta immediata. Se vogliamo conquistare gli ultimi, se vogliamo trasformare insieme la realtà, se vogliamo far vedere che il comunismo “va bene per te”, come diceva Brecht, non possiamo limitarci a recitare un’ideologia o a dire che non si può far nulla fin quando non si ha il governo nelle istituzioni o non si sovverte il sistema. Entrambe le opzioni infatti hanno senso solo se si sviluppa un terreno sociale disposto alla lotta, al dibattito, alla scelta, dunque se le persone sono sottratte alla condizione di disperazione e se trovano un luogo in cui identificarsi, che sia credibile per quello che fa e non per quello che dice, in cui si possa prendere consapevolezza della radice comune dei diversi problemi, individuare gli strumenti con cui risolverli, imparare forme di governo collettivo senza vincolarsi in tutto e per tutto all’autorità statale che tende a infantilizzarci e renderci dipendenti per qualsiasi cosa. Qui incontriamo anche la dimensione più strategica del mutualismo, quella che permette di ricompattare soggetti che oggi il capitalismo scinde sin nella propria psiche, attaccandoli nella loro dimensione cognitivo-affettiva, impedendogli di confrontarsi e di capirsi. Il mutualismo, attraverso la lotta per i bisogni, l’apprendimento di responsabilità e l’amministrazione di beni comuni, permette la costruzione di comunità capaci di autogestirsi, di risolvere i problemi mediando e discutendo e non solo ricorrendo a rapporti di potere.

In sintesi, potremmo dire che il mutualismo ha diversi sensi:

  1. a) permette di fare inchiesta fra le classi popolari, di capire come vivono, cosa vogliono, quali elementi dell’ideologia dominante sono più radicati etc;
  2. b) spinge persone, spesso senza esperienze politiche pregresse, alla lotta per i propri bisogni;
  3. c) ottiene vittorie, perché è in grado di scaricare molta forza su un punto debole, e dimostra così con i fatti che la vittoria è possibile;
  4. d) ottenendo risultati fa acquisire credibilità al progetto politico complessivo, permettendone il radicamento e contemporaneamente mostrando che le istituzioni borghesi non sono pensate per i nostri bisogni ma devono rispondere ad altri interessi, perciò non si attivano;
  5. e) ci mette in condizione di controllare dal basso le istituzioni, impedire speculazioni ed ulteriori arretramenti nei diritti, capirne il funzionamento, iniziare a occupare anche quegli spazi bassi ma prossimi della rappresentanza;
  6. f) inverte il processo di de-socializzazione del capitalismo e crea forme di comunità resistenti. Produce immaginario intorno a questo. Aggrega, forma e fa radicare il progetto.

Quando siamo riusciti a portare a fondo questo tipo di mutualismo abbiamo scoperto quanta energia e quanto sapere c’è nel nostro popolo, e che quello che noi chiamiamo, sulla scorta di una lunga tradizione di marxismo sperimentale, “potere popolare”, è concretamente possibile!

 

Che tipo di attività sviluppate all’interno del vostro spazio? Qual è il rapporto col quartiere? Avete un’attenzione particolare al problema della migrazione? Due o tre esempi che consideri particolarmente significativi di ciò che avete fatto.

 

Il rapporto con il quartiere è ottimo, sia perché le attività mutualistiche ci mettono quotidianamente in contatto con la vita degli abitanti, sia perché molti dei nostri militanti vivono a Materdei e dunque non veniamo visti come un corpo estraneo. Poi, finché fai qualcosa di “utile” e sei portatore di qualcosa che è comunemente percepito come sano e bello, è difficile trovare oppositori, tranne qualche singolo che ha idee politiche diametralmente opposte alle nostre. Certo, è sempre difficile rompere la cappa di indifferenza e rassegnazione, inoltre Napoli non è una città in cui la sinistra sia storicamente radicata, per cui nulla è automatico, tutto richiede attenzione e presenza.

Al di là del mutualismo, impegniamo il nostro tempo nella lotta politica a livello cittadino e nazionale che, sempre muovendo dai bisogni, mira a costruire coscienza e partecipazione sul piano più complessivo, dei legami e rapporti di forza fra classi sociali. All’Ex OPG c’è infatti anche il quartier generale degli studenti delle scuole superiori e degli universitari, che organizzano attività in città e nelle diverse aule occupate in Scuole e atenei. Ci sono le attività della Rete di Solidarietà Popolare, che è un organismo di lotta alla povertà aperto a singoli ed associazioni laiche e cristiane, che distribuisce abiti e pasti ai senza tetto, e che è giunto a occupare, nel febbraio scorso, la Chiesa di Sant’Antonio a Tarsia a Montesanto per dare riparo a una quarantina di senzatetto, alcuni dei quali ora sono reinseriti nella società. I nostri militanti sono poi fondatori del Movimento Migranti e Rifugiati, il più grosso movimento di immigrati che la storia della nostra città ricordi, che è riuscito ad ottenere in soli tre anni migliaia di permessi di soggiorno, chiusura di Centri di Accoglienza Straordinaria non a norma, miglioramento delle condizioni di vita concrete dei rifugiati. Ancora, c’è la Camera Popolare del Lavoro che ha sviluppato una campagna contro il lavoro nero, distribuendo un manualetto di difesa legale, raccogliendo denunce, sanzionando attività che sfruttano i lavoratori, recuperando, grazie allo sportello legale, ben 45.000 euro che non erano stati versati ai dipendenti dai padroncini della ristorazione e facendo pressione sull’Ispettorato del lavoro che ha finalmente effettuato controlli e stabilizzato tanti giovani.

In ultimo, è dalle mura dell’Ex OPG che è nata l’idea di lanciare un progetto politico nazionale come quello di Potere al Popolo, un movimento ascrivibile al campo della sinistra radicale ma che sta provando a innovarne analisi, forme e modi. Al punto che nel giro di pochi mesi, nonostante la piccola rilevanza elettorale e la totale assenza di mezzi economici, il movimento è riuscito ad aggregare circa 9000 persone, ad occupare uno spazio mediatico significativo, ad avere circa 50 assemblee stabili in tutta Italia e ad aprire una ventina di Case del Popolo da Nord a Sud, dove si svolgono attività mutualistiche e di sostegno alle lotte.

Questo passaggio politico si è reso necessario sia perché le mobilitazioni sui bisogni hanno una loro dinamica temporale e spaziale che le limita, mentre è necessario consolidare la partecipazione e una visione del mondo alternativa, perché c’è urgenza di costruire in Italia un “terzo campo” di lettura e pratiche alternativo al liberismo europeista del centrosinistra e al liberismo nazionalista di Lega e 5 Stelle. Il tema delle migrazioni e l’impegno su questo punto è per noi decisivo anche perché emblematico. Da un lato assistiamo alla barbarie di chi brandisce i migranti come un nemico per separarli dagli italiani e dividere così la classe al suo interno (oltre a compensare nell’immaginario con un po’ di riconoscimento a buon mercato le sofferenze che gli italiani patiscono e su cui il governo non vuole intervenire). Da un altro lato assistiamo però a uno stucchevole umanitarismo del PD che quei migranti li ha perseguiti quando Minniti faceva accordi con la Libia e quando con il suo decreto apriva la strada a Salvini. Noi invece pensiamo che i migranti siano innanzitutto fratelli e sorelle di classe, che emigrano da paesi economicamente colonizzati e politicamente destabilizzati anche da parte del nostro imperialismo, e che vadano certo accolti e integrati, magari secondo il modello Riace, ma soprattutto vadano riconosciuti non astrattamente come “povere vittime”, ma come soggetti dotati di storia e diritti, e che si trovano nella nostra medesima condizione sociale, quella di essere venditori di forza-lavoro.

 

Come si potrebbe definire l’attività dell’OPG rispetto alla città, alle sue contraddizioni e alla sua storia culturale?

 

Chiaramente l’attività dell’Ex OPG rispetto alla città è innanzitutto di carattere sociale e politico. Ma questo carattere va inteso in senso ampio, ossia anche “pedagogico” per dirla alla Gramsci, e comunicativo. Crediamo che sia necessario, oltre al fare le cose, saperle raccontare, renderle elemento di riflessione. Per questo produciamo manualetti di autodifesa per migranti e lavoratori e opuscoli per spiegare come si fa intervento sociale (a breve uscirà un libro sul mutualismo che abbiamo scritto per la Rosa Luxemburg Stiftung), per questo gli anni scorsi abbiamo scritto un libro di inchiesta sulle classi sociali in Italia[3] e un altro sul rapporto fra movimenti e democrazia[4]. Ma è soprattutto sui social che cerchiamo di costruire una diversa immagine della città, delle sue contraddizioni, che proviamo a guardare “dalla parte del torto”, di cosa vuol dire fare politica, cercando di introdurre le persone ai problemi della vita militante e renderli consapevoli di ogni passaggio che facciamo. Sui social raccontiamo la quotidianità dell’Ex OPG, di Materdei e delle persone come noi che si affannano a trovare un lavoro o a finire gli studi, proviamo a recuperare il patrimonio di analisi e di storie del socialismo, proviamo infine a creare un nuovo immaginario.

In particolare per noi è importante connettere “alto” e “basso”. La storia sociale e culturale di Napoli ci sembra infatti perlopiù caratterizzata da una rigida distinzione fra una cultura di dimensione nazionale o internazionale, per quanto variegata al suo interno, e una vera e propria sottocultura prodotta a uso e consumo della “plebe” o del proletariato metropolitano. Questo fa sì che non solo socialmente, ma anche nei riferimenti simbolici e negli orizzonti di vita, si tendano a creare due città: una “italiana” – che poi sia “normale” o “alternativa” poco importa –, e un’altra “napulegna”, “tamarra”. Ciò che ricompatta queste due città è per lo più la tradizione (soprattutto quella culinaria), la squadra di calcio, le foto patinate del mare e del Vesuvio. Sia chiaro, in queste cose in sé non c’è nulla di male, ma questa mancata dialettica crea una situazione senza evoluzione, che appare eterna e immutabile e dunque disperante, che calcifica le distinzioni sociali e da un lato impedisce all’immaginario popolare di rinnovarsi, aprirsi e di elaborare una sua lingua, da un altro lato crea curiosi fenomeni di “etnicizzazione” interna, con membri dei quartieri “alti” che fanno esperienza del pittoresco alla Sanità, a Forcella o a Scampia.

Tutto questo ha un’ulteriore conseguenza su come il napoletano tende a percepire sé stesso: se appartiene alla città “italiana” si vedrà come “arretrato” rispetto a uno sviluppo nazionale ed europeo, anelerà a partire verso il Nord, vedrà i suoi nemici negli altri napoletani che non vogliono migliorarsi, che sono potenzialmente tutti criminali o almeno complici. Se invece appartiene alla città “brutta, sporca e cattiva”, vivrà per lo più concentrato sul suo ambito, cercando di emergere secondo i criteri di quel contesto, ostenterà un orgoglio di appartenenza che è quanto più violento quanto più è disperato, consapevole in un certo qual modo della propria posizione marginale. Certo, questo schema di lungo periodo rappresenta una semplificazione, esiste pure una “città intermedia”, fatta di strati sociali e forme antropologiche diversi da questi due idealtipi, ma la sua minore consistenza fa sì che venga volta per volta attirata da uno o l’altro dei due poli. Così nei decenni si è costruita una complessiva mentalità da sudditi, una rappresentazione di sé stessi come soggetti che hanno bisogno di una guida, di una forza in qualche modo esterna alle loro insufficienze, che necessitano di aiuto e di salvezza, che non sono mai stati capaci di produrre qualcosa di significativo. Questa mentalità, assolutamente detestabile, si mantiene anche per via della sua potenza auto-assolutoria: finché la colpa è degli altri (degli altri napoletani, dello Stato Italiano, della “natura”), sono esentato dal dover fare qualcosa e posso sentirmi innocente. D’altra parte la visione che apparentemente sembra contrapporsi a questo sentimento di inferiorità, e che si è diffusa sempre di più negli ultimi anni, non fa altro che confermarlo, perché, attardandosi a vantare come grandi successi di Napoli i Borboni, la pizza, il bidet e la prima linea ferroviaria d’Italia, non fa che porsi in una posizione di risentimento e di semplice compensazione sul piano dell’immaginario dell’impotenza reale.

Fortunatamente ci sono nella storia di Napoli anche molte esperienze sociali, culturali, musicali, letterarie che vanno in un’altra direzione, che hanno lavorato alla commistione fra alto e basso, che hanno cercato di liberare energie popolari dal loro localismo dandogli dignità e respiro internazionale, che hanno provato a delineare una via d’uscita che non può che passare in primis per l’analisi critica di sé stessi. Il lavoro culturale che proviamo a fare all’Ex OPG mira a recuperare questa storia “rivoluzionaria” della città, quei momenti in cui Napoli ha saputo mettersi in contatto con i punti alti di sviluppo della storia mondiale e produrre qualcosa di innovativo (penso all’arte e alla filosofia, a fenomeni politici come la Rivoluzione del 1799 e la nascita del movimento socialista, alla vitalità degli anni ’70). Non si tratta di episodi isolati, ma di un flusso carsico che accompagna da sempre la vita della città; è una storia che molti non conoscono proprio per via di quella mentalità e di quella rassegnazione che accompagna, in forme diverse, il napoletano. Ma è una storia che, se diffusa, ci permetterebbe di gettare uno sguardo nuovo su noi stessi, di aprire un diverso immaginario, in cui sia possibile essere napoletani senza che gli stereotipi e i contro-stereotipi ci paralizzino.

Ma, nel nostro tentativo di fare connessione fra “alto” e “basso”, c’è un altro processo che va considerato: quello della crisi. Certo l’avanzare della crisi gioca molto negativamente. Livellando verso il basso le condizioni di vita di interi strati sociali, spinge a una maggiore competizione intorno ai pochi posti di lavoro disponibili, e dunque a un maggiore sfruttamento per chi riesce a entrare nel mercato del lavoro. Questo vuol dire che meno persone hanno tempo e serenità da dedicare alla militanza, meno persone hanno soldi da spendere per la politica, la cultura etc. Inoltre, questo processo spinge all’emigrazione la parte più vitale della città, che sia quella istruita, che prova per lo più a entrare al Nord o all’estero in lavori di tipo impiegatizio, o quella proletaria, che emigra per fornire manodopera a bassa specializzazione. Parliamo di oltre 463.000 persone emigrate dalla Campania fra il 1997 e il 2017, e di circa 6.500 giovani fra i 18 e i 30 se ci atteniamo al solo periodo 2008-2017 e al ristretto comune di Napoli. Si tratta di una vera e propria emorragia di forze vive, quelle che sono più portate al confronto e al cambiamento, quelle che hanno maggiormente da dare perché sono più sintonizzate con il proprio tempo. Si tratta chiaramente di qualcosa di disastroso anche per quanto riguarda la militanza politica – dopo la scuola superiore o l’università decine di persone che abbiamo formato sin da adolescenti sono partite, determinando una perdita dei quadri dirigenti delle attività sociali che non è facile rimpiazzare subito. Ovviamente questa emigrazione che investe anche soggetti altamente formati penalizza lo sviluppo culturale e artistico.

Da un altro punto di vista, questo livellamento verso il basso dovuto alla crisi fa anche sì che strati sociali che prima potevano aspirare a un buon posto di lavoro, che gli avrebbe concesso di condurre la propria esistenza lontani dai quartieri e dalla vita del popolo, ora si vedono precipitare in una situazione, se non di indigenza, di dura fatica. Si moltiplicano così le figure di studenti/lavoratori, di figli della piccola e media borghesia che si confrontano con la realtà del lavoro magari nel settore della ristorazione e del turismo, e che maturano in alcuni casi molta rabbia nei confronti della situazione, del loro datore di lavoro, delle istituzioni etc. Quasi mai questa rabbia diventa produttiva, spesso si trasforma rapidamente in disillusione e nuovi tentativi di emigrazione, come storicamente accade al Sud. Ma certo si moltiplicano le possibilità di incontro fra strati sociali altamente scolarizzati e strati popolari: quando questo accade si creano degli effetti interessanti, sia politici che sociali e culturali. Questo non solo determina il fatto che Napoli non appaia come una città depressa, ma ci sia un fermento, qualcosa che, anche se del tutto autorganizzato, si sviluppa nella forma di associazioni, movimenti etc. Ma soprattutto determina la creazione di una forma di intellettualità nuova rispetto alla separazione classica fra intellettuali/plebe: un’eccedenza di soggetti formati che non trovano posto nella società così com’è, che non riescono ad essere assorbiti come nel passato dall’apparato pubblico e che sono alla lettera “spostati”, accomunati anche nelle condizioni materiali, e non più solo nelle tradizioni o nell’afflato, agli strati popolari.

 

Puoi dire qualcosa sulle attività più culturali (il teatro, etc.?)

 

All’Ex OPG dedichiamo molta attenzione al discorso culturale, dalla musica, al cinema, passando per un atelier artistico fino appunto al teatro, che ha un gruppo molto attivo, che da quattro anni scrive e produce spettacoli suoi. La nostra idea – non particolarmente originale ma che oggi in Italia suona quasi come un’eresia – è che l’arte e la cultura non debbano essere semplice intrattenimento, prodotti pensati per una vendita commerciale, e nemmeno un semplice rispecchiamento della realtà così com’è. Purtroppo negli anni quest’idea di produrre una cultura diversa si è persa, anche nei centri sociali italiani, che hanno smesso di esportare verso l’esterno il loro immaginario e la loro capacità corrosiva e hanno invece cominciato ad assorbire le forme dell’ideologia dominante, anche perché più redditizie ai fini dell’autofinanziamento e del coinvolgimento immediato delle persone. Per noi invece l’arte, la cultura, la musica devono essere strumenti di miglioramento individuale, di allargamento della propria sfera intellettuale, comprensione della realtà in vista della sua trasformazione. Attenzione: non intendiamo con questo che l’arte debba essere militante come se si trattasse di mettere in musica un volantino o di sceneggiare un’opera neorealista. Intendiamo piuttosto quello che ci ha insegnato ad esempio il primo Pino Daniele, a cui non a caso abbiamo intitolato l’Ex OPG: la capacità di fare un’arte popolare, cioè un’arte che parli delle cose del popolo, che interessi il popolo, che gli metta di fronte la sua esperienza e le sue situazioni, ma facendogliele apparire criticamente, mettendosi un passettino avanti al popolo. Senza fuggirne via nell’élite, né assecondare quello che già esiste. Un’arte che su tutti i terreni sappia fare ricerca, non dire cose banali, essere utile allo sviluppo delle nostre potenzialità oggi mortificate, sia nel corpo che nella mente. Perché come sosteneva Breton, cambiamento della realtà sociale e cambiamento della realtà individuale devono sempre essere connessi: “Trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto Rimbaud. Queste due parole d’ordine sono per noi una sola”.

 

Che giudizio dai dell’esperienza amministrativa di De Magistris? Come la valuti in rapporto all’attuale contesto nazionale? Che rapporto avete con la Giunta?

 

Queste domande richiederebbero davvero un corposo approfondimento. Proverò a rispondere sinteticamente: diamo un giudizio complessivamente positivo dell’esperienza amministrativa di De Magistris in questi 8 anni, persino molto positivo se paragonata alle precedenti amministrazioni del centrosinistra e all’attuale governo delle città italiane. Non ci riferiamo solo al fatto che, mentre nelle altre città i sindaci in questi anni hanno proceduto agli sgomberi, a Napoli le esperienze di riappropriazione dei beni comuni sono state appoggiate e rese per certi aspetti anche un modello. Ci riferiamo soprattutto ad elementi positivi per le classi popolari come la lontananza dell’amministrazione da elementi criminali e speculazioni affaristiche, che a Napoli non è cosa scontata, la pubblicizzazione dell’acqua in seguito al referendum del 2011, la lotta contro i meccanismi assassini del debito, l’opposizione alle privatizzazioni, altrove dilagate, qualche avanzamento per Scampia e per la Sanità, una capacità di ascolto dell’amministrazione di tante associazioni e realtà sociali, e una serie di prese di posizione politiche che nell’Italia di oggi appaiono come un faro di umanità.

Detto questo, bisogna ammettere che l’esperienza amministrativa è stata anche limitata e contraddittoria. Limitata: perché, se da un lato è vero che si è svolta in un’epoca di crisi senza precedenti per il Mezzogiorno, in cui abbiamo assistito a una desertificazione industriale, al taglio dei servizi e della sanità, a un impoverimento diffuso, è anche vero che le poche risorse disponibili non sono state gestite al meglio o indirizzate verso i luoghi di maggiore necessità. Ha prevalso una logica da spot incentrata sulla parte turistica, c’è stato poco lavoro per recuperare fondi europei, non si sono chiamati i cittadini a una partecipazione reale e continuativa che permettesse di aggirare la crisi, c’è stato poco rinnovamento e formazione del personale dedito all’amministrazione a tutti i livelli. Contraddittoria: perché spesso abbiamo assistito alla coesistenza di elementi avanzati (soprattutto nella proposta, nelle delibera, nello slancio dello stesso sindaco), con elementi arretrati, come certi consiglieri municipali o comunali e assessori che si potrebbero altrettanto trovare in una compagine di centrosinistra o persino di centrodestra. Così che l’azione di governo è risultata a volte ondivaga, tenuta insieme solo dalla figura carismatica del sindaco. Nello specifico, il peggior difetto politico dell’amministrazione resta quello di non essere riuscita, in ben 8 anni, a costruire un progetto politico serio e stabile, andando un po’ avanti di improvvisazione in improvvisazione, alternando slogan rivoluzionari a prosaici compromessi.

Data quest’analisi, il rapporto che da quasi quattro anni abbiamo con la Giunta è certamente di confronto, in particolare con il Sindaco, il che non esclude l’interlocuzione critica e a volte anche il conflitto con pezzi dell’amministrazione che trascurano i bisogni popolari. Pensiamo che questo sia il nostro compito in questo dato contesto: saper valorizzare gli elementi positivi in quella compagine e far arretrare i negativi, spingere le parti migliori della città a prendere il controllo di quel progetto, dove possibile collaborare materialmente su delibere e interventi, dare indicazioni e condividere saperi. Perché quello che per noi sta al centro è il benessere delle classi popolari napoletane e lo sviluppo della loro capacità di governo.

 

Note: 

[1] Su questo caso cfr. il lavoro di ricerca di G. Aragno, Giuseppe De Crecchio, direttore fascista dell’OPG di Napoli, pubblicato il 23 febbraio 2016 su: https://giuseppearagno.wordpress.com/2016/02/23/giuseppe-de-crecchio-direttore-fascista-dellopg-di-napoli/

[2] Cfr. F. Maranta, a cura di, Vito il recluso, Sensibili alle Foglie, Dogliani 2005, liberamente scaricabile qui: https://digilander.libero.it/rivista.criminale/e-book/ottobre/libro_maranta.pdf

[3] Cfr. Dove sono i nostri, La Casa Uscher, Firenze 2014.

[4] Cfr. E ora… potere al popolo!, Mooks, Napoli 2018.