Effe. La faglia umana – di Alberto Zino

Effe. La faglia umana – di Alberto Zino

27 Gennaio 2020 Off di Francesco Biagi

di Alberto Zino

 

Il potere capitalista, questo potere singolare di cui vi prego

di valutare la novità, ha bisogno di una guerra ogni vent’anni[1].

 

 

  1. Non si vede.

 

«Il 1° maggio 1889 divenni il medico di una signora di quarant’anni circa, le cui sofferenze e la cui personalità m’ispirarono tanto interesse da dedicarle gran parte del mio tempo, e da assumermi l’impegno di guarirla. […] Trovo una donna di aspetto ancora giovanile, sdraiata sul divano, la testa appoggiata su un cuscino di cuoio. […] Ciò che dice è del tutto coerente e dimostra chiaramente cultura e intelligenza non comuni. Tanto più sorprende il fatto che ogni pochi minuti essa tronchi repentinamente il discorso, contraendo il volto in un’espressione di orrore e di ripugnanza, e tenda verso di me la mano, stendendo e contraendo le dita, mentre con voce cambiata e angosciata esclama: “Stia zitto! non parli! non mi tocchi!” Essa verosimilmente si trova sotto l’impressione di un’allucinazione terrificante ricorrente e si difende con questa formula contro l’intromettersi di materiale estraneo[2]».

 

«Il dottore parlava, come i suoi colleghi, produceva sapere e toccava, oh sì, la mano sulla fronte, ultimo gesto tra corpi prima che il transfert assumesse tutta la sua essenza di voce. Sorprende che l’uomo Freud, colpito dall’esclamazione [“Stia zitto! non parli! non mi tocchi!”], non aggredisca, non rimproveri, non si suicidi, non la uccida. Sente che c’è qualcosa, entra nel silenzio, sposta la sua sedia, si mette un poco più in là. Nella momentanea penombra di un vero»[3].

 

Psicanalisi, nata di donna, come tutti noi. E tutte le parole del mondo.

 

Da quel momento in poi, i due non si vedono. Chissà, forse è per questo che l’inconscio non si vede.

Si dice, ma non si vede. Non c’è osservazione che tenga.

 

«Gioco di occhi che diviene gioco di orecchie, sguardo che diventa parola, senza rinunciarvi. Tralascio quel che si perde, in quella che nonostante ciò si vuole chiamare ancora analisi, a stare di fronte. Ripristinando l’antico dominio, di una parola rivolta a un ente visibile e di uno sguardo clinico; rinunciando al divano e alla sua forma astrusa, svanisce la carezza e la resistenza del suo velluto; e la stoffa di cui è fatto un sintomo, come un umano, si sa, sono parole»[4].

Freud «sente che qualcosa in colei che gli chiede di svanire, di divenire orecchio, non ha ancora avuto luogo. Avere luogo? Verbo terribile, chiama un impossessamento, che, parlando di donne, non è fuori luogo. Cosa intendiamo con luogo, se non è un possedimento? Che significa da noi abitare in un divano?»[5].

 

E perché l’inconscio è sociale? Come fa ad esserlo, messo lì tra due che non socializzano più di tanto, neppure si guardano? Tantomeno lo psicanalista, che proprio non è osservabile. Bel tipo, in effetti. Non si vede, non si tocca, se parla lo fa sempre per bocca di qualcun altro, non fa terapie né massaggi, non paga le sedute, devi farlo sempre tu, non prende farmaci e alla fine per qualsiasi cosa dà sempre la colpa a te.

 

  1. I normalmente nevrotici.

 

Le parole esistono perché non si vedono. Se si fossero viste, forse non sarebbero mai esistite.

«Il linguaggio non è fatto per assumere la forma del visibile»[6].

In analisi occorre chiedersi: in che modo nel soggetto la parola colma questo informe, questo non del visibile? Dovrebbe essere inevitabile domandarselo. Una persona sta sdraiata sul divano per molto tempo, ha dalla sua soltanto la parola. In mancanza dello sguardo, del visibile, dell’oggettivo.

Bisogna precisare che tale non del visibile, per cui oggi noi ci siamo trattenuti per il tempo del nostro incontro, non è affatto un’assenza. Se il non del visibile, la sua mancanza, la sua nostalgia, il suo desiderio diventa tout court un’assenza reale o totale, ci troveremmo d’impatto nel campo delle psicosi.

Non vi sarebbe gioco, non si dà più gioco di non, soltanto un enorme si o un ancora più immenso no. Per questo la psicanalisi non è fatta per le psicosi. Nonostante che analisti di alto rango vi abbiano dedicato vita e ricerca, come Jean Oury o Gisela Pankow. Il movimento lacaniano ha fornito una linfa straordinaria al trattamento psicanalitico delle psicosi o dell’autismo; giustamente nel segno di una tecnica del trattamento a volte modificata nel profondo, esigenza che da sé fa ben vedere la difficoltà dell’impresa.

La psicanalisi che Freud ha in mente riguarda quasi del tutto coloro che lui chiama i “normalmente nevrotici”.

In quello che Lacan rinomina come «discorso psicotico», è come se non vi fosse molta possibilità di gioco. Di questo non, che è territorio instabile tra il si e il no. Non vi è gioco del manque, della mancanza. La cosa, per esempio, è al cento per cento esistente o al cento per cento assente. Detto per ora in maniera un po’ grossolana.

Nel nostro mondo di normali nevrotici, quel cento per cento non esiste, se non come fantasma. Quindi nelle analisi che conduciamo non si tratta mai di una presenza o assenza totale, è in questione sempre una mancanza in forma di parole. Da noi la mancanza si dà sempre e il soggetto si sforza di metterla sempre in forma di parole. L’analisi talvolta ha il compito di aiutarlo, in queste costruzioni.

 

  1. La fluttuante.

 

«In fondo, vi sconsiglio di venire ad ascoltarmi la prossima volta»[7].

 

Dunque, l’inconscio non si vede.

Freud, Introduzione alla psicanalisi, lezioni pronunciate all’Università di Vienna, davanti a qualche decina di studenti di psichiatria. L’esordio della prima è folgorante. «Comincerò con le difficoltà dell’insegnamento, dell’addestramento nella psicoanalisi. Nell’insegnamento della medicina siete stati abituati a vedere»[8]. Qui, in psicanalisi, si tratta di tutt’altro. «Purtroppo tutto va diversamente nella psicoanalisi. Nel trattamento analitico non si procede a nient’altro che a uno scambio di parole»[9].

Non avrete niente da vedere, qui si tratta di ascoltare. Sarebbe sufficiente questo incipit a chiarire una volta per tutte, già nel 1915, l’assoluta non pertinenza, non appartenenza della psicanalisi alla medicina, dunque alla psichiatria o alla psicoterapia, spesso sua devota seguace. Se non è questione di poter vedere, molti dei parametri usuali nelle cure non sono utilizzabili.

 

Freud non vuole essere fissato. Non è solo faccenda di idiosincrasie personali. C’è un motivo. «Dato che mi abbandono io stesso, mentre ascolto, al flusso dei miei pensieri inconsci, non desidero che l’espressione del mio volto offra al paziente materiale per interpretazioni o lo influenzi nelle sue comunicazioni»[10].

Ma come? Uno scandalo. Lo psicanalista, medico, psicologo, psicoterapeuta, scienziato, neutrale, pensa profondamente ai casi suoi. Durante le sedute? Cosa vuol dire secondo voi «seguire il flusso dei miei pensieri inconsci»? Non solo. È noto come in altri passaggi Freud richiami quella cosa straordinaria, mai vista prima in alcuna forma di terapia, che si chiama associazione libera. La chiede anche all’analista. Forse, nel nostro campo, non è stato ancora capito. La nomina «attenzione fluttuante».

Un analista può ascoltare non contro i propri pensieri, ma grazie ai propri pensieri.

La fluttuante. Forse è meglio non dirlo all’analizzante, chissà che idee potrebbe farsi. Ma di questo si tratta. Dato che mi abbandono alla corrente, allo streaming dei miei pensieri inconsci – che dunque non sono i miei -, non ho voglia che l’altro venga influenzato dal mio volto, dalle mie espressioni, da quel che vi scorge e soprattutto da quel che non vi vede.

Forzatamente, pensa Freud, indirizzeranno il materiale della seduta in una direzione piuttosto che in un’altra. Niente di male. Resta che l’analizzante è lasciato più solo possibile, con l’artificio del divano e di una sedia posta “in modo che non possa vederci”. Tecnicamente, analiticamente, eticamente solo.

La maggior parte degli umani tuttavia non sono così contenti del divano. Non lo apprezzano all’inizio, spesso lo temono. Hanno paura che si tratterà di un dir-vano, per riprendere il gioco di parole di Lacan, se il viso è assente. Lo sappiamo dalla vita, dai poeti, da Levinas, amico fraterno di Blanchot e Derrida, che ci introduce al tema dell’autrui, il volto dell’altro. Per noi umani, fare a meno di quel riferimento è una situazione straniante.

 

  1. Un sapere senza oggetto.

 

La psicanalisi, se è davvero critica, è un sapere senza oggetto.

La politica, se è davvero sociale e non mera amministrazione, è un sapere senza oggetto.

Il senza-oggetto non dice che l’oggetto non c’è. Al contrario, gli umani sono talmente pieni di oggetti proprio perché l’oggetto non esiste. Potrebbe essere una grande risorsa – chiedere ai poeti, direbbe Freud. Ma, non tollerando, gli umani cercano di ridurre l’oggetto a merce.

 

Le cose più dolorose per l’uomo sono quelle che dovrebbero essere le più naturali: la relazione con l’altro, l’amore, lo stare al mondo, le parole e i corpi. Si pone domanda critica su quanto di socio-economico-culturale abbia prodotto condizioni di estraneità, talvolta di vero e proprio scollamento mentale, tra l’uomo e il suo esistere. Così apparirebbe con sufficiente chiarezza la spinta data a tale disorientamento, in favore di un domandare socialmente atrofizzato, di esseri ridotti a merce, «cose tra cose»[11], umani spaventati dal solo fatto di avere un pensiero o un corpo.

È per tale bisogno di far merce di sé che il capitalismo attuale o neoliberismo – curioso che il dominante non riesca più a contenersi nell’identità con il capitale ma aneli a qualcosa che nomina la libertà – fa e può fare ciò che sta facendo.

Tutto diviene realtà. Cose, sentimenti, parole. Visibili, sempre. Su cellulari, web, tablet, computer.   Forse la signora viennese non avrebbe approvato.

Curioso che sia in in evitabile voga la parola “schermi”. L’infinita saggezza delle parole – cuore di Inc[12] – non tradisce, sa cosa dire e come. Noi non ce ne accorgiamo, ci basta l’illusione che anche le parole – viste, costantemente viste – siano, come tutto, dei prodotti. A quando la compravendita delle parole, un tanto all’etto, all’atto?

Ma Inc resta sociale.

 

L’umano è quell’animale che si pone lo strano problema della realtà, cosa che nessun altro vivente fa. Se per noi la realtà fosse così naturale, perché dovremmo chiederne il senso? Passerebbe come passano le cose in natura. Senza domande. L’aria passa e non fa domande, così il vento e il mattino la pioggia. Anche gli alci e le betulle, tutti passano sulla terra senza lasciare orma di domanda.

Invece, la donna e l’uomo sono gli unici che non possono non domandare. Non possono non porsi la questione di loro stessi. L’umano, se possedesse una volta per tutte un oggetto, non domanderebbe.  Egli è uomo proprio perché è senza-oggetto. Quindi domanda. Non all’alce o alla betulla, ma all’altro, quello che – quando la lingua è in vena di umorismo – si chiama “il simile”. E questa è la politica.

Non reperendo nella realtà questo ‘altro’, ne è pieno. Lo pensa, lo ama, lo delira. Il senza-oggetto vive in un mondo scandito dall’infinita possibilità degli oggetti, senza che mai nessuno lo diventi per sempre. Ne deriva la considerazione, un po’ paradossale, che ogni umano, essendo in rapporto all’oggetto il senza-oggetto e in rapporto al domandare il senza-riposo, non può che domandare senza fine un oggetto senza fine. Essenziale per gli amori. E per la politica.

 

Qui si innesta – ogni volta, di colpo – la socialità, la socievolezza, il socius dell’inconscio, il suo strutturale, ineludibile essere-in-comune. Inc è il politico. Lo sarebbe nella sua essenza, se ne avesse una.

L’umano, nel tentativo di fare economia di se stesso, si affida alla parola, al linguaggio come lavoro del concetto, erezione di sistemi, per distruggere ciò che ha di più proprio. La cosa migliore sarebbe togliere di mezzo anche le parole. C’è di meglio cui delegare. I cosiddetti fatti, segni che provengono da una difesa e confluiscono in un ordine, durano quindi il tempo di una domanda di fondamento.

Penoso è rendersi conto che gli umani si accorgono della follia – dell’assoluta falsità del loro bisogno di credere, di un padrone, di qualcuno che tolga la fatica del pensiero e del desiderio: le uniche due cose per cui vale la pena essere dove siamo -, eppure si ostinano nella sua difesa.

 

  1. “L’inconscio è la politica”.

 

Nelle pagine iniziali di Necessità della psicanalisi, introduco la questione tra politica e psicanalisi con Lacan:

 

«[…] quando saremo tornati a una piena percezione di ciò che Freud ci ha svelato, si dirà – non dico nemmeno “la politica è l’inconscio” – ma semplicemente: l’inconscio è la politica![13].

 

Se l’inconscio è il “legame sociale” e dunque la politica, psicanalisi, che dovrebbe stare in ascolto di quel legame, non può che essere in questa alleanza.

Deve riprendere il suo ruolo guida, rifare e riaprire strade. Certo più rischiose, ma decisamente più appassionanti di ogni nuovo asservimento a un ordine restaurativo.

La pesante e inaccettabile ideologia,

per noi psicanalisti,

di questo lavoro riesumante

poggia la sua promessa e il suo

discorso di convincimento

sull’agitazione dello spettro dissolutorio

della funzione paterna che latita

e va porante su scala sociale.

 

Singolare come questo ordine economico e autoritario prima provochi lacerazioni nelle varie forme di vita sociale e privata

(a piacere, si va dalle nevrosi e alienazioni gravi della persona, violenze crescenti sulle donne, perdita del lavoro, persecuzioni dei migranti e dei rifugiati, impoverimento dell’istruzione e delle strutture sanitarie, un’educazione sentimentale sempre più deserta, la progressiva depressione e svuotamento di parole come ‘solidarietà’ o ‘comunità’, fino agli autobus che non passano mai),

poi imponga la soluzione finale del ritorno di sovranismi e ducetti fascisti, che sistemeranno le cose.

Invece di spaventarsi per la dissoluzione dei limiti e dei legami – temuta dagli psicanalisti nostalgici dell’autorità paterna e del discorso del padrone, spesso complici nel loro accomodarsi nella sottomissione a rassicuranti derive psicologistiche – potrebbe,

lei, psicanalisi, ascoltare i differenti solvere che differenza comporta?

 

Avvezza come dovrebbe essere

al rischio di procedere per frammenti e per domande

che non cercano risposte

(insopportabile per psicoterapie asservite al restauro),

formata e formante all’abisso,

al fondo senza fondo,

alla dis-soluzione che inventa,

in una parola all’inconscio e alla sua questione,

non dovrebbe, lei, psicanalisi, favorire le condizioni per la com-parizione di ulteriori inscenamenti del discorso tra i soggetti? Invece di partecipare alle attuali gravi forme di servitù, non dovrebbe ascoltare e rilanciare quella stessa dissoluzione,

che segni lo stile di un lavoro mai finito,

non terminabile in forme autoritarie di consolazione, e produca inattese politiche di comunità inconfessabili?[14]».

 

  1. Destruktiontrieb.

 

Se l’inconscio è la politica vuol dire che non può accordarsi con la riduzione di quest’ultima a un’igiene mentale collettiva, centrata sulla promessa che in tal modo gli umani avranno meno problemi, non disturberanno gli altri e non ne saranno più turbati. Potranno finalmente dedicarsi agli acquisti in santa pace. Tuttavia, alla lunga, la faglia umana, ingozzata di prodotti, sarà sempre più depressa, colma fino al soffocamento, e risorgerà «agli occhi di tutti come una verità furiosa che vorrà vendicarsi…»[15].

Freud sostiene che Todestrieb (pulsione di morte) agisce in silenzio. Mentre il lavoro di Eros (pulsione di vita) ha bisogno del rumore, la scena, il discorso, il sociale, il politico. Così esso costruisce principalmente nessi, insiemi, legami.

Eros sta dalla parte del nesso, è il suo motore. Thanatos è la dissoluzione del nesso, la sua messa in questione. Uno lega, l’altra slega.

Il gioco legame-dislegame regge la vita dei parlanti che noi siamo. Ambedue gli attori sono necessari, per noi. Anche per questo la questione o domanda dell’inconscio non può che essere la politica.

Ma spesso l’umano si arrende al suo bisogno-desiderio di essere l’artefice del gioco e non tollera di non poter dominare la copresenza dei due. Principalmente vuol essere il padrone dei legami e non tollera Thanatos. Non vuole sapere che la sua vita e la sua parola vive della coappartenenza di Eros e Thanatos. Uno lega, l’altra slega.

La pulsione di morte non ha proprio nulla di distruttivo, è il dis- di ogni legame, la spinta che gli impedisce di stabilirsi una volta per tutte.

Non volendo sapere di tale gioco, che non può padroneggiare più di tanto, l’umano si lascia andare più o meno furiosamente a quella che Freud chiama Destruktiontrieb, pulsione di distruzione. Questa non è altro che il non voler sapere della pulsione di morte, del dislegame, del dissolvimento del nesso.

 

  1. Effe.

 

Tra vedere e parlare non c’è un rapporto ma un non-rapporto[16].

 

Il non del legame, della relazione, è una sorta di taglio, condizione eterna di un’opportunità. Niente di mistico, casomai geologico. Uno strano rapporto, un’apertura, territorio esiliante, esiliato, esitante e bucato, instabile e perciò fecondo, forse una faglia.

 

Frattura di masse rocciose accompagnata da spostamento di una delle parti (labbro) lungo il piano di frattura, in modo che terreni originariamente alla stessa quota vengono a trovarsi a diverso livello e terreni diversi per età e caratteristiche litologiche spesso vengono messi a contatto.

 

Eppure c’è eros, qui.

 

Lo spostamento relativo delle masse litoidi può produrre una superficie di taglio lisciata e lucidata (specchio di f.), il più delle volte solcata e striata dall’intenso attrito delle parti che scorrono a diretto contatto ed estesa a volte anche per molti chilometri (f. orografica). Rigetto di f. Spostamento relativo di due parti omologhe (strati o livelli-guida) rispetto al piano di faglia. Le pareti o labbra della f. possono rimanere a contatto (f. chiuse) oppure no (f. beanti).

 

Stupenda effe, come non seguirla?

 

In quest’ultimo caso lo spazio tra le due pareti è spesso riempito da detriti, di forme e dimensioni varie, che costituiscono una fascia di roccia fratturata e brecciata, a volte cementata dall’azione delle acque circolanti e denominata fascia cataclastica, cataclastite o breccia di frizione.

Il piano di f. può essere verticale o inclinato. Nelle f. a piano inclinato la parte rocciosa al di sopra di questo si chiama tetto (a), quella che giace al di sotto letto (b); se lo spostamento ha causato un abbassamento del tetto rispetto al letto si ha la f. diretta o di distensione (fig. 1A), nel caso contrario si ha la f. inversa o di compressione (fig. 1B)[17].

 

Ora, spero che qualcuno tra i lettori voglia dedicare una lieve insistenza all’attento ascolto di questo brano così sensuale, fino eventualmente a illuminare il dramma sentimentale di una cataclastite o la frizione di una breccia.

 

 

Note:

 

[1] «Le pouvoir capitaliste, ce singulier pouvoir dont je vous prie de mesurer la nouveauté, a besoin d’une guerre tous les vingt ans». (J. Lacan, Le séminaire livre XVI, D’un Autre à l’autre, 1968-1969, Seuil, Paris 2006, p. 242); trad. it. Il seminario Libro XVI, Da un Altro all’altro, Einaudi, Torino 2019, p. 238).

[2] S. Freud, Studien über hysterie, in Gesammelte Werke, vol. I, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1972, pp. 99-100; trad. it. Studi sull’isteria, in Opere, vol. I, Boringhieri, Torino 1970, pp. 213-14.

[3] A. Zino, La condizione psicanalitica. Centocinquantasei frammenti, quindici lettere, un biglietto smarrito, Edizioni ETS, Pisa 2012, p. 11.

[4] Ivi, pp. 11-12.

[5] Ivi.

[6] G. Deleuze, Il sapere, Corso su Michel Foucault (1985-1986), ombre corte, Verona 2014, p. 169.

[7] S. Freud, Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse [1915-1917], in Gesammelte Werke, XI, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1969, p. 9; trad. it. Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917), in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976, p. 199.

[8] Ivi; trad. it., p. 200.

[9] Ivi; trad. it., p. 201.

[10] S. Freud, Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi (1913-14), in Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino 1975, p. 343.

[11] Il riferimento è anche a T.W. Adorno, Ästetische Theorie, in Gesammelte Schriften 7, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970, p. 92; trad. it., Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 84). Cfr. A. Zino, Necessità della psicanalisi, cit., p. 128n.

[12] Così lo sigla Freud, a volte.

[13] «[…] si Freud a écrit quelque part que “l’anatomie c’est le destin”, il y a peut-être un moment où, quand on sera revenu à une saine perception de ce que Freud nous a découvert, on dira – je ne dis même pas “la politique c’est l’inconscient” – mais, tout simplement: l’inconscient, c’est la politique!», J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIV. La logique du fantasme, 1966-1967, 10 maggio 1967 (inedito).

[14] Cfr. A. Zino, Necessità della psicanalisi, cit., pp. 20-1.

[15] D. Sibony, L’enjeu d’exister. Analyse des thérapies, Seuil, Paris 2007, p. 88.

[16] G. Deleuze, Il sapere, Corso su Michel Foucault (1985-1986), cit., p. 155. Qui Deleuze cita Foucault che a sua volta riprende Blanchot…

[17] Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/faglia [consultato il 18/I/2020].