Il marxismo romantico-rivoluzionario di Henri Lefebvre – Michael Löwy

Il marxismo romantico-rivoluzionario di Henri Lefebvre – Michael Löwy

2 Ottobre 2019 Off di Francesco Biagi

[Pubblichiamo in anteprima l’articolo di Michael Löwy che uscirà nel n. 2 (ottobre 2019) di “Altraparola” dedicato al tema della critica della vita quotidiana tra XX e XXI secolo. L’articolo è inedito in francese. La traduzione è di Mario Pezzella.]

 

Michael Löwy [1]

 

Uno dei motivi più importanti dell’originalità – e perfino della singolarità – del pensiero di Henri Lefebvre nel panorama storico del marxismo francese, segnato fin dall’inizio dalla presenza insidiosa e permanente del positivismo, è il suo rapporto col romanticismo rivoluzionario. Lungo tutto il suo itinerario intellettuale, la sua riflessione si arricchirà di un confronto con la tradizione romantica, fin dai suoi lavori su Schelling negli anni Venti, su Nietzsche a partire dagli anni Trenta, su Musset e Stendhal nel dopoguerra.

Beninteso, non si tratta qui soltanto del romanticismo come scuola letteraria del XIX secolo, ma della visione del mondo romantica, che si potrebbe definire – seguendo alcuni spunti di György Lukács – come una critica culturale della civiltà moderna, industriale capitalista, in nome di valori premoderni. Questa critica o protesta può prendere forme conservatrici o perfino reazionarie, ma anche forme utopiche e rivoluzionarie, alle quali appartengono i surrealisti, Guy Debord e… Henri Lefebvre.

È interessante a tale proposito confrontare il suo pensiero con quello di György Lukács, a cui spesso si sentiva piuttosto vicino. Mentre nei suoi scritti giovanili Lukács aveva largamente attinto dalla letteratura romantica – sia dalla letteratura che dalla filosofia e dalla sociologia tedesca – nei lavori successivi e soprattutto nel suo libro La distruzione della ragione (1953) egli sviluppa una posizione profondamente unilaterale: il romanticismo sarebbe solo un’ideologia reazionaria, senza alcun rapporto col marxismo e destinata, per il suo irrazionalismo, a favorire la nascita della cultura fascista.

Nonostante la sua ammirazione per il filosofo marxista ungherese, Lefebvre rifiuta di seguirlo su questo terreno; in una conferenza su Lukács del 1935, egli propone un’interpretazione alternativa:

 

Il romanticismo esprime il disaccordo, la distorsione, la contraddizione interiore dell’individuo, la contraddizione tra l’individuale e il sociale. Esso implica il disaccordo tra le idee e la pratica, la coscienza e la vita, le sovrastrutture e la base. Esso contiene, almeno virtualmente, la rivolta.  Per noi Francesi, il romanticismo conserva un atteggiamento antiborghese… Verità storica o errore, il carattere antiborghese e sovversivo del romanticismo si interpone fra noi e il classicismo. Da parte mia, non ho verso il romanticismo la diffidenza radicale che ha Lukács. Non potrei sacrificarlo totalmente[2].

 

L’adesione al potenziale sovversivo del romanticismo gioca un ruolo molto importante nell’evoluzione intellettuale e filosofica di Lefebvre. Anche la sua lettura di Marx sarà illuminata da questa prospettiva: per lui, gli scritti giovanili sono la manifestazione di un romanticismo rivoluzionario radicale, al quale le opere della maturità daranno un fondamento pratico e non speculativo[3]. Di qui il suo rifiuto dell’interpretazione strutturalista del marxismo, che pretende di escludere dall’opera marxiana la sua dimensione umanista e romantica e dissociare gli scritti giovanili da quelli della maturità, con una ipotetica «rottura epistemologica».

La critica della vita quotidiana, forse uno dei contributi più importanti di Lefebvre al rinnovamento del pensiero marxista, trova lì la sua fonte principale. Esaminando gli scritti del giovane Lukács e confrontandoli con quelli di Heidegger negli anni Venti, egli osserva: «Bisogna ricordare che questi temi – giudizio sulla realtà quotidiana come triviale, abbandonata alla cura, sprovvista di senso, che orienta la filosofia verso la vita vera o la vera vita e l’autenticità – proviene dal romanticismo. E più esattamente dal romanticismo tedesco: Hölderlin, Novalis, Hoffmann, etc.»[4]. Allo stesso tempo, Lefebvre tende a prendere le distanze rispetto alla problematica del romanticismo tradizionale (tedesco o francese) e in particolare dalle sue correnti favorevoli alla Restaurazione, col loro rifiuto totale della modernità e le loro illusioni nostalgiche. Il suo obiettivo è di superare i limiti del vecchio romanticismo e porre le fondamenta di un nuovo romanticismo, un romanticismo rivoluzionario rivolto verso l’avvenire.

Questa aspirazione è formulata in modo esplicito e sistematico in un testo programmatico che egli pubblica nel 1957 nella Nouvelle Revue Française, proprio nel periodo in cui egli conduceva dentro il Partito Comunista francese la lotta antistaliniana, che avrebbe portato di lì a poco alla sua espulsione («sospensione»).

Questo testo molto interessante è l‘abbozzo di una nuova interpretazione del marxismo e contiene il nucleo della visione del mondo che si manifesta nell’insieme della sua opera filosofica. Il titolo è Il Romanticismo rivoluzionario, Lefebvre precisa che egli distingue il vecchio romanticismo (da Novalis a Hoffmann a Baudelaire) da quello nuovo a cui si richiama: l’ironia romantica tradizionale «giudica l’attuale in nome del passato – storico o psicologico – idealizzato; essa vive nell’ossessione e nella fascinazione della grandezza, della purezza del passato». Non è questo il caso del nuovo romanticismo, a vocazione rivoluzionaria, che rifiuta questa nostalgia del passato. Esiste tuttavia una continuità essenziale tra le due forme. «Ogni romanticismo si fonda sul disaccordo, sulla dissociazione e la lacerazione. In questo senso il romanticismo rivoluzionario perpetua e addirittura approfondisce le vecchie dissociazioni romantiche, ma queste prendono un senso nuovo. La distanza (l’opportuna distanza) in rapporto all’attuale, al presente, al reale, all’esistente, è presa in nome del possibile e non del passato o della fuga»[5].

Mi sembra tuttavia che il riferimento al passato precapitalista o preindustriale sia un aspetto intrinseco a ogni forma di romanticismo, non solo quello conservatore o favorevole alla restaurazione, ma anche a quello rivoluzionario – anche se la sua funzione è molto diversa nei due casi.

Nell’opera stessa di Lefebvre la nostalgia del passato non è assente. Per esempio, nell’interessante capitolo della prima versione della Critica della vita quotidiana (1947), intitolato «Note scritte una domenica nella campagna francese», egli rimpiange «una certa pienezza umana» dell’antica comunità rurale, scomparsa da lungo tempo. Pur criticando i partigiani attardati del «buon tempo antico», egli non può impedirsi di sottolineare come «contro gli ingenui teorici del progresso continuo e completo, sia necessario mostrare la decadenza della vita quotidiana dopo la comunità antica e l’alienazione crescente dell’uomo». Nella sua tesi di dottorato sulla valle pirenaica di Campan – la cui versione originale (1941) era intitolata «Una repubblica pastorale» – egli descrive la dissoluzione, dopo l’impatto col capitalismo, della comunità rurale, per il degrado progressivo dei suoi «delicati equilibri tra popolazioni, risorse, superfici»[6].

Beninteso, nel nuovo romanticismo, orientato verso l’avvenire e il possibile, il senso di questa deviazione per il passato non è eguale a quella che avveniva nelle forme tradizionali della cultura romantica. Ma costituisce comunque una componente essenziale di ogni critica romantica della modernità industriale-capitalista.

Lefebvre tornerà su questa problematica nell’ultimo capitolo dell’Introduzione alla modernità (1962) intitolato «Il nuovo romanticismo». Ma in un modo o nell’altro, il romanticismo rivoluzionario è al centro di tutto il suo cammino di filosofo e di critico sociale. Esso ispirerà la sua rottura con lo stalinismo e le sue polemiche filosofiche con lo strutturalismo e il positivismo e la sua lotta politica contro lo statalismo e la tecnocrazia. Non è un caso se sarà proprio lui ad esercitare un’influenza intellettuale non secondaria sulla rivolta dei giovani nel Maggio ‘68, rivolta che ha innegabilmente una dimensione romantica rivoluzionaria.

Nel 1967, alla vigilia degli «eventi», Lefebvre pubblica un libro intitolato Contro i tecnocrati, che ha avuto probabilmente un impatto abbastanza diretto su alcuni dei leader del movimento studentesco. Richiamandosi sia a Fourier che a Marx, egli respinge la mitologia tecnocratica – nella sua forma reazionaria o di «sinistra» (per esempio la pianificazione autoritaria sovietica – e esamina da un punto di vista dialettico le contraddizioni della tecnica:

 

a) essa tende a chiudere la società, a occludere l’orizzonte (soprattutto con la cibernetica, che porta a compimento il ‘cosmo’ della quantità e della quantificazione del cosmo). La tecnicità diviene ossessiva e dunque determinante. Essa invade il pensiero e l’azione, fissa la loro frontiera;

b) Essa minaccia di distruzione questo mondo occluso, questo cosmo recintato, in cui l’unico possibile si riduce al funzionamento automatico e alla strutturazione d’equilibrio perfetto; essa devasta il mondo e può portare all’estremo queste devastazioni con l’annientamento nucleare;

c) Essa apre il possibile, a condizione che sia investita nel quotidiano.[7]

 

In alcuni testi del movimento studentesco del 1968 si ritrovano formulazioni quasi identiche. Per esempio in questa risoluzione adottata quando nacque il Movimento 22 marzo: «Questi fenomeni… corrispondono a un’offensiva del capitalismo, che ha bisogno di modernizzazione e razionalizzazione, automazione e divenire cibernetico della nostra società»[8]. Non c’è dubbio che a Nanterre ­– e altrove – Lefebvre sia stato uno degli ispiratori della contestazione «romantica» della società da parte della gioventù ribelle.

Nel suo saggio sugli avvenimenti di Maggio, Lefebvre ritorna sulla sua problematica. Egli polemizza con forza contro coloro che lui chiama «i modernisti», la cui sola ambizione è di rispondere alla «sfida dell’America» (un riferimento abbastanza trasparente a J.-J. Servan-Schreiber e ai suoi discepoli) e di «adeguare la Francia all’ordine computerizzato, finirla coi ritardi»: sono i «“recuperatori” per eccellenza del movimento», gente che ha «poca immaginazione e molta ideologia». Egli contrappone loro quelli che chiama i «possibilisti», cioè coloro che si spingono «fino a proclamare il primato dell’immaginazione sulla ragione», che esplorano il possibile e voglio realizzare tutte le sue potenzialità. Tra di loro, gli studenti in rivolta contro la mercificazione della cultura e del sapere, e la gioventù operaia che «va verso un romanticismo rivoluzionario, senza teoria, ma con l’azione»[9].

Dopo il Maggio 68, nel corso degli anni 70 e 80, Lefebvre è uno dei pochi marxisti che non accettano di rinnegare se stessi, che rifiuta di accodarsi al consenso conformista riguardo alla «modernizzazione» e tenta di rinnovare il pensiero socialista con una critica radicale del «modo di produzione statale» ­– che sia quello del capitalismo o quello del preteso «socialismo reale». In questi scritti si trova un’opposizione, di ispirazione tipicamente romantica, tra arte sovversiva e conformismo scientista dello Stato:

 

La scientificità, mista di conoscenza e di ideologia, di rappresentazione e di sapere, postula l’esistenza e il primato nel reale di ciò che essa richiede: il ripetitivo… con un effetto contrario, l’arte che mira all’intensificazione del vissuto punta sulla sorpresa e lo squilibrio creatore, sui conflitti fecondi. Senza riuscirci sempre. Se l’etica si ricollega alla ripartizione normativa degli atti e dei gesti, l’estetica dichiara la sua incompatibilità con norme etico-politiche… Il fatto è che gli Stati… mirano al ripetitivo, al prevedibile, ai meccanismi di autoregolazione… A scala mondiale, la burocrazia statuale determina atti, gesti e luoghi ripetitivi, contraddistinti da tecnicità e scientificità: aereoporti, autostrade, uffici, hotel, questionari, formalità e formalismi, etc. tutti di incontestabile utilità e funzionalità sovrana.[10]

 

Nel suo libro saggio sulla situazione attuale del pensiero critico, Perry Anderson, dopo aver constatato con rimpianto il declino o la diluizione delle idee rivoluzionarie in Europa, aggiungeva questo magnifico e commuovente omaggio, alla fine del suo primo capitolo:

 

Nessun cambiamento intellettuale è universale. Almeno un’eccezione, di valore altissimo, resta valida rispetto allo spostamento generale di posizioni degli ultimi anni.  Il più anziano sopravvissuto della tradizione del marxismo occidentale, Henri Lefebvre, non si piega e non arretra, anche ora a ottant’anni, continuando imperturbabilmente a produrre un’opera originale su soggetti tipicamente ignorati dalla più gran parte della sinistra.[11]

 

Il ritorno di interesse per le idee di Henri Lefebvre in questo inizio di secolo, potrebbe essere il segno di una svolta intellettuale di più ampia portata?

 

 

Note:

[1] L’articolo è inedito in francese. La traduzione è di Mario Pezzella.

[2] H. Lefebvre, Lukács 1955, Paris, Aubier, 1986, pp. 72-73. Cfr. anche H. Lefebvre, La somme et le reste, Paris, La Nef, 1958, vol. II, p. 422.

[3] H. Lefebvre, La somme et le reste, cit., p. 596.

[4] H. Lefebvre, Critique de la vie quotidienne, tome III, Paris, L’Arche, 1981, pp. 23-24.

[5] H. Lefebvre, Au delà du structuralisme, Paris, Anthropos, 1971, pp. 37, 46.

[6] H. Lefebvre, Critique de la vie quotidienne, tome I, Paris, Grasset, 1947, pp. 178, 211; e La vallée de Campan. Etude de Sociologie rurale, Paris, PUF, 1963, pp. 19-20. Cfr. anche la tesi di dottorato originale: Une république pastorale: la vallée de Campan. Organisation, vie et histoire d’une communauté pyrénéenne. Textes et documents accompagnés d’une étude de sociologie historique, Paris.

[7] H. Lefebvre, Vers le cybernanthrope (réedition de Contre les technocrates), Paris, Denoel-Gonthier, (1967) 1971, pp. 22-23.

[8] Citato da J. Baynac, «Le petit ‘grand soir’ de Nanterre», Le Monde, 27-28 marzo 1968, p. 2.

[9] H. Lefebvre, «L’irruption de Nanterre au sommet», L’homme et la société, n. 8, giugno 1968, pp. 65, 79.

[10] R. Sangla, Henri Lefebvre, documentaire, Interview avec Jacques De Bonis, 1988.

[11] Perry Anderson, In the Tracks of Historical Materialism, London, Verso, 1983, p. 19.