“Vincere” di Marco Bellocchio – di Rino Genovese

“Vincere” di Marco Bellocchio – di Rino Genovese

11 Ottobre 2019 Off di Mario Pezzella

Di Rino Genovese

 

Che cos’è stato e soprattutto che cos’è il fascismo? A parlarne in termini storico-politici la risposta è assodata: è stato il collasso di una nazione, delle sue classi dirigenti, del suo spirito civile; e poi un regime dittatoriale, abborracciato finché si vuole, che ha comunque il suo posto tra i totalitarismi del Novecento. Ma la risposta diventa meno semplice se, forti dell’esperienza storica, ci si volge in maniera non storicistica (o antistoricistica tout court) a cercare di capire cosa ci sia ancora di fascistico oggi: nel senso di un passato che non passa e anzi si rigenera dalla sua stessa lontananza. È mai davvero morto il fascismo?

È questo l’interrogativo inquietante che ci pone il film di Marco Bellocchio – lo stesso che in tutt’altro modo e con altra intenzione il Salò di Pasolini poneva. Come in Salò, infatti, l’oggetto di Vincere è il fascismo in quanto fenomeno antropologico e metastorico.

Apparentemente il film è la ricostruzione della vicenda un po’ da romanzo d’appendice di Ida Dalser, compagna ripudiata di Mussolini, e del loro figlio Benito Albino. Ma in realtà è qualcosa di più e di diverso. È la storia dell’incontro di una giovane donna con il proprio demone, il racconto di una possessione diabolica. Come ha notato Sandro Bernardi, grande conoscitore del cinema di Bellocchio, l’opera più prossima a Vincere nella filmografia dell’autore è La visione del sabba. In questo film la donna era ancora genericamente la strega; in Vincere si tratta di una donna, anche emancipata per l’epoca, non più alle prese con il principio demoniaco come espressione del desiderio femminile distorto dalla società (che è quello della strega), ma in quanto patologia psicopolitica di una nevrosi immediatamente privata e pubblica.

Il film sprigiona la sua forza fin dalle prime sequenze. In una scena iniziale il bravo Filippo Timi, interprete del futuro duce, è ripreso nel buio con gli occhi spalancati illuminati da una luce appunto demoniaca, mentre fa l’amore con Ida interpretata da Giovanna Mezzogiorno. È l’immagine di un incubo. D’ora in avanti la donna sarà né più né meno che un’invasata. Benito sarà invece, lungo tutto il corso della sua carriera, la più pura manifestazione di una volontà di potenza capace di avvalersi al massimo grado del trasformismo e dell’opportunismo, le più alte virtù pubbliche italiane, messe in pratica già nel privato con Ida Dalser, prima strumentalizzata e successivamente abbandonata, in ossequio al conformismo familistico-cattolico di cui il fascismo trionfante sarà il paladino.

Le amanti Margherita Sarfatti e Claretta Petacci, la figlia Edda Ciano, e di certo molte altre, sono state affette da mussolinismo, cioè da quella “lubido narcissica”, come la chiamava Gadda, che lega la donna – e poi soprattutto la massa – al capo, stando a una lettura di marca psicoanalitica del fenomeno fascista. Ma Bellocchio, con Ida Dalser, va oltre: da regista che si è fatto le ossa con l’antipsichiatria (I pugni in tasca, Matti da slegare), pone in luce il risvolto paradossalmente “liberatorio” del personaggio che coincide con la sua stessa scelta di essere “pazza”, rinchiusa in manicomio perché decisa a non venire meno alla propria verità di compagna, o moglie (come sostiene di essere), e di madre. Ida diventa così la figura tragica di un’emancipazione femminile che non riesce a trovare la strada, inibita nella meta da un maschilismo che il mussolinismo esalta e di cui lei stessa, con la propria ostinazione, perpetua il mito.

Il film mostra ciò che ha da dire, non si limita a dirlo: questo è il suo pregio propriamente cinematografico. Così la scena del corteo dei piccoli ciechi che attraversa una piazza, mentre il paese intero è percorso dalla frenesia della guerra, o l’inserzione di immagini di repertorio tratte dai comizi dell’autentico duce, con occhi roteanti e pugni sui fianchi, difficilmente si potranno dimenticare per via dell’alto valore metaforico e straniante. Intorno alla mimica mussoliniana Bellocchio pare avere condotto uno studio particolare, che è poi anche la cifra della recitazione di Timi mai grossolanamente caricaturale, sempre misurata quanto più spinge sul pedale espressionistico. Il punto culminante è raggiunto nel lungo monologo in cui Timi (qui nella parte del figlio reietto) fa il verso al duce: un’interpretazione in cui il ruggito del capo fascista viene ricondotto – dalla mimesi belluina della natura dominata, per dirla con Adorno – a una teatralità quasi petroliniana, in cui il registro “freddo” e brechtiano prevale però su quello comico e buffonesco. E non è un passaggio di poco conto: perché le movenze da attore di Mussolini in persona si prestano a questa mimesi della mimesi che il film propone. Non per nulla il fascismo si avvalse dei cinegiornali almeno quanto della radio; ed è possibile sostenere che la gestualità del duce sia stata direttamente influenzata dal cinema di Pastrone e dalle sceneggiature di D’Annunzio.

Dicevo all’inizio che il fascismo forse non è morto. Nel momento del crollo si è infuturato, si è eternizzato, è sopravvissuto a se stesso diventando con il tempo qualcosa di diverso, di molto diverso da ciò che è stato (del resto neanche storicamente il fascismo fu mai una cosa e quella soltanto), ma lasciando intatto il culto del capo, della personalità in grado – così si crede – di decidere e provvedere per tutti. Avere mostrato di cosa sia fatta metastoricamente la pasta di questo “uomo della provvidenza”, di quanta bassezza e finzione – e insieme mobilitazione di forze psichiche – sia capace, è il merito del film.