La conversione del quotidiano: Foucault e l’utopia come tecnica di vita

La conversione del quotidiano: Foucault e l’utopia come tecnica di vita

13 Novembre 2019 Off di Francesco Biagi

[Anticipiamo l’articolo di Gianfranco Ferraro “La conversione del quotidiano: Foucault e l’utopia come tecnica di vita” che uscirà nel volume n. 2/2019 di “Altraparola” in corso di stampa (pp. 77-96)]

 

Gianfranco Ferraro*

 

1. Viviamo un tempo senza utopie. Un tempo che sembra chiudersi in se stesso in uno strano mutismo, se è vero che «una società senza utopia, si dice, è condannata a morire di freddo»[1]. Condannata alla marginalità dal socialismo marxista per un secolo e mezzo, quando la grande storia del movimento operaio si è spenta, l’utopia non è tornata. Ci può stare che un genere filosofico o letterario scompaia, che venga sostituito da altri. Ma l’utopia non è stata solo questo. Misconosciuto dalla grande tradizione filosofica moderna, misconosciuto dalla letteratura, misconosciuto persino dalla politica, un impulso utopico è stato invece presente, continuamente, per almeno cinque secoli, nella vita quotidiana. Ha orientato lo sguardo di milioni di persone, è entrato in modo differente nelle generazioni, è stato un vettore di immense mobilitazioni. La sua forza non è stata una forza dei libri. Non solo, per lo meno. In tanti sono stati coinvolti dall’utopia senza sapere neanche leggere. L’utopia è affare dei singoli e delle masse, entra nelle case più comuni, così come definisce lo stile di vita di militanti, rivoluzionari. Sembra scavare nel grigio della routine, impone una differenza dove tutto sembra piegato alla ripetizione. Un impulso dunque, che dà forma all’esistenza, che in linea di massima la trasforma, la rende altra. C’è un prima e c’è un dopo l’utopia: ma questo non nella storia, nei discorsi pubblici, ma nell’esistenza degli individui. «Abbracciare l’utopia» è stato più di uno slogan: ha riflettuto una trasformazione della coscienza, una differenza rispetto il passato. Dopo aver «abbracciato l’utopia» si è stati diversi da come si era prima. L’utopia non è dunque un contenuto, qualcosa che si acquista, si incamera. È stata, è vero, pensata come qualcosa di là da venire, lì da qualche parte nel futuro, così come, proprio all’inizio, è stata localizzata in un’isola da qualche parte dell’America meridionale. Eterogeneità dell’utopia rispetto al tempo e allo spazio. Il «sole dell’avvenire», certo, un’immagine utopica: l’aurora di un giorno in cui si vive differentemente, in cui del «no si è fatto il sì» per parafrasare la storica, grande versione italiana di Franco Fortini dell’Internazionale. Ma questa aurora depositata laggiù nel futuro si è allontanata sempre più: «perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente», scherzava Giorgio Gaber in «Qualcuno era comunista». O Benigni, quando era Benigni, in «Berlinguer ti voglio bene», quando invitava il segretario del Partito Comunista Italiano a dare solo un segnale, e i colleghi muratori a non preoccuparsi troppo, perché quel segnale, prima o poi, sarebbe arrivato. E si è allontanata nello spazio, o per meglio dire, è scomparso quello spazio ignoto in cui collocarla, l’utopia: nel mondo ridotto a villaggio, o nella città fattasi mondo, il globo terracqueo è ormai percorso in ogni direzione dai meridiani delle reti sociali e riesce a stare per intero nei dieci centimetri di uno smartphone. Eppure, appunto, l’utopia è stata figura catalizzatrice di energie, passioni, strumento di orientamento delle condotte di vita. Figura morale di definizione dei comportamenti nel quotidiano: l’ideale di una società giusta, ad esempio, che trasforma le forme di vita nel presente. Proprio per questo suo statuto, ideale e dunque non concreto, l’utopia è stata condannata dal marxismo scientifico, come dai difensori dell’ordine. L’utopia non si confronterebbe con i dati di realtà, con la reale e concreta complessità dei fattori di cui vive l’umano. A maggior ragione, quando si tratta di fare politica con l’utopia, essa non può che essere derisa: proprio perché vive fuori dalla realtà, proprio perché è creatura dell’immaginazione, e solo dell’immaginazione, di infanti, o di pazzi, l’utopia politica è stata condannata, quando deriderla non bastava a fermare i suoi effetti.

I suoi effetti, appunto. La storia dell’utopia è la storia dei suoi effetti, e non solo delle sue immagini, non solo della sua letteratura o del suo pensiero[2]. Circolano molte storie dell’utopia, delle opere e degli autori che con l’utopia hanno intrattenuto rapporti. Ma quello che manca è appunto una storia dell’utopia attraverso i suoi effetti. Una storia che racconti cosa sta al cuore di questo impulso, e insieme che racconti qualcosa che il «politico responsabile»[3] tenta accuratamente di eludere: il fatto cioè che l’utopia vive di effetti reali e non semplicemente di costruzioni simboliche. E sono proprio questi effetti di realtà che causano la sua derisione, o la sua condanna: accade quando, ad esempio, gli utopisti adottano «un discorso serio, a lettere maiuscole», annunciando catastrofi, denunciando colpevoli, facendo appello alla vendetta. Qui il discorso cambia, scrive Paquot, perché il politico responsabile è costretto a scendere a patti. Esiste dunque come un fondo oscuro, nell’utopia, qualcosa che un difensore dello status quo non può non temere, qualcosa che può mettere in causa gli equilibri dei poteri, coagulare delle resistenze: da qui, la derisione, lo sguardo di sufficienza, finché è possibile, o la condanna esplicita, l’attacco spietato, quando l’utopia si arrischia a manifestarsi come contropotere, e manifesta così il suo legame diretto col reale, la sua capacità di manifestarsi per quello che è, una forma  di trasformazione delle relazioni.

A questo discorso occorre però aggiungerne da subito un altro: fino a qui, si capisce bene di cosa parliamo, e cioè di una certa utopia politica, dell’utopia come discorso e come strumento della retorica essenzialmente politica. E certo, occorrebbe fare una storia di questa utopia a partire dal suo funzionamento, vedere come è stata recepita e quali sono stati gli effetti pratici che essa ha provocato. Ma se penetriamo in questo fenomeno storico, appena sotto la superficie, ci rendiamo conto che lo stesso oggetto rischia di sfuggirci: questo perché non esiste una sola utopia, ma più utopie. Sembra anzi che l’utopia, frutto primordiale della modernità, nasca proprio per esistere in modo multiforme: proprio per questo, si rivela decisivo, per comprendere l’oggetto, partire da una storia dei suoi effetti. Utopia e utopie pertanto. Solo per fare un esempio, se pensiamo al lungo Ottocento, possono venire in mente i vari tentativi di creare delle «utopie realizzate», delle forme di vita adattate ai principi dei falansteri di Fourier[4]; e sempre seguendo Fourier, o gli effetti di Fourier, diventa difficile pensare una storia dell’urbanistica e dell’architettura senza riflettere sull’incidenza che le utopie come ideali di organizzazione sociale hanno avuto su di esse[5]: è possibile dunque pensare tutti questi fenomeni a partire da un luogo di osservazione che ci consenta di comprendere cosa è, o è stato, davvero in gioco nell’utopia?

Di certo, possiamo dire che tutte le forme di utopia hanno a che vedere con il quotidiano, con la sua trasformazione, con uno scarto a partire dal quale misurare quello che c’è e quello che potrebbe esserci. Una certa forma di guardare al presente, non con lo sguardo dell’angelo di Klee, che spinto dal vento del progresso che soffia dalle nostre spalle guarda proprio verso di noi, lasciandosi dietro le montagne di macerie accumulate dalla storia, ma, come ben sapeva Benjamin, con quello di chi vede nel presente le condizioni di uno scarto. L’utopia ha a che vedere, in questo senso, con le forme di vita, e con l’apertura della forma di vita ad un’alterità: è la sua capacità di far vedere questa alterità, e dunque la sua capacità di produrre effetti sul reale, che la rendono maggiormente temibile. Tutte le sue forme – l’«utopia dei libri» secondo l’espressione di Miguel Abensour[6] o le «utopie classiche» di More, Bacon, Campanella, le «utopie sociali» alla Fourier o le utopie urbanistiche – hanno a che vedere con un unico fenomeno, capace di riorientare lo sguardo sul quotidiano, di fenderlo, a volte persino di produrlo. In questo senso, l’utopia comincia a parlarci d’altro: di una tecnica, nata dai moderni per i moderni, ma che in realtà affonda le radici in tecniche antiche e che proprio dall’Umanesimo vengono riprese e traghettate nei secoli successivi. Una tecnica di vita che attraversa tutta la cultura occidentale, tutta la «memoria culturale» dell’Occidente[7] e che forse, proprio per questo, non bisogna disperare di vedere tornare. Anzi, non bisogna forse semplicemente disperare di vedere: l’utopia è qui, nella parola, o nell’immagine disegnata apparentemente per caso dalla street-art di Bansky, che si vuole precisamente senza luogo, senza nome, e che invece arriva a parlarci proprio di quel luogo specifico, proprio mentre si produce. È forse nel tempo di vita quotidiano che impieghiamo per spezzare lo stesso ordine di questo quotidiano, magari è in questo tempo comune a chi scrive e a chi legge per portare l’occhio avanti, avanti, fino a questo punto.

 

2. Come afferma Foucault in un suo saggio divenuto celebre, l’utopia assume l’aspetto di uno «specchio» della realtà quotidiana: esso, per la precisione, si trova a metà strada tra una utopia – che è secondo la definizione che egli dà in queste pagine un luogo del tutto irreale – e una eterotopia, che invece è un luogo reale, esistente, nel quale possiamo davvero entrare: la nave, il cimitero, luoghi in cui non viviamo un quotidiano, ma da cui la nostra immagine del quotidiano, se ne usciamo, risulta ogni volta mutata. Luoghi di interruzione del nostro quotidiano. Entrambi, utopia e eterotopia, ci restituiscono dunque un’immagine invertita, a volte sconvolgente, di noi stessi, delle nostre abitudini.

 

Lo specchio, dopo tutto, è una utopia, essendo esso un luogo senza luogo. Nello specchio mi vedo lì dove non sono, dentro uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie, sono in basso, dove non sono, una sorta di ombra che dà a me stesso la mia propria visibilità, che mi consente di guardarmi là dove sono assente: utopia dello specchio. Ma è allo stesso tempo una eterotopia, nella misura in cui lo specchio esiste realmente e nella misura in cui possiede, sullo spazio occupato, una sorta di effetto di ritorno; è a partire dallo specchio che mi scopro assente nel posto in cui sono, vedendomi là in basso. A partire da questo sguardo che in qualche modo viene rivolto a me stesso, dal fondo di quello spazio virtuale che si trova dall’altra parte del vetro, io torno a me stesso e ricomincio a volgere gli occhi verso me stesso e a ricostituirmi là dove sono; lo specchio funziona come una eterotopia in questo senso, che esso rende questo posto che occupo nel momento in cui guardo nel vetro, allo stesso tempo assolutamente reale, legato con tutto lo spazio intorno, e assolutamente irreale, in quanto è obbligato, per essere percepito, a passare da quel punto virtuale posto là in basso[8].

 

Di questa capacità di inversione rispetto al quotidiano, l’utopia è del resto manifestazione esplicita sin dall’inizio. Nel 1516, quando More dà alle stampe L’Utopia, da appena tre anni è stato pubblicato Il Principe di Machiavelli. Due dei maggiori fiori dell’Umanesimo politico, scritti a pochi anni di distanza, e in due contesti abitati da quelle tensioni che porteranno da un lato alla definizione di una delle potenze statuali decisive della modernità e dall’altro alla definitiva decadenza politica e culturale degli staterelli italiani, hanno in realtà un destino di lettura comune: sia l’uno che l’altro vengono infatti interpretati come satire e specchio invertito della situazione politica del tempo[9]. L’Umanesimo di More riprende – come farà del resto Machiavelli nei Discorsi – una figura dell’antichità, risemantizzandola. Nel caso dell’utopia si tratta evidentemente del mito platonico di Atlantide, che viene descritta nella Repubblica proprio per mostrare l’antitesi rispetto i costumi di quell’Atene che aveva condannato a morte Socrate. More riprende dunque un mito platonico, ma con esso riprende in realtà una modalità della filosofia antica – una «filosofia come modo di vita»[10] secondo la definizione di Pierre Hadot – contrapponendosi alla filosofia «accademica» della scolastica medievale[11]. Le opinioni, pur contrastanti, di Moro e di Itlodeo, il marinaio portoghese il cui racconto sui costumi di Utopia si svilupperà nella seconda parte dell’opera, riflettono tuttavia una stessa necessità: quella di una filosofia che sappia incidere nella realtà, e soprattutto sia in grado di trasformare i costumi. Una filosofia che riprende quindi quella funzione che essa possedeva nell’antichità come tékne perí ton bion, tecnica di vita. Ci ritorneremo. Intanto, però, osserviamo le due divergenti ricette che Moro offre attraverso la sua stessa voce narrante e attraverso la voce di Itlodeo: la prima, che vuole la filosofia come arte della dissimulazione, di un’arte cioè che è in grado di far passare determinati contenuti, ed è quindi in grado di incidere effettivamente sulle vite, quotidiane, dei popoli, modificando le loro abitudini:

 

Se non si possono sradicare del tutto i pregiudizi e gli errori, se non si può rimediare come si vorrebbe ai vizi correnti e tollerati, non per questo bisogna lasciare il paese nell’imbarazzo, né, pel fatto che non si possono fermare i venti, abbandonare la nave dello Stato in mezzo alla tempesta. E d’altra parte, nemmeno introdurre a forza discorsi insoliti e stravaganti, che si sa non avranno alcun peso presso chi ha idee opposte; ma per vie oblique bisogna adoprarsi in ogni modo a condurre le cose, per quanto uno sa e può, acconciamente, in modo da render meno dannoso sia possibile ciò che non si può cangiare in bene. Che tutti stia bene non si può ottenere, se tutti non sono buoni; e questa è cosa a cui ho rinunziato… per un po’ di anni[12].

 

Lo sguardo di More sembra in questo caso molto simile a quello, rivolto alla realtà effettuale delle cose, e pessimista riguardo la bontà del genere umano, del collega fiorentino. D’altra parte, quali siano queste «vie oblique» attraverso cui la filosofia può intervenire nel mondo è questione che ci riporta proprio al mito platonico: è forse possibile, far navigare lo Stato verso il bene non attraverso discorsi «insoliti e stravaganti» ma attraverso una prassi che riorienti le forme delle condotte dei «consigli dei prìncipi». Di parere opposto è Itlodeo:

 

Ma a questo modo – replicò Itlodeo – non si otterrebbe altro che, mentre io cerco di rimediare all’altrui pazzia, diverrei io stesso pazzo furioso insieme con loro. Se voglio dire la verità, è necessario che parli nel modo che ho detto. Del resto, non so se sia da filosofo dire il falso; certo non è mia abitudine. Sebbene… quel mio discorso, ammesso pure che riesca sgradito e forse modesto, non vedo perché debba sembrare stravagante sino all’incongruenza… Se narrassi ciò che Platone immagina nella sua Repubblica, o ciò che fanno nella loro gli abitanti di Utopia, questo sì che, per quanto sia meglio, non c’è da dubitarne, potrebbe sembrare disadatto, perché mentre la proprietà, da noi, è privata, dei singoli, lì invece tutto è in comune[13].

 

Itlodeo è dunque, in questo senso, figura del filosofo che ritiene che i costumi si possano mutare solo attraverso la verità. Figura del parresiasta, per certi aspetti. E, al contrario, ritiene che presentare delle «figure» di forme di vita alternative a quelle in cui si vive non sia utile a questo scopo, in quanto tali figure non si possono adattare alle condizioni di vita presente. D’altra parte, però, ciò è proprio quanto avviene nella seconda parte dell’Utopia, dove Itlodeo racconta i costumi di Utopia. Una rappresentazione inadatta a modificare le cose, dunque, ma che va incontro a quella «via obliqua» ricercata da More, segnata per com’è da un pessimismo che anche Itlodeo condivide, se è vero che Utopia è più felice proprio perché è in grado di far sue, al contrario di quanto riesca a fare la società occidentale, le forme di vita più utili alla propria sopravvivenza. È del resto lo stesso pessimismo che ritroviamo alla fine del volume, quando More ammette che, pur non condividendo tutto dei costumi di Utopia «non ho difficoltà a riconoscere che molte cose si trovano nella repubblica di Utopia, che desidererei pei nostri Stati, ma ho poca speranza di vederle attuate»[14].

 

3. La funzione della figura utopica sembra, in questo senso, andare incontro a quanto Miguel Abensour scrive descrivendo il fenomeno che sta alla base del genere utopico: la conversione. Una conversione che Abensour non intende tuttavia nel medesimo senso dell’interpretazione religiosa di Prévost, secondo cui l’Utopia sarebbe uno strumento «di rinascimento interiore», volto, più che a una rivoluzione politica, a «una comunione di natura con gli altri uomini». Per Abensour si tratta di pensare in questo senso qualcosa che non è né interamente religioso, né interamente politico, nel senso con cui volgarmente si pensa l’utopia: si tratta appunto di una «conversione all’utopia», di una via d’accesso «all’uomo in quanto animale utopico»[15], e in qualche modo a una certa modalità della stessa filosofia:

 

La conversione utopica significa e non può significare altro che la conversione alla stessa utopia e non ai suoi temi e ai suoi contenuti; intendiamo con ciò questo, la conversione a un complesso d’impulsi, di attitudini, ovvero di posture proprie dell’utopia[16].

 

In maniera ancora più chiara, Abensour riprende il senso dell’utopia come «conversione» e «risveglio», e dunque la matrice esistenziale di una filosofia incarnata nell’utopia:

 

Può esistere una filosofia sprovvista di qualunque dimensione utopica, nel momento in cui ha rotto con l’utopia? È possibile concepire una utopia separata da qualunque filosofia, per quanto sotto la forma della non-filosofia, o, come in Thomas More, di un’altra filosofia «consapevole del teatro del mondo», differente dalla filosofia dominante? Il risveglio, precisamente, non importa con quali modalità, non offre una fragile passerella tra filosofia e utopia, tanto più che filosofia e utopia devono la loro esistenza a una conversione, a una metanoia, che esige, in ogni caso, risoluzione, ostinazione persino nella pratica del dubbio e dello scarto, o in quella dello stupore, e non saprebbero accontentarsi, come fa il tiranno di Siracusa, di simulazione o di infingimento[17].

 

L’utopia avrebbe dunque come momento centrale della propria esistenza – il che la accomuna precisamente a una certa pratica, non accademica, della filosofia – la nozione di risveglio. In questo senso, l’utopia ha le sue radici, come tenterò di mostrare rapidamente, in alcune pratiche antiche, che More fa transitare nella modernità. L’Utopia, in questo senso, non dev’essere avvicinata come un testo che parla di politica o di semplice trasformazione sociale: se pensiamo che le élites del ’500 che costituivano poi il pubblico a cui un autore fondamentalmente si rivolgeva erano élites anche politiche, ritroviamo nell’utopia qualcosa di molto simile alla tecnica utilizzata da Platone e dai neo-platonici: costruire una paideia che trasformasse la condotta di vita dei singoli, aprendola a una modalità differente dell’esistenza. Dal momento in cui i singoli sono anche politici, l’effetto di conversione provocato nei singoli si estenderà a tutta la comunità. L’utopia ha dunque a che vedere più con la pratica della meditazione, degli esercizi spirituali, che con la «rivoluzione» dei moderni. D’altronde, la «rivoluzione», così come le idee chiliastiche, nascono sempre – Thomas Müntzer è contemporaneo di Moro – a partire da una pratica di trasformazione interiore: ciò che sembra accadere in quei primi trent’anni del ’500 è dunque l’avvio di pratiche di «conversione» della modernità: filosofia, religione, ma anche politica, vivono, su fronti differenti, la ripresa di questa antica tecnica.

 

4. È dunque intorno alla pratica della conversione che dobbiamo interrogarci, per comprendere più da vicino che cosa c’è in gioco nell’utopia e nel pensiero utopico, come tecnica di conversione del quotidiano. Pierre Hadot e Michel Foucault, su fronti differenti, hanno dialogato nei primi anni ’80 precisamente intorno alle tradizioni che nell’antichità classica facevano riferimento alla trasformazione interiore. Scrive Hadot:

 

La parola latina conversio corrisponde infatti a due parole greche dal senso differente, da una parte epistrophé che significa «cambiamento di orientamento», e implica l’idea di un ritorno (ritorno all’origine, ritorno a se stesso), dall’altra parte metanoia che significa «cambiamento di pensiero», «pentimento», e implica l’idea di un mutamento o di un rinascimento. Questa polarità fedeltà-rottura ha fortemente segnato la coscienza occidentale da quanto è comparso il cristianesimo[18].

 

La ricerca di Hadot sulla questione della conversione costituisce d’altronde un punto fermo del suo lavoro sulla filosofia come forma di vita e riporta direttamente, attraverso il dialogo intrattenuto con Foucault, alle tecniche con cui nell’antichità la filosofia operava come strumento di cura della vita (tékne perì ton bion)[19]. È questa la nozione a cui fa riferimento Foucault, nel quadro della sua analisi sulle «tecniche di sé». La filosofia appare in questo senso come una «tecnica tra le tecniche», un artigianato tra gli altri, con un suo oggetto peculiare, la vita appunto. Foucault, come Hadot, lavora in questi anni ad una archeologia delle «pratiche». Non si tratta più di interrogarsi sulle forme della verità, sul potere, sulla «sessualità», come piuttosto su quali pratiche sono state adottate storicamente per produrre determinati effetti di verità, determinati effetti di potere, in che modo il corpo è stato sollecitato come campo di battaglia tra opposte necessità politiche, etiche, biologiche. Lungo questo percorso, Foucault incontra le antiche pratiche di meditazione, di confessione: tra gli stoici e gli epicurei forme come la meditatio mortis o la meditatio malorum costituiscono elementi centrali non solo dell’orizzonte teorico, ma di quel legame necessario tra conoscenza e arte dell’esistenza, o «stile di esistenza», nelle parole di Foucault, che caratterizza appunto la «filosofia» in questo periodo. Estremamente interessante, in questo senso, è come Foucault non si avvicini alla «filosofia» attraverso una storia delle idee – e neanche attraverso una «storia dei sistemi di pensiero», come pure aveva scelto di chiamare la sua cattedra al Collège de France – ma attraverso quella che potremmo definire una «storia degli insiemi di pratiche». Sono dunque le pratiche – e il pensiero stesso come pratica, esercizio, orientamento dello sguardo – a costituire il vero oggetto.

Nell’analisi di queste tecniche, Foucault individua una macro-area, quella della «cura di sé» (epimeleia heautou): un insieme di tecniche che danno forma al «sé» dell’antichità, che definiscono cioè lo schema di rapporto del soggetto con se stesso. Così, a «differenti forme di cura», corrisponderanno «differenti forme di sé»[20]. Si tratta di pratiche dunque, di vere e pratiche del quotidiano. Ne è un esempio la meditazione sulla giornata appena trascorsa fatta da Seneca in questo brano delle Lettere a Lucilio:

 

Tu vuoi sapere che cosa faccio in ognuna delle mie giornate, ora per ora. Mi giudichi bene, se pensi che non abbia niente da nascondere. Certo, dovremmo vivere come se fossimo sempre in presenza di qualcuno, e pensare come se qualcuno potesse leggere nel nostro animo. […] Voglio, dunque, contentarti: farò volentieri un’ordinata relazione delle mie attività. Prima rivolgerò l’attenzione su me stesso e, ciò che è utilissimo, farò un esame della mia giornata. Quello che ci rende veramente cattivi è che nessuno esamina la propria vita. Noi pensiamo, anche se di rado, a quello che vogliamo fare; eppure è dal passato che viene l’ammaestramento per il futuro[21].

 

La meditazione sulla giornata rientra in realtà nel quadro di tutta una precisa modalità filosofica della scuola stoica: Foucault mostra ad esempio come tutta una serie di «regole del quotidiano» vengano fatte proprie da chi aderisce a quella scuola. Non ubriacarsi, fare esercizi fisici in un certo modo, dormire in un altro: la conversione alla filosofia implica pertanto tutta una serie di regole, saldamente depositate e dimostrabili razionalmente, che regolano la vita quotidiana dello stoico.

 

5. Convertirsi, implica dunque, aderire a tutta una serie di «tecniche di sé» che fanno dello stoico uno stoico. Non si diventa, del resto, stoici, o epicurei, o neo-platonici, o cristiani – quando il cristianesimo apparirà tra le filosofie tra la fine del III e la fine del IV secolo – dall’oggi al domani. Quello che accade nella conversione è l’adesione a un insieme di «tecniche» che faranno di noi qualcosa di profondamente differente da quello che eravamo prima. Avremo così, proprio nello stoicismo, l’inaugurazione della pratica dell’askêsis, non, come la potremmo intendere, nel senso di una pratica della «rinuncia», ma nel senso di una pratica della propria esistenza:

 

Scopo ultimo dell’askêsis non è quello di preparare l’individuo a un’altra realtà, ma di consentirgli di accedere alla realtà di questo mondo. In greco, la parola che descrive questa attitudine è paraskeuazô («prepararsi»). L’askêsis è un insieme di pratiche attraverso cui l’individuo può acquisire, assimilare la verità, e trasformarla in un principio di azione permanente. L’alêtheia diviene l’êthos. È un processo d’intensificazione della soggettività[22].

 

È in questo quadro di studio delle tecniche di «cura di sé», che divengono però anche tecniche degli altri – inseparabilmente – che compare in Foucault la tecnica della parresia, un dire la verità per intero passando attraverso un rischio, che può arrivare fino alla morte di chi la dice – Socrate, davanti all’assemblea ateniese – o all’interruzione di un rapporto d’amicizia, politico, nel momento in cui si rompe il patto – parresiastico, appunto – tra chi parla e chi ascolta. Anche qui, in realtà, un insieme di tecniche, di giochi di verità, attraverso cui si costruiscono i soggetti stessi di verità, e le forme con cui la verità viene alla luce. E proprio nella lunga storia delle tecniche parresiastiche – una storia che va appunto dal coraggio della verità politica dell’Atene antica, all’esercizio della verità etica nei circoli stoici, sino all’esposizione della verità di fede nel corpo dei «testimoni» (martyros) cristiani – Foucault descrive il fenomeno dell’aleturgia, l’«atto attraverso cui si produce la verità». Il gioco di verità non attiene così più alla parola ma allo stesso corpo, o, per meglio dire, all’arte della vita. Non è più solo l’esposizione di un momento, o di una parola in una circostanza data, ma l’insieme delle azioni, il quotidiano di un corpo, che manifesta la verità come scandalo, e come strumento di passaggio ad una vita altra. L’incontro con l’alethourges, con chi esercita l’alethurgia, è in questo senso un incontro sconvolgente, l’incontro con una vita, con un quotidiano della vita, che incide per sempre sulla superficie del nostro stesso bios. Il quotidiano di quella vita è ciò che provoca una metanoia, o una epistrophè nelle vite altrui: il senso di una bio-grafia, starebbe proprio in questo. Ed è proprio nel seno della tecnica aleturgica, che vediamo svilupparsi la forma di vita filosofica dei cinici, così come tutto il genere letterario delle «Vite»: le vite dei filosofi, prima, con Diogene Laerzio, e poi le vite dei Santi. Vite, appunto che nel loro testimoniare la verità con gli atti quotidiani invitano, o provocano, la conversione.

Intorno all’alethurgia possiamo così vedere sorgere tutta una semiotica della forma di vita: è la trasformazione della forma di vita attraverso la verità, e attraverso l’ascesi – nel senso con cui l’abbiamo definita – di verità, a caratterizzare la filosofia come tékne perì ton bion, come tecnica che ha come oggetto il bios, non la vita animale, ma la capacità tutta umana di decidere sulla propria forma. L’esposizione del bios diventa a sua volta possibilità di trasformazione di un altro bios: e questo accade innanzitutto nella presenza orale del filosofo, e poi nella sua presenza esemplare nella letteratura, come accadrà appunto successivamente, nella letteratura cristiana, con gli esempi di vita dei Santi.

Questa tecnica di sé che vediamo nascere nell’orizzonte della parresia e che conduce appunto fino alla semiotica delle forme di vita ha avuto in realtà un pregresso decisivo[23], se facciamo nuovamente qualche passo indietro e torniamo all’Atene del IV secolo. Non attengono forse a questa storia della semiotica della conversione il Socrate di Platone, e così, via via fino alla modernità, il Socrate o lo Schopenhauer di Nietzsche e, naturalmente, lo stesso Socrate di Foucault o di Hadot? E non attiene forse a questa storia anche la tradizione dell’autobiografia moderna, che, nata in seno al movimento gesuita, secondo il grande modello di Agostino, attraversa la Vita di Cellini, le Confessioni di Rousseau, l’Ecce homo di Nietzsche? Il fenomeno della conversione ad una vita altra sembra così avere come presupposto, sia nella tradizione filosofica, che poi in quella religiosa, una semiotica che attiene ovviamente delle figure: siano esse bioi, siano esse, però, forme di vita esemplari, miti, che vengono descritti fin nei minimi dettagli del loro quotidiano proprio per provocare una conversione ad una vita altra. È dunque dentro questa semiotica della conversione che possiamo leggere anche i miti platonici, come quello di Atlantide, o in generale la figura della stessa kallipolis, a cui ovviamente si ispira l’Utopia di More[24].

Semiotiche dunque della conversione attraversano per ogni lato l’antichità, come figure esemplari – del bios – delle forme di vita individuali e di quelle collettive, e si riversano nella modernità filosofica quando l’Umanesimo italiano e inglese le riscopre. Figure appunto che si presentano con l’obiettivo di provocare un’altra possibile vita: figure come téknai perí ton bion individuale e collettiva. Ora, prima di ritornare da dove siamo partiti, cosa ovviamente necessaria se assumiamo l’utopia come una pratica di conversione, rimangono da osservare due cose. L’Utopia di More si presenta come dislocazione nello spazio, come squarcio «obliquo» di una vita altra nella vita del quotidiano: «non c’è dubbio che Platone previde chiaramente che, a meno che i re non studino filosofia, non si darà mai il caso che approvino i consigli di chi fa il filosofo»[25]. Se possiamo inserirla nel quadro di quella semiotica della conversione a cui facevo riferimento, rimane ancora una questione, quella dell’alterità del mondo a cui la tecnica utopica conduce, una questione che Foucault, in una delle sue ultime lezioni, lancia in avanti senza avere poi il tempo di approfondirla: il più grande mutamento dell’ascetismo cristiano rispetto quello cinico riguarda proprio il rapporto tra vita altra e mondi altri; se il cinico infatti vuole accedere ad una «vita altra» perché ci sia un «mondo altro», nel cristiano il passaggio ad una «vita altra» non ha come obbiettivo la trasformazione immanente del mondo, ma appunto l’accesso ad un «altro mondo»[26]. La tecnica di trasformazione del sé si sposta dalla trasformazione del mondo all’accesso ad un altro mondo metafisico. È a questa dislocazione dell’alterità che l’Umanesimo sembra rispondere con una rilocazione nel mondo, seppure nell’imperturbabilità di una isola legata al racconto verisimile di un navigatore portoghese al soldo di Vespucci. «Mondo altro» dei cinici, «altro mondo» della religione, «mondo altro», nuovamente, dell’utopia: figure della conversione ad una vita altra, figure attraverso cui avviene questa stessa conversione.

 

6. Se andiamo a vedere di cosa è fatta l’utopia, e dunque di cosa è fatto il rapporto che la lega, come tecnica dei moderni, alla tecnica degli antichi, di cosa è propriamente fatta la sua semiotica, ci accorgiamo che in gioco sono appunto le forme di vita che abitano l’isola utopica, o la Città del Sole, o i Falansteri di Fourier. Le utopie presentano delle forme di vita: ma se le osserviamo attraverso gli strumenti che ci offre Foucault, e dunque come tecniche di trasformazione, figure che muovono alla conversione individuale, e che a partire da questa provocano un effetto concreto nella realtà, non necessariamente destinato a compiere quelle figure, comprendiamo allora, ancora più da vicino, il senso della «conversione utopica» di cui parlano Abensour e Bloch. Legata strettamente ad una modalità della filosofia pensata come una forma di vita, da un lato, e alla religione, dall’altro, l’utopia appare come tecnica creata, o ricreata, dai moderni, sul grande modello delle technai perì ton bion degli antichi, proprio per riportare l’alterità nel mondo. La conversione, fenomeno decisivo di queste tre «tecniche», appare dunque nell’utopia non come conversione ad un contenuto, ma come conversione ad una possibilità altra del reale. Pierre Macherey ha di recente fatto notare come tutti i testi utopici hanno a che vedere con una gestione del quotidiano e del reale[27]. Anzi, sarebbe proprio questa gestione ad essere al centro del pensiero utopico. La quotidiana, meticolosa, ossessiva descrizione con cui Fourier parlerà dei pasti consumati in Armonia («il mattiniero alle 5; la colazione alle 8; il pranzo all’una…»[28]), non è che una riedizione, in scala industriale, della giornata lavorativa in Utopia. Un’ossessione il cui effetto più concreto è di mostrare che «qualcosa manca» – come scriveva Bloch, riprendendo Brecht – nella vita quotidiana di chi legge. Ed è questo forse l’effetto temibile dell’utopia: togliere terreno, spostare la ragione nel suo specchio e farla tornare indietro, infine, mutata. E dove l’occhio dello status quo si sofferma sul «qualcosa», quello dell’utopia sembra invece interrogare il negativo che si frappone al luogo, e che in nessuna maniera intende determinarlo. La conversione utopica, tecnica dei moderni per trasformare il loro bios, avviene, come mai era avvenuto prima, proprio in quel no sospeso per un momento appena su ogni gesto che si vorrebbe eterno.

 

*    Questo lavoro è finanziato da fondi nazionali della Repubblica Portoghese, attraverso la FCT – Fundação para a Ciência e a Tecnologia.

[1]    T. Paquot, Utopie e utopistes, La Découverte, Paris, 2018, p. 15 (traduzione mia).

[2]    Un quadro, non del tutto esauriente, ma utile, riguardo la tradizione utopica e gli studi più recenti sul tema, è senz’altro dato da Paquot nel recentissimo testo sopra citato. Cfr. in questo senso anche il Dictionary of Literary Utopias, Ed. par V. Fortunati & R. Trousson, Honoré Champion, Paris, 2000. Tra le opere più recenti e a mio avviso inaggirabili intorno alla questione dell’utopia, è necessario ricordare per lo meno le seguenti: M. Abensour, L’Homme est un animal utopique, Sens & Tonka, Paris, 2013; Id., L’Utopie de Thomas More à Walter Benjamin, Sens & Tonka, Paris, 2016; Id., L’histoire de l’utopie et le destin de sa critique, Sens & Tonka, Paris, 2016; P. Macherey, De l’utopie!, De l’Incidence, Saint Vincent de Mercuze, 2011. Punti di riferimento continuano ad essere naturalmente le riflessioni sull’utopia di Marc Bloch, Karl Mannheim e Paul Ricoeur. Una prima riflessione sui temi che sviluppo in questi pagine è contenuta nel mio testo: “L’essere per l’utopia: una ontologia critica”, Altraparola, n. 1, 2018.

[3]    La citazione è dello stesso Paquot che mi sembra descrivere bene l’atteggiamento dell’anti-utopico, potremmo definirlo così, figura probabilmente molto più comune adesso di quanto non lo sia stato in altre epoche: «Questi s’ingegnerà a screditarli nel nome del realismo, del pragmatismo, dell’efficacia, della performance, del progresso, della razionalità!», T. Paquot, Utopie e utopistes, cit., p. 3.

[4]    Solo per fare alcuni esempi: la Colonia societaria di Condé-sur-Vesgre (Seine-et-Oise, 1832-1833), la Colonia societaria di Côteaux (Côte-d’Or, 1841-1844), in Francia, il Falansterio di Oliveira (1841) e l’União industrial de Sahy (1841) in Brasile, il Falansterio di Scaieni in Valacchia (1835), la Colonia di Sleptsov (1860) in Russia o ancora Pacific City (1866) a Sinaloa, in Messico. Da menzionare a parte tutta la storia dei Falansteri americani che hanno inciso profondamente nella storia degli USA: Brook Farm, Fruitlands. E sarebbe da ricordare, in questa linea, tutta la storia delle comuni fondate dai vari movimenti giovanili tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta.

[5]    In questo campo l’elenco di esempi sarebbe naturalmente sterminato, e molto dipende dal periodo che decidiamo di prendere in esame. Tra le utopie della «città ideale» medievale o rinascimentale, possiamo pensare a quella del dipinto di Ambrogio Lorenzetti Effetti del Buon Governo in città (1338-1340), o quella di anonimo conservata ad Urbino, dipinta tra il 1480 e il 1490, che esprimono canoni architettonici, e ideali sociali effettivamente visibili poi nelle forme urbane dei comuni e delle Signorie del centro Italia; spostandoci in avanti, incontriamo le forme della città settentesca, che andranno a coprire, per necessità o per imposizione quelle dei vecchi centri medievali, come accade nella Lisbona pombalina; solo in parte potremmo inserire in questo ambito la ristrutturazione parigina Ottocentesca; ma a questa categoria, appartengono certamente, tra gli anni Venti e Quaranta, le architetture di Le Corbusier (Une Ville Contemporaine, del 1922), le strutture razionalistiche della scuola di van der Rohe, l’urbanistica di Sharoun, così come il costruttivismo sovietico di Chernikov, di Venin, e la «casa comune» di Ginsburg, le residenze per lavoratori e le torri abitative di Aalto. Si arriva poi, negli anni Sessanta alla «città ideale» di Brasilia, città creata dal nulla per decisione del governo brasiliano e il cui modello di Niemayer dovrà confrontarsi conflittualmente con le concrete difficoltà della vita quotidiana, per esempio, degli operai che da tutto l’altipiano centrale del Brasile si concentreranno nella zona per prendere parte ai lavori.

[6]    Cfr. M. Abensour, L’homme est un animal utopique, cit., pp. 61-96.

[7]    J. Assmann, La memoria culturale, Torino, Einaudi, 1992.

[8]    M. Foucault, «Des espaces autres», in: Dits et écrits II, Gallimard, Paris, 2001, p. 1575 (traduzione mia).

[9]    Nel caso di Machiavelli, è sufficiente ricordare il verso con cui lo ricorda Foscolo nei Sepolcri: «il corpo di quel grande / che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» (Sepolcri, 155-159).

[10] P. Hadot, Exercises spirituels et philosophie antique, Éditions Albin Michel, Paris, 2002. Cfr. anche, su questo tema, il saggio di J. Sellars, The Art of Living. The Stoics on the Nature and Function of Philosophy, Bloomsbury, Aldershot, 2003, e il più recente «What is philosophy as a way of life? », Parrhesia, 28, 2017, pp. 40-56.

[11] «Esiste invece un’altra filosofia, più socievole, che conosce bene il próprio palscoscenico e as adattarvisi e, nel dramma che si dà, fare acconciamente la propria parte con grazia e dignità. Questa dovrete adoprare»: T. Moro, L’Utopia, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 47.

[12]  Ivi, pp. 47-48.

[13]  Ibidem.

[14]  Ivi, p. 134.

[15]  M. Abensour, L’homme est un animal utopique, cit., p. 17.

[16]  Ivi, p. 16.

[17]  Ivi, p. 57.

[18]  P. Hadot, Exercises spirituels et philosophie antique, cit., p. 223.

[19]  Faccio riferimento in questo senso al saggio «Un dialogue interrompu avec Michel Foucault», in Exercises spirituels et philosophie antique, cit., pp. 305-311.

[20]  M. Foucault, Les techniques de soi in Dits et écrits II, Gallimard, Paris, 2002, p. 1607.

[21]  Seneca, Lettere a Lucilio, lettera 83, in Opere morali, BUR, Milano, 2017, p. 278.

[22]  M. Foucault, Les techniques de soi, cit., p. 1619.

[23] Da questo punto in avanti ci spostiamo su di un terreno non sondato da Foucault.

[24]  Estremamente importante in questo senso la notazione di Luciano Canfora sull’impatto – volontario – etico e politico della kallipolis platonica per il moralismo dell’ateniese «buon democratico» del IV secolo a.C. Cfr.: L. Canfora, La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Laterza, Roma-Bari, 2014, pp. 40-41, 170-171. Sull’influenza della kallipolis platonica per le forme moderne, cfr. pp. 345-356.

[25]  T. Moro, L’utopia, cit., p. 39.

[26]  Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II, Gallimard, Paris, 2009, p. 293.

[27]  Cfr. P. Macherey, De l’Utopie!, cit, pp. 87-88. Canfora nota come la somiglianza tra l’Utopia di More e il modello platonico sia visibile proprio a partire dal quotidiano: «per esempio l’ossessione per i regolamenti che disciplinano il matrimonio, ma anche l’allevamento della prole e le regole per l’allattamento»: L. Canfora, La crisi dell’utopia, cit., p. 354.

[28]  P. Macherey, De L’utopie!, cit., p. 347.