Gomorra: un genere cinematografico? – di Mario Pezzella

Gomorra: un genere cinematografico? – di Mario Pezzella

5 Gennaio 2020 Off di Mario Pezzella

di Mario Pezzella

 

Dopo il film capolavoro di Garrone[1] si è creato un vero e proprio genere cinematografico, una inondazione di serie sulla camorra, i boss, i figli dei boss, i vicoli di Napoli. Come tutti i generi anche questo si è solidificato in tipi fissi, figure ricorrenti, ripetizioni di uno schema d’azione. In parte gli stereotipi provengono dai film noir e dai gangster-movies americani, in parte pretendono a un certa originalità, spesso digradante verso il provincialismo della sceneggiata. Così ad esempio il duello, che costituisce un topos necessario del modello americano, non si svolge più in assolate pianure o in megastrade, ponti e tangenziali metropolitane, ma – preferibilmente – nella strettoia dei vicoli dei Quartieri Spagnoli o del Rione Sanità, con un inconfondibile sapore claustrofobico. Sono i luoghi in cui di preferenza si tramano affari, si tendono agguati, si effettuano “stese”, si stabiliscono o si violano i confini e le zone di influenza. I vicoli sono anche anfratti oscuri, in cui ci si addentra con una imminente incombente percezione di pericolo, come nelle foreste dei romanzi di Fenimore Cooper: «Bisogna dare per scontato che questa metamorfosi della Città deriva dalla trasposizione nel suo ambito della savana e della foresta di Fenimore Cooper, dove ogni ramo spezzato significa una inquietudine o una speranza, ogni tronco nasconde il fucile di un nemico o l’arco di un invisibile e silenzioso vendicatore»[2]. I cavalli e le grandi automobili dei film americani sono sostituiti spesso dai motorini e dalle moto, veicolo preferito dei killer. Come quelli si muovono nelle praterie, così i motorini nei vicoli. Questa occlusione oppressiva dello spazio è caratteristica dei film di camorra.

Il boss non è molto diverso da quelli arcinoti del Padrino: da non confondere con l’eroe protagonista, è piuttosto il garante dell’ordine costituito (mentre l’eroe è dalla parte di un potere costituente, che deve affermarsi attraverso prove iniziatiche e trasgressive di violenza e valore). Il boss vorrebbe che tutto rimanesse com’è, è un regolatore e gestore di conflitti, l’amministratore della legge criminale. Il film di camorra prevede invariabilmente che il Capo sia contestato, scalzato, e infine ucciso da un nuovo più efficace e spietato potere. È l’antagonista del più giovane criminale in ascesa o per lo meno il suo avversario iniziale. Se poi l’eroe diviene a sua volta boss, è inevitabile che la stessa dinamica si ripeta a suo danno. Una dark lady è spesso moglie del capo, talvolta capace di raccoglierne l’eredità quando è ammazzato o in galera.

La camorra buona e quella cattiva compaiono come figure polari: in genere quella “buona” appartiene a un “prima” imprecisato, quando non si toccavano le donne e i bambini, si garantiva l’ordine nel quartiere, si pacificavano i conflitti, e la droga era guardata con un certo sospetto. Questi “buoni” camorristi sono destinati a perdere, e più si risale all’indietro nel tempo più sono sempre perdenti, sicchè al di là della costruzione mitica di una decadenza dal buono al cattivo si dovrebbe profilare piuttosto uno sviluppo conseguente dal peggio al pessimo. Ma il “genere” è molto affezionato ai valori di una affiliazione romantica.

Per il resto, i suoi prodotti seguono generalmente il classico montaggio all’americana, con una netta prevalenza dell’azione sulla costruzione dell’inquadratura e una carenza schematica delle psicologie. Il meccanismo mira a indurre nello spettatore un’identificazione indiscriminata e inconsapevole con i protagonisti che compiono le loro gesta e poco importa se essi sono mafiosi, camorristi o gangster di Chicago, o i loro altrettanto guerrieri antagonisti appartenenti alle forze dell’ordine. L’importante non è la qualità del personaggio, ma il fatto che la presenza-ruolo di un eroe sia comunque paradigmatica e strutturale. È proprio l’identificazione con un processo eroico di formazione della coscienza e del Sé ad essere dominante in senso regressivo e onirico sulla psiche dello spettatore, a indurlo a un’estasi immaginaria, a spegnere la sua capacità critica. Nel mondo astratto e impersonale del capitale, l’eroe è la trasfigurazione fantasmatica di una realtà dove in effetti il soggetto è solo maschera e funzione del danaro.

Ciò detto, come in tutti i prodotti di genere, si può innescare il meccanismo e poi produrre uno scarto significante, un’anomalia, un détournement, che introducono nello schema un significato supplementare ed eccentrico. È possibile con un movimento divergente e creativo imporre una cesura all’identificazione e alla costruzione della coscienza eroica, mostrarne il carattere mitico-spettacolare, fino a rovesciarne completamente la direzione schematica e realizzare un film critico-espressivo. È ciò che distingue, per un solo esempio, Vertigo di Hitchcock dagli innumerevoli bmovies incentrati sulla lotta di eroici detectives contro il crimine organizzato. Un buon film di genere è quello che tradisce, in maggiore o minore misura, la ripetizione sempre uguale attesa dallo spettatore passivo, e questo tradimento costituisce il suo valore insieme estetico, etico, politico. Dimensioni tra cui è divenuto usuale stabilire una indifferenza reciproca, che in verità finisce per essere connivenza con le convenzioni e i poteri dominanti dell’industria culturale.

Questa lunga introduzione per parlare di un film che senza dubbio appartiene al genere “gomorra”, ma tuttavia riesce a imprimere ad esso uno scarto significativo. Ciò è tanto più degno di nota, perché il regista ha diretto anche alcuni episodi della serie Gomorra nello stile classico del gangstermovie. Nella Paranza dei bambini di Claudio Giovannesi (2019)[3] l’azione è solo lo sfondo convenzionale di uno scavo psicologico e visivo dei volti e dei gesti, che mostra la tonalità affettiva dominante di un ragazzo all’interno del “sistema”.

Visto in soggettiva, lo strato civile e borghese della città è come separato da un muro di vetro invalicabile da quello della “paranza”, i sistemi di regole e di valori, più che alternativi, sono incomunicanti; le presenze sporadiche dello Stato e delle sue forze dell’ordine sembrano piuttosto strumenti di disturbo, quasi incomprensibili interventi alieni rispetto al mondo in cui si muovono i personaggi. Il fossato tra la plebe e la borghesia di Napoli sembra incolmabile. Tra i ragazzini che in una sequenza del film vendono droga davanti all’Università e gli studenti c’è una distanza antropologica, prima che sociale. Questa separazione è evidente fin dall’inizio del film, quando i ragazzi della paranza in gara con quelli dei Quertieri Spagnoli abbattono e rubano il grande albero di Natale della Galleria Umberto; prodezza infantile e incomprensibile, segno quasi barbarico, per il senso civico della parte borghese della città.

L’impermeabilità dei due mondi –il civile pubblico e quello criminale, la legge sotterranea e quella scritta – era dominante anche negli episodi della serie[4]. Giovannesi parte da questa evidente separazione, però mostra la porosità che sussiste tra i due universi, e che è data dall’economia e dalla fantasmagoria delle merci. In una sequenza, i ragazzi visitano un negozio d’abbigliamento affascinati dai marchi di lusso, che in quel momento non sono in grado di comprare (quando avranno soldi immediatamente torneranno ad acquistare tutto quello a cui avevano dovuto rinunciare). La loro prima impresa criminale è il tentativo fallimentare di rapinare un negozio di orologi di pregio. Il feticismo delle merci è il primo stimolo che li porta a scalare le gerarchie della criminalità organizzata: e non è uno specifico dell’universo camorrista o di Napoli, è il veleno comune con cui questo microcosmo apparentemente chiuso comunica col vasto mondo del consumo globalizzato, con le sue oscillazioni frenetiche, con i suoi stimoli selvaggi e seduttivi. Il fantasma che guida inizialmente le azioni della paranza è la merce, ed è l’unico a superare l’autosufficienza della sfera criminale, a renderla più apparente che reale: ma l’unità dal punto di vista della merce, non esclude la separazione sociale e culturale, ma anzi la ribadisce, perché il linguaggo della merce è universale, ma anche immaginario ed astratto, e tale da impedire qualsiasi forma di riconoscimento personale: «Ciò che avvicina gli spettatori non è che un rapporto irreversibile al centro stesso che mantiene il loro isolamento»[5].

Un’ulteriore intersezione con il mondo borghese-civile è nella sequenza in cui Nicolas porta la sua ragazza a vedere la Traviata al San Carlo; ma anche qui il regista ce li mostra nell’isolamento di un palco, non inquadra mai il pubblico presente, sicchè più che creare un contatto fra i due mondi, ne accentua l’incomunicabilità.

La festa è di per sé un altro momento topico dei film sulla camorra. Può essere di matrimonio (come nella Paranza), di battesimo, di compleanno, etc. È sempre un rituale e un’ostentazione di potenza, conferma lo status ormai inattacabile e riconosciuto a cui è giunta l’autorità del boss, sottolinea la quasi normalità della sua condizione e il suo attaccamento tradizionale ai valori familiari. I camorristi vi sono vestiti in modo occasionalmente elegante e nondimeno volgare e con qualche tratto che rivela l’artiglio sotto il taffetà. La festa ha i suoi pericoli. Può essere l’occasione per un rivale di far fuori il boss e tutta la sua famiglia in un colpo solo, o anche (come in questo film) la polizia può tentare una delle sue estemporanee intrusioni nell’autosufficienza del mondo criminale per fare un retata (i motivi per cui proprio quel clan viene colpito restano imperscrutabili, ma in genere è lecito sospettare un tradimento o una soffiata). Nel film di Giovannesi, la festa di matrimonio rappresenta l’occasione di una svolta per i ragazzi della paranza. Nel ristorante sono ancora camerieri rivestiti di smoking; significativa di questa condizione servile l’inquadratura col boss, gli sposi, e loro dietro in fila ossequiosa. Poi, nel vuoto di potere venutosi a creare in seguito alla retata, iniziano la l’ascesa criminale, il passaggio da schiavi a padroni.

Nel film l’aspetto grandioso della festa viene smentito da una sua replica triste: dopo l’omicidio compiuto da Nicolas, dopo che il rapporto con la sua ragazza è entrato in crisi, i membri della paranza si ritrovano a casa degli Striano, per un intrattenimento a base di coca e prostitute. La sequenza ci fa intuire il disfacimento iniziato nel gruppo. Un’inquadratura d’insieme in campo lungo mostra i corpi abbandonati, depressi e silenziosi; dopo che il cantante neomelodico ha cominciato a cantare, le inquadrature parziali sui personaggi scavano più profondamente nei volti e nel sentimento che sembra dominarli: la noia, improvvisa ricaduta dal mondo d’azione ed esibizione frenetica, in cui pensavano di vivere.

La fratellanza tra i membri della paranza, come in genere tra quelli di un clan, si afferma attraverso riti di iniziazione che includono sfide di spietatezza e di violenza, che cementano l’isolamento e la superiorità del gruppo. Le “stese” in quartieri dominati da gruppi rivali sono una di queste prove. Dell’iniziazione può far parte una visita al cimitero delle Fontanelle, dove Nicolas sfiora con la mano e si consacra a un teschio chiedendo la protezione dei morti, votando se stesso alla morte. Speculare e inverso alla fratellanza è il tradimento, così come il traditore è una figura essenziale del “genere”. Il traditore spacca una situazione irrigidita, permette l’emergere di un nuovo potere, è l’elemento mobile nella relativa staticità del “sistema”.

La casa del Capo – in questo film vediamo quella degli Striano, boss decaduti e infangati dal pentimento giudiziario – è normalmente un aggregato di lusso sfrenato e kitsch, con immancabili statue di animali feroci, tendaggi barocchi, pesanti e mortuari, sedie-trono e mobili d’epoca di dubbia autenticità.

La sequenza che segna una cesura drammaturgica e psicologica nel film è quella in cui Nicolas si traveste da donna (ma forse meglio sarebbe dire da travestito) per compiere il suo primo omicidio. Fino a quel momento l’ascesa della paranza è avvenuta come un gioco, una continuazione dei videogame (uno dei quali viene regalato al vecchio boss ai domiciliari, che ha fornito le armi al gruppo). Anche la prova del fuoco, sul tetto del palazzo, sparando contro le tonde antenne sky, si confonde coi botti e coi fuochi d’artificio e sembra quasi avere lo stesso significato di esaltazione effimera e senza conseguenze. Le pistole e i mitra, prima di divenire strumenti di crimine, sono oggetti-feticcio, immagini di merce, condensato simbolico di potenza e status: ma col primo omicidio compiuto da Nicolas cambia tutto. È una vera e propria mutazione e inversione di identità: lo vediamo all’inizio della sequenza mentre ritocca le palpebre, incipria le guance e mette il rossetto sulle labbra. Per la strada sembra quasi una caricatura stravolta di se stesso, più che una donna. Dopo l’omicidio, a conclusione della sequenza, lo ritroviamo davanti allo specchio, mentre si toglie la parrucca, si lava freneticamente le mani e il volto, quasi a voler cancellare l’accaduto, il rimmel nero scende pesantemente sul volto fino a trasformarlo in un mascherone. È l’ingresso nel mondo della morte e del sistema, nella terribile serietà che distrugge l’innocenza dell’adolescente: «In questa muta, i protagonisti… sono attraversati e presi. Passivi, paradossalmente sempre meno soggetti di- qualcosa quanto più cercano di conquistarsi un ruolo con le proprie azioni, e sempre più assoggettati aqualcosa, che è ‘O Sistema e il suo immaginario»[6].

Da questo momento in poi l’inclinazione alla morte diventa inarrestabile, fino all’uccisione del fratello minore di Nicolas durante una “stesa”.

«Assenti i padri», scrive giustamente Antonio Capocasale, in questo film: o comunque invisibili e privi di qualsiasi autorità, per altro sostituiti dai boss e dai capiclan, che sono più simili ai padroni assoluti dell’orda, descritti da Freud in Totem e tabù, che ai padri di famiglia in senso tradizionale. Questi adolescenti non sanno cosa sia il conflitto edipico, per mancanza di interlocutore paterno. Nicolas è estremamente legato alla madre, e tutti regrediscono in quello che lo psicoanalista Kohut ha definito come un narcisismo preedipico, elementare e primario: «La sua psiche rimane fissata a un oggetto-sé arcaico…L’intensità della ricerca e della dipendenza da questi oggetti è dovuta al fatto che essi rappresentano per chi si sforza di raggiungerli un sostituto dei segmenti mancanti della struttura psichica»[7]. Del narcisismo primario fanno parte i selfie che i ragazzi si scattano, ovunque e in ogni situazione, per suggellare un’amicizia, per dichiarare l’amore, per confermare un ricordo. Senza immagine di sé non esiste il sé.

Il padre reale e anche il superio interno che ne deriva sono sostituiti dalle immagini grandiose e speculari di sé, che Nicolas insegue, e da cui derivano il suo iniziale senso di invulnerabilità e onnipotenza, la fantasmagoria giocosa e hollywoodiana, con cui inizia la sua carriera criminale, e infine il luttuoso e progressivo smascheramento dei fantasmi, che lo conducono allo scontro sempre più arido e scabro con la dura realtà del potere e della morte. «Il faro regolativo di questa paranza di fratelli di strada senza padri, sono le immagini»[8]. Questo narcisismo si appoggia inizialmente agli oggetti-feticcio della merce, come abbiamo detto: ma poi la logica della violenza si rende autonoma dal suo stimolo iniziale, diviene lotta per il prestigio, per affermare l’immagine grandiosa di sé e infine astratta sottomissione a un destino, a un meccanismo di azione e reazione sentito come inevitabile[9]. Nel finale del film Nicolas entra nel circuito fatale della vendetta e della violenza mimetica, che segna il dominio del mito arcaico nella psicologia collettiva. Nell’ultima sequenza vediamo lui e i ragazzi della paranza sulle loro moto, lo sguardo fisso, inespressivo, privo di qualsiasi esaltazione eroica, disposto all’annientamento.

 

Note: 

 

[1] Gomorra, 2008.

[2] È un passo di R. Caillois, citato da W. Benjamin nel suo Passagenwerk, M11a,5, Parigi, capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p. 570.

[3] Il film è tratto liberamente dal romanzo di R. Saviano, La paranza dei bambini, Feltrinelli, Milano 2016.

[4] Gomorra, serie in quattro stagioni, trasmesse dal 2014 in poi.

[5] G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, SugarCo, Milano 1990, p. 96. Cfr. anche R. Finelli, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo, Roma, 1987, p. 211: «Lo statuto peculiarissimo della società capitalistica è dunque che la sua coesione si compie attraverso astrazione, separazione, e che questo contenuto paradossale di socializzazione venga dissimulato nella neutralità ed oggettività di un processo fisiologico e naturale di vita».

[6]Antonio Capocasale, Presi nella muta, in “Fata Morgana”, 18 febbraio 2019, https://www.fatamorganaweb.unical.it/index.php/2019/02/18/paranza-dei-bambini-giovannesi/

[7] H. Kohut, Narcisismo e analisi del sé, Bollati-Boringhieri, Torino 1984, p. 53.

[8] A. Capocasale, Presi nella muta, cit.

[9] «Interessa che questi ragazzini, la loro emotività, le loro speranze, il loro elementare senso di giustizia, siano attraversati da una mutazione del proprio ordine simbolico», ivi.