Beni comuni ad uso civico e collettivo urbano. Un’esperienza napoletana. Intervista di Mario Pezzella e Francesco Biagi a Nicola Capone

Beni comuni ad uso civico e collettivo urbano. Un’esperienza napoletana. Intervista di Mario Pezzella e Francesco Biagi a Nicola Capone

23 Settembre 2019 Off di Francesco Biagi

[Pubblichiamo l’intervista a Nicola Capone condotta da Mario Pezzella e Francesco Biagi uscita da poco nel n. 4 (luglio-agosto) 2019 della rivista “Il Ponte”, pp. 24-36]  

 

Beni comuni ad uso civico e collettivo urbano. Un’esperienza napoletana

Intervista di Mario Pezzella e Francesco Biagi a Nicola Capone[1] per “Il Ponte”

 

 

Puoi brevemente ricordare per un lettore che non ne sappia niente la storia e l’origine dell’ex Asilo Filangieri?

Vorrei in via preliminare dire che il mio punto di vista sull’esperienza dell’exAsilo Filangieri è assolutamente parziale e situato; condizionato dalla mia condizione sociale, dalla mia pregressa esperienza culturale e politica e infine dalla mia attività didattica e di ricerca. Per avere un quadro della pluralità e diversità dei punti di vista invito a visitare il sito de l’Asilo[2] (nella sezione “l’Asilo”), in cui è possibile trovare una ricca rassegna stampa, saggi di approfondimento, reportage e tanto altro.

Nel marzo del 2012, quando fu occupato l’immobile denominato exAsilo Filangieri, io ero da ricercatore e insegnante precario impegnato nelle Assise della città di Napoli; una libera accademia fondata nel 1991 da Gerardo Marotta, Antonio Iannello ed Elena e Alda Croce. Dal 2006, in qualità di Segretario generale – incarico che ho svolto fino al 2015 – insieme ad un nutrito gruppo di giovani ricercatori e ricercatrici, con l’ausilio di giuristi, magistrati, medici, geologi, urbanisti, ero impegnato nel movimento di contestazione ecologica in difesa del territorio, dell’ambiente e del paesaggio. La Campania e molte altre regioni del mediterraneo erano state destinate dal sistema industriale e malavitoso a discariche di rifiuti tossici. La cosiddetta “crisi dei rifiuti”, che in quegli anni era stata assunta quale paradigma dell’endemica arretratezza culturale e antropologica delle popolazioni del Sud, non era altro che la copertura mediatica di una ben più drammatica emergenza. I rifiuti urbani, letteralmente, occultavano il traffico illecito dei rifiuti tossici e nocivi, scarti di produzione di vario tipo, che hanno irrimediabilmente compromesso il nostro ambiente di vita[3]. Quelli sono gli stessi anni in cui si scrive il Codice dell’ambiente e si istituisce la Commissione Rodotà sui Beni comuni. Due momenti istituzionali in cui fanno eco molte delle istanze provenienti dalle lotte sociali e in cui come Assise eravamo direttamente implicati. Un esito di questo vasto movimento fu la vittoria del referendum per impedire la privatizzazione del sistema idrico. Il movimento per l’acqua pubblica e quello in difesa dell’ambiente confluirono in una battaglia comune a cui parteciparono anche gli studenti e le studentesse, e in generale i precari della ricerca, organizzati nel movimento dell’Onda. Dalla vittoria referendaria non solo l’acqua fu rivendicata come “bene comune” ma si assistette in tutto il paese a manifestazioni per rivendicare i “Beni comuni”, quali beni funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e dei bisogni socialmente rilevanti. Ecco, io insieme a tanti e tante altre, che da precari della ricerca e della cultura eravamo stati attivi insieme alle popolazioni locali nella difesa dell’ambiente, del paesaggio e del territorio vedemmo nei beni comuni uno spazio politico e culturale per tessere nuove alleanze e continuare a “cospirare”, a respirare insieme, alle nuove soggettività emergenti.

Questa volta ad aprire il varco ad una nuova stagione di lotte fu il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici dell’arte, dello spettacolo e della cultura, con una serie di occupazioni di teatri, immobili inutilizzati o abbandonati. Vale la pena ricordare un po’ di date. Il 12 e il 13 giugno del 2011 si votava per il referendum per l’acqua pubblica; il giorno seguente, il 14 giugno, mentre ancora si scrutinava, il Teatro Valle di Roma veniva occupato. I compagni e le compagne con quell’occupazione misero in scena un’inedita pratica politica collettiva; come scrissero allora, compirono un gesto di riappropriazione che “istituì uno spazio pubblico di parola”. Uno spazio in cui le diverse lotte vive in quegli anni provarono ad allearsi e a comporsi. Il motto che campeggiava dai palchi del teatro, quasi fosse un monito per tutti e tutte noi, era “Quanto è triste la prudenza”!

Il 2 marzo del 2012 anche a Napoli si decise di non essere prudenti. Un nutrito gruppo di lavoratrici e lavoratori dell’immateriale occupò l’immobile conosciuto come ex Asilo Filangieri, nel cuore dei decumani della città greco-romana. Un interstizio situato tra via Tribunali e via San Gregorio Armeno; un angolo del monumentale complesso di San Gregorio Armeno risalente alla seconda metà del Cinquecento. Questo pezzo di mondo antico nel primo dopo guerra fu acquistato dalla contessa Giulia Filangieri di Candida che in memoria di suo figlio Ugo lo destinò agli orfani e alle orfane di guerra. Dopo il terremoto del 1980 l’edificio fu abbandonato e ristrutturato per essere affidato alla Fondazione Forum Universale delle Culture, che a Napoli dal 2013 al 2015 avrebbe dovuto “finanziare” una serie di grandi eventi. È proprio contro la logica dei grandi eventi che quella parte della cultura napoletana che da sempre sconta la mancanza di spazi e infrastrutture per la produzione artistica e culturale indipendente decise di reagire. Non mancarono altri episodi simili, come quando nella primavera dell’anno prima fu occupato simbolicamente il PAN (Palazzo delle Arti di Napoli), da parte del collettivo “Urto”, un gruppo di artisti visivi e performers che fece da innesto in città al processo di occupazioni di spazi istituzionali destinati alla cultura, promuovendo mostre e dibattiti. Fra le tante iniziative segnalo il progetto Ar.C.A.Na. – Archivio Corrente Artisti Napoli – un contenitore digitale e analogico per rendere accessibile il panorama degli artisti campani o comunque entrati in relazione col territorio campano.

Quello che si rivendicava erano spazi per la sperimentazione, mezzi di produzione, luoghi in cui i lavoratori e le lavoratrici dell’arte, dello spettacolo e della cultura potessero autogovernarsi e in autonomia produrre arte e cultura e insieme riprodurre le condizioni stesse di quest’altro modo di esercitare la libertà di ricerca. Insomma si voleva spezzare quel legame patologico fra arte, cultura e potere politico e la prima cosa per farlo era dotarsi di spazi e di mezzi di produzione collettivi, senza i quali si è spogliati di tutto e si è ridotti a pura forza lavoro.

 

Qual è la situazione attuale dell’ex-asilo Filangieri dal punto di vista politico e legale?

Una cosa mi preme mettere in evidenza. Fin dall’inizio e lungo tutti questi anni la sperimentazione dell’Asilo è stata costantemente in contatto con gli altri spazi autogestiti: prima di tutto con il Teatro Valle Occupato di Roma, ma anche con Macao di Milano, Sale Docks di Venezia, la Cavallerizza di Torino, il Nuovo Cinema Palazzo di Roma, il Teatro Mediterraneo Occupato di Palermo, il Teatro Rossi Aperto di Pisa e tanti altri. Il luogo privilegiato per molti anni fu la “Costituente dei beni comuni” che, partita dal Teatro Valle, riprendeva i lavori della Commissione Rodotà e in modo itinerante mise a confronto il mondo della ricerca con quello dei movimenti, nel tentativo di trovare soluzioni teorico e pratiche ai tanti temi sollevati dalla questione dei beni comuni. Quegli incontri presieduti da Rodotà furono un’opportunità di crescita e di confronto per tutte le realtà coinvolte.

Recentemente, il 17 febbraio 2019, abbiamo ripreso quel percorso – senza la pretesa di sentirci eredi di nulla, ma piuttosto ci siamo mossi con l’attitudine di chi è stato testimone di qualcosa di importante – per costruire una rete nazionale dei beni comuni. A Napoli quel giorno erano presenti 46 esperienze provenienti da 29 diverse città per un totale di circa 300 partecipanti[4].

 

Cosa accomuna tutte queste esperienze?

Tutte le esperienze evocate sono fondate – o almeno tendono a questa forma di fondazione – su un uso non esclusivo, non competitivo e non identitario dello spazio e soprattutto sono realtà per le quali l’uso collettivo dei beni e dei luoghi è essenzialmente indirizzato alla costruzione di spazi di relazioni fondate sul riconoscimento e l’interdipendenza, al fine di scardinare la logica proprietaria, per la quale al centro c’è sempre un “chi”, un soggetto giuridico ben determinato, che ha l’uso esclusivo della cosa. In questi casi, invece, il cuore della questione è il “come”, ovvero le “modalità d’uso e di azione” che sono consentite ad una pluralità di soggetti che entrano in relazione a determinati beni. Riconoscere l’uso civico e collettivo come qualità intrinseca di un bene significa cambiare la natura stessa del bene. Senza questa metamorfosi i rapporti resterebbero sempre ridotti, in un modo o nell’altro, a quelli esistenti tra il proprietario e il locatore.

Questo secondo me ha una portata politica enorme. I beni comuni ad uso civico e collettivo urbano sono beni di natura non proprietaria animati da una costante sperimentazione da parte di comunità informali, volta a cercare un altro modo di fare comunità, un altro modo di produrre e riprodurre beni e rapporti sociali, che vanno oltre l’individualismo proprietario. In questa prospettiva, le forme giuridiche, le forme di gestione, le diverse sperimentazioni economiche, sono strumenti importanti ma non il fine; sono vie attraverso le quali rafforzare alcune modalità di relazione e ampliarne lo spettro d’azione, fino a segnare lo stesso diritto amministrativo in cui si fissano i rapporti di proprietà.

Dico questo perché oggi le due forme di alienazione più insidiose dell’essere umano – sotto il regime capitalistico – sono ancora quelle individuate da Marx, ovvero, l’alienazione dell’essere umano da sé stesso e dalla natura. Queste due forme di alienazione producono una tale indifferenza e una tale incapacità di “sentire”, di essere “empatici”, di entrare autenticamente in relazione con l’alterità, da rendere i nostri rapporti con il vivente nel suo divenire sostanzialmente feroci. E questo estraniamento rischiamo di trasporlo, a causa degli automatismi di cui siamo portatori, anche nell’esperienze dei beni comuni, perché anche su quel piano capita spesso di agire come esseri umani “a una dimensione”, così come ci ha ridotti il capitale, e non importa se l’unidimensionalità del nostro essere riguarda la cosiddetta militanza politica. Mi verrebbe da dire, citando un vecchio adagio punk, “i soviet più l’elettricità non fanno il comunismo”.

Fatta questa premessa forse si capisce meglio quella formula che tanto inquieta alcuni amministratori e genera altrettanto scetticismo nell’osservatore esterno: i beni comuni ad uso civico e collettivo urbano a Napoli non sono assegnati a nessuno. Se si osservano da una parte le diverse sperimentazioni in corso e dall’altra la produzione amministrativa relativa ai beni comuni, anche se sono vive alcune contraddizioni – segno di un processo vivo e in opera – si possono notare, a mio parere, almeno quattro caratteristiche fondamentali. La prima è che in ogni esperienza di beni comuni c’è stata una comunità informale e aperta che ha incominciato ad utilizzare uno spazio, anche solo per renderlo disponibile al quartiere ed esercitare attraverso esso il diritto di incontrarsi e prendere pubblicamente parola. La seconda riguarda la capacità delle comunità di riferimento di definire collettivamente e autonomamente le modalità d’uso dello spazio e le modalità di decisione idonee a quello spazio, attraverso la scrittura di dichiarazioni d’uso civico e collettivo che hanno la funzione, da una parte, di salvaguardare il bene anche a tutela delle future generazioni, e, dall’altra, di garantire l’accessibilità, la fruibilità, l’inclusività e l’imparzialità, istituendo in tal modo le condizioni per un uso collettivo, plurale e non esclusivo del bene. La terza consiste nel fatto che la pubblica amministrazione ha saputo interpretare le sperimentazioni in atto e di conseguenza ha cambiato la destinazione d’uso degli immobili, riconoscendoli come beni comuni, cioè come beni funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e dei bisogni socialmente rilevanti, nonché al libero sviluppo della persona umana nel suo contesto ecologico. La quarta è il riconoscimento da parte della pubblica amministrazione della capacità autonòmica delle comunità di riferimento. Un riconoscimento quest’ultimo importantissimo perché in tal modo le dichiarazioni d’uso elaborate nelle sperimentazioni diventano modalità d’uso di una parte dello spazio pubblico, diventano, cioè, un patrimonio e una modalità dell’intera comunità.

Per meglio rendere la portata di questo processo vorrei sottoporre riprendere alcuni brevi passaggi della delibera che riconosce l’esperienza de l’Asilo, la 893 del 2015. In questo atto amministrativo viene affermato in premessa – il corsivo è mio – «che è ferma convinzione della Civica Amministrazione che il Comune, quale ente di prossimità al cittadino e soggetto esponenziale dei diritti della collettività, debba garantire un governo pubblico, partecipato e condiviso di servizi pubblici, beni comuni e di utilità collettive e che la Civica Amministrazione ha dato e dà costante e fermo impulso allo sviluppo di una nuova forma di diritto pubblico che protegga e valorizzi i beni funzionali alla tutela ed allo sviluppo dei diritti fondamentali, come beni di appartenenza e uso comune, civico, collettivo e sociale e come veri e propri “ambienti di sviluppo” civico». Laddove poi viene riconosciuta la capacità autonòmica della comunità di riferimento de l’Asilo si riconosce anche «l’alto valore sociale ed economico generato dalla partecipazione diretta dei cittadini alla rifunzionalizzazione degli immobili che si estrinseca nella messa a disposizione comune di tempo e competenze, beni e attrezzature, indirizzati a rendere fruibili e accessibili le strutture alla cittadinanza tutta». Questa forma di «redditività civica», caratterizzata da esternalità economiche positive generate dall’uso civico e collettivo di un bene comune, ha determinato l’Amministrazione a concorrere, «nei limiti delle risorse disponibili», «agli oneri di gestione e a quanto necessario per garantire un’adeguata accessibilità dell’immobile e a quanto necessario per garantire lo svolgimento in sicurezza delle attività e la tutela dell’immobile da eventuali danneggiamenti vandalici». Infine, la Civica amministrazione con questa delibera «agevola», riconoscendole, «iniziative di autofinanziamento» – quali donazioni, ovvero, «contributo o in forma di tariffazione sociale (interamente e pubblicamente rendicontata attraverso forme di bilancio partecipativo)» – «l’auto sostenibilità dei progetti attraverso il recepimento di fondi pubblici e privati» e il «crowdfunfing». Questo riconoscimento è possibile perché si prende atto che tutte le attività promosse dalla comunità di riferimento sono finalizzate «alla dotazione di mezzi di produzione necessari e comunque sempre finalizzati all’uso comune e al sostegno delle attività di produzione artistica».

Mi pare chiaro che ci troviamo dinanzi ad una possibilità inedita e questo grazie alla resistenza e alla resilienza di tutte quelle persone che decidono quotidianamente di fare uso della loro libertà. Ora si tratta di inscrivere queste modalità nella struttura profonda della città, vale a dire, inscrivere gli usi civici e collettivi urbani nei piani urbanistici e nei regolamenti di gestione del patrimonio pubblico. Questo significherebbe riconoscere la giuridicità degli usi civici e collettivi, che è bene ricordarlo sono fonte del diritto (art. 8 Disp. Prel. Del Cod. Civ.) ed hanno “efficacia” proprio quando sono “richiamati” nei regolamenti e nelle leggi – e i piani regolatori hanno natura normativa, perché attuativi della legge che li istituisce (L. 1150/1942).

Gli usi civici e collettivi, in quanto fonte del diritto, nel momento in cui vengono riconosciuti rappresentano una qualità oggettiva, strutturale del bene, determinandone una metamorfosi: i beni strutturalmente si aprono all’uso della comunità, la quale a questa condizione può sperimentare forme di autogoverno e di gestione coerenti con la natura non proprietaria del bene. In estrema sintesi, non si tratta di dare giuridicità agli usi attraverso regolamenti o altra forma di pattuizione, ma piuttosto è importante riconoscere la giuridicità degli usi collettivi in quanto fonte del diritto. Questi per essere tali devono avere alcune caratteristiche come ad esempio una certa ripetitività e sopratutto le modalità d’uso che si stabiliscono collettivamente nel tempo debbono essere percepite dalla comunità stessa come un’auto-obbligazione. In questo contesto le dichiarazioni d’uso sono la “condizione”, sotto forma di “auto-obbligazione”, che consente l’uso collettivo di un bene; la novità sta nel fatto che questo “vincolo” non è imposto autoritativamente dalla pubblica amministrazione ma è il risultato delle sperimentazioni.

Ecco perché preferisco per queste esperienze la denominazione di “beni comuni ad uso civico e collettivo urbano”. In questa formulazione i beni comuni non sono intesi come “norma tassonomica” che necessita di una classificazione per tipologia (beni comuni naturali, beni comuni urbani, beni comuni montani e via così all’infinito). I beni comuni, nell’interpretazione che mi convince di più, sono piuttosto un “dispositivo ermeneutico”, una “norma di riconoscimento” che permette al legislatore, all’amministratore e ai consociati di individuare, di riconoscere – attraverso un processo di interpretazione dei fatti e delle decisioni messe in campo –  quali sono quei beni che sono funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e dei bisogni socialmente rilevanti. Gli usi civici e collettivi urbani – recuperando l’antica tradizione degli usi civici, viva soprattutto in ambito rurale – sono lo strumento amministrativo che permette di svincolare questi beni dal regime di uso esclusivo in capo al “titolare”, sia esso pubblico che privato. I consociati sono così ammessi istituzionalmente a godere direttamente dei beni comuni, per i quali la pubblica amministrazione rimuove gli ostacoli di ordine amministrativo e “materiale” per permettere alle comunità di riferimento di rendere economicamente ed ecologicamente autosufficiente la vita in questi spazi.

 

Che tipo di attività culturali sviluppate all’interno del Filangieri? Teatro, cinema, letteratura? Due o tre esempi che consideri particolarmente significativi di ciò che avete fatto.

La ricchezza delle attività culturali e artistiche de l’Asilo mi rende difficile rispondere a questa domanda. Basta accedere al sito per rendersi conto di tutta la ricchezza creativa che attraversa questo spazio[5]).

Solo per dare sommariamente un’idea citerei sicuramente il “Grande Vento”, che ogni anno dal 2012, a fine dicembre, coinvolge il maggior numero possibile di artisti e di artiste nella costruzione di una tre giorni di arte, musica, teatro, danza e tanto altro. Il tutto è organizzato senza una direzione artistica ma sulla base della cooperazione, del mutualismo e del coworking. Sono i partecipanti al “Grande Vento” che si organizzano per realizzare al meglio l’evento[6]).

L’altro evento che coinvolge decine di artisti e artiste è la “Feira”. Nata nel 2018 in collaborazione con il Projeto Ativa di Salvador de Bahia e realizzata in collaborazione con lo Scugnizzo liberato, è una tre giorni in cui  illustratori, stampatori, serigrafi ed editori indipendenti si danno appuntamento per esporre le loro opere e condividere percorsi ed esperienze artistiche, trovando così uno spazio di espressione nonostante la morsa del mercato editoriale sempre più dominato dalle grandi catene di distribuzione[7].

Dal punto di vista musicale va sicuramente segnalato il progetto “Geografie del suono” che ha ospitato 53 appuntamenti musicali in cui musicisti provenienti da tutto il mondo hanno incontrato artisti campani[8]. Per quanto riguarda il cinema numerosissime sono le rassegne di film, non ultima “Femminile plurale. Voci dall’intimità” che propone opere di registe donne che è impossibile, o quasi, incontrare nei circuiti ufficiali. I film proiettati sono stati La sorridente signora Beudet di Germaine Dulac, Je, Tu, Il, Elle di Chantal Akerman, Baxter, Vèra Baxter di Marguerite Duras, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller e Senza tetto né legge di Agnès Varda[9].

Sempre in ambito cinematografico vorrei ricordare “Kino”. Si tratta di un movimento di cinema indipendente nato nel 1999 in Canada, che si è progressivamente diffuso nelle maggiori città del mondo, formando un network di filmmakers e promuovendo una volta all’anno, ogni volta in una città diversa, il cosiddetto “Kino Kabaret”, un evento che dura dai 3 ai 9 giorni, in cui si creano e si proiettano lavori audiovisivi di ogni specie e genere. Il “Kino Napoli” con questo spirito organizza da diversi anni a l’Asilo una jam session cinematografica durante la quale gruppi di filmmakers e attori si incontrano e, in meno di 72 ore, creano, girano e montano i loro lavori[10].

Dal punto di vista scenico segnalo la Scuola Elementare del Teatro – conservatorio popolare per le arti della scena che dal 2013 è diventata un punto di riferimento per chiunque consideri l’arte un Bene pubblico, accessibile a tutti e tutte. È da sottolineare che la Scuola dà priorità d’accesso a persone in condizione di disagio economico e sociale e con disabilità fisica e intellettiva; l’eterogeneità che ne scaturisce ha l’obiettivo di evitare “ghetti” culturali o classi “speciali” e di attivare una presa in carico seria ed adeguata dei soggetti più fragili. Dalla nascita ad oggi ha ospitato oltre duecento partecipanti, quindici gruppi di ricerca teatrale e performativa e quattro progetti in scena riconosciuti a livello nazionale[11]. Menzionerei anche la rassegna teatrale Teatro civile meridionale che usa l’incontro col palcoscenico per ritessere legami orizzontali fra le Italie del Sud così da consentire a ciascuna di cogliere la specificità che le distingue e il filo che le accomuna[12]. Importante è inoltre Sharing Project Napoli, un network aperto e autogestito di professionisti e professioniste del settore della danza e delle arti performative per promuovere la condivisione di pratiche e percorsi di ricerca legati al corpo[13].

Un segnale importante per rivendicare uno spazio di autonomia e indipendenza delle lavoratrici e dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo sono stati il Focus Danza e il Focus Teatro; dei veri e propri percorsi curatoriali dal basso, che, sovvertendo la logica delle direzioni artistiche e delle programmazioni da cartellone, hanno consentito alle artiste e agli artisti del settore delle arti performative (teatro, danza, abilità aeree, circo, performance) di rispondere ai bisogni, alle necessità e alle carenze del sistema teatrale. Un’alleanza nata dal bisogno di allenare gli sguardi oltre la prospettiva puramente estetica, per creare momenti di condivisione non convenzionali con il pubblico e la critica, per richiamare il teatro alla sua funzione primaria di assemblea, o meglio, di «comunità come corpo vivo»[14].

Dal punto di vista dell’impegno civico I Laboratori del Carnevale Sociale rappresentano uno dei momenti più significativi tra le tante iniziative di carattere sociale organizzate a l’Asilo. Si tratta di un coordinamento tra diversi realtà impegnate sul territorio che ha l’ambizione di riconquistare o di creare, in modo colorato e giocoso, spazi di socialità e di crescita per i bambini e le bambine dei quartieri napoletani. Attraverso lo sberleffo e l’ironia con la pratica del corteo del Carnevale si portano per le strade della città proposte irriverenti e utopiche, le stesse che quotidianamente si prova a costruire nei tanti spazi “liberati” della città. Per le strade si porta la festa e la gioia di vivere contro l’oppressione quotidiana. È un modo di esibire cuori non arresi, volti che non hanno dismesso il sorriso, menti che non hanno smesso di pensare e che proprio per questo continuano a tessere legami e relazioni.

Infine non mancano le presentazioni di libri e i dibattiti interessantissimi con le autrici e gli autori che animano la biblioteca de l’Asilo. Tra le serie di presentazioni menzionerei Verso un’ecologia delle relazioni in cui studiose e studiosi, attiviste e attivisti si sono confrontati su un tema centrale per l’esito delle sperimentazioni in corso; come, cioè, nella pratica quotidiana dei beni comuni si possa superare la logica amico/nemico e vincere il riflesso condizionato che ci procura una visione del mondo fondata su di un’antropologia negativa, per cui siamo “per natura” tutti in competizione l’uno con l’altra. La naturalizzazione della legge del più forte tende a depoliticizzare la violenza di certi tipi di relazione e dà come unica soluzione pratiche di conflitto che non costruiscono mai l’alternativa possibile e concreta.

 

Come si potrebbe definire l’attività culturale del Filangieri rispetto alla città, alle sue contraddizioni e alla sua storia culturale?

Per ora l’Asilo sconfessa uno dei motivi dominanti fra le classi sociali che storicamente hanno “fatto cultura” in città. Si può fare cultura – cioè esercitare il sapere nel confronto fra i soggetti che producono i saperi – malgrado loro, nonostante la loro rete di favori. Si può produrre cultura fuori dai luoghi istituzionalmente deputati alla produzione culturale. Si può essere uomini e donne di cultura senza diventare la maschera del potere. L’Asilo Filangieri pone le premesse affinché emerga un nuovo tipo di intellettuale; un soggetto concreto che dismetta la supponenza e l’arroganza propria di un certo intellettualismo elitario (da casta politica), che abbandoni la mistica dei salvatori della patria e spezzi gli steccati disciplinari (professionalizzanti); un tipo umano che faccia della cultura non uno strumento di privilegio e di carrierismo sociale, ma un mezzo per ristabilire e riscoprire legami profondi fra noi e il mondo; legami sociali ed ecologici che possono permetterci di riconoscerci gli uni attraverso le altre. Solo il profondo amore per la vita che viene dalla ricomposizione dei legami spezzati può resistere attivamente all’odio di un sistema che ovunque distrugge. Tutto ciò non ha niente di irenico. Ogni legame è storicamente e socialmente determinato, ecco perché insieme alla gioia del conoscere ci vuole il rigore del conoscere. Ristabilire legami sociali ed ecologici significa lottare contro istituzioni e blocchi di interesse ferocissimi che richiedono una grande cura di sé, una cura certosina nel costruire e difendere gli spazi dell’elaborazione e della produzione di saperi alternativi a quelli dominanti. Perché è solo attraverso un altro modo di conoscere e dunque di relazionarsi che si può costruire un altro mondo possibile. L’Asilo e gli spazi come l’Asilo sono il prologo a tutto ciò. Siamo solo all’inizio, ma è questo inizio a fare paura. Il problema è come evitare l’isolamento, il che significa domandarsi come e con chi creare alleanze. Una risorsa a mio parere è la cosiddetta “plebe” napoletana, che io preferirei definire più classicamente sottoproletariato urbano. Il termine “plebe” è una marcatura di classe che una certa borghesia stracciona ha usato e usa per definire l’altro da sé, per distinguere la città degna da quella indegna. La “plebe” è spazialmente individuabile perché abita i quartieri che il risanamento di fine Ottocento non riuscì a bonificare. Diciamo pure che a Napoli il modello di città tutta borghese non ha vinto del tutto. Resistono coloro che si ostinano a stare fuori dalla storia. Il tema è proprio questo. Alla cosiddetta “plebe” noi dobbiamo il non essere stati del tutto annientati dalla storia borghese. Napoli resiste perché qui c’è un pezzo di umanità che in modo arcaico non ha permesso che il cerchio della modernità si chiudesse.

È il sottoproletariato urbano che ha fatto da ostacolo, insieme ad una sparuta minoranza di intellettuali che in questo non compiersi della storia borghese non ha visto la fine della storia ma la possibilità di una storia altra. Ecco perché io credo che è dal sottoproletariato urbano e dalle periferie che verrà l’energia politica e culturale che può fare da pietra di inciampo. Il lavoro culturale deve allearsi con questa parte della città, elaborare strumenti per saper entrare in contatto con questa immensa vitalità, evitando ogni forma patetica di pedagogia e di pietismo sociale. La cultura, l’arte, lo spettacolo devono elaborare un linguaggio nuovo, formare un pubblico nuovo, diventare strumento per una trasformazione radicale dello stato di cose presenti. E per farlo bisogna guardare a chi è stato escluso da tutto ciò. Non è utopico pensare a ciò. C’è un grande bisogno di una visione alternativa che liberi dalla minaccia del futuro che è stata inoculata nel midollo di ognuno di noi.

 

Quale rapporto con la gente e i ragazzi del quartiere in cui si trova il Filangieri?

È in questo quadro che si inscrive il rapporto con coloro che abitano il quartiere. A noi mancano ancora gli strumenti e i saperi e forse la sensibilità per creare una relazione di alleanza con gli abitanti del quartiere. Quando dicevo che l’Asilo è il prologo, che è solo l’inizio intendevo dire proprio questo. Per ora stiamo lavorando per ricavare una dimensione di libertà nello spazio occluso della città. Stiamo faticosamente cercando di riconoscerci, di riconnetterci. Per fortuna fin da subito il mondo del quartiere ha fatto irruzione nello spazio con tutto il carico di contraddizioni che questo comporta, e non a caso si è manifestato a noi con il volto dei bambini, molto spesso quegli stessi bambini che a distanza di qualche mese entrano malauguratamente a far parte della “paranza”, del sistema criminale. L’Asilo potrebbe essere per molti di loro una scuola senza porte né sbarre alle finestre in cui imparare senza mortificare l’entusiasmo e la curiosità per la vita. Una scuola per loro e per noi. Per fortuna tra coloro che attraversano l’Asilo ci sono delle persone che non sopportano l’indifferenza rispetto a questo tema e mediante diversi tavoli di lavoro da anni sensibilizzano tutta la comunità su questo tema praticando alternative concrete, faticosissime, come il carnevale sociale, la squadra di calcio, laboratori di disegno, ginnastica artistica. L’infanzia non dovrebbe mai essere tormentata, e il tormento più grande per un bambino e una bambina è la mancanza dello spazio destinato al gioco. Se questo ambiente viene meno si compromette irrimediabilmente la loro capacità di immaginazione e creazione.

 

Che giudizio dai dell’esperienza amministrativa di De Magistris? Come la valuti in rapporto all’attuale contesto nazionale?

Ci sono sicuramente tre meriti di questa amministrazione. Il primo è di aver interrotto quel criminoso collegamento tra funzionari pubblici, settori deviati dell’imprenditoria cittadina e criminalità organizzata. La risposta a quest’azione furono cassonetti dati alle fiamme e diverse altre “manifestazioni” di non gradimento. Il secondo merito è di non aver ostacolato la protesta sociale e nemmeno averla in qualche modo sussunta. L’amministrazione a guida De Magistris si è messa in ascolto. Senza questo spazio di reciproca autonomia difficilmente l’esperienza dei beni comuni poteva maturare così com’è successo. Il terzo merito è di non aver svenduto il patrimonio pubblico e tagliato i costi dei servizi essenziali.

 

Ci sono contraddizioni?

Certo! A mio parere, per esempio, non è maturata ancora una visione coerente della città. La composizione politica dell’esperienza De Magistris è ancora troppo disomogenea e non si sono formati quadri politici autonomi dalla leadership del sindaco. Questo è un grande limite a cui andrebbe trovato un rimedio. Oggi in città ci sono temi come quelli del debito, dei migranti, dei senza fissa dimora, dei servizi sociali essenziali, del turismo e della conseguente gentrificazione dello spazio urbano che necessitano di una riflessione larga e di una elaborazione approfondita, che coinvolga larghi strati della popolazione.

 

Napoli può rappresentare un’alternativa?

Napoli può sicuramente essere un laboratorio politico e in parte lo è, ma per dare risultati concreti deve insistere nel fare rete con altre esperienze; lavorare alla formazione di leadership plurali che sfuggano alla personalizzazione della politica; rendere praticabile un municipalismo che faccia perno sulla partecipazione degli abitanti alle decisioni politiche attraverso nuove istituzioni democratiche. Qualsiasi forma di trascendenza politica ha bisogno di un piano di immanenza vivo e ricco di energia politica. Senza questo presupposto si è catturati in una macchina mediatica che non è possibile governare. Io mi sono convinto in questi anni che la politica nazionale può trovare un argine solo nelle esperienze politiche locali. Il piano nazionale è mediato dal consenso elettorale che richiede – allo stato attuale – un imbarbarimento del pensiero e del linguaggio e soprattutto della prassi politica. Forse, in questa fase storica solo a livello locale si può cercare di restare in connessione con i veri bisogni di tutti e tutte noi. L’esempio napoletano, migliorato e affinato, potrebbe essere un modello per altre esperienze municipali; potrebbe essere una delle basi da cui iniziare a costruire spazi per condividere soluzioni e prospettive. Insomma, credo che non dobbiamo creare leader o organizzazioni egemoniche che facciano da catalizzatori delle varie esperienze di lotta. Ormai muoversi su questo terreno è di cattivo gusto. A mio parere vanno costruite alleanze; alleanze fra tutte le soggettività impegnate in una lotta di resistenza creativa, ostinatamente tese verso utopie concrete.

Uno strumento per questa politica delle alleanze potrebbe essere la costruzione di nuove istituzioni democratiche attraverso cui catturare la decisione politica e ridistribuire il potere di decidere, di prendere parola sulle scelte che riguardano la collettività. Vanno inventate istituzioni fondate su “assemblee pubbliche con pubblico contraddittorio” come per anni ci ha ricordato quel meraviglioso anarchico che è stato Giacomo Buonomo, scomparso un po’ di tempo fa e che ho avuto la fortuna di conoscere alle Assise della città di Napoli. Questo livello d’azione, inoltre, ci permetterebbe di lavorare per “depatriarcalizzare”, o come dicono a Barcellona per “femminilizzare”, la prassi politica. Questo significa che prima di tutto, ogni azione politica, anche quando è rivolta contro il nostro peggior nemico, deve essere proiettata a creare comunità, tessere relazioni, a costruire spazi costituiti da identità inclusive, in cui sia manifesta la possibilità, qui e d’ora, di un altro mondo possibile.

In questa direzione sono state istituite a Napoli la Consulta per l’audit sul debito e l’Osservatorio dei beni comuni[15]. Un antecedente a livello regionale fu il Forum civico regionale sull’emergenza rifiuti, istituito per volontà popolare nel 2008 e che per circa due anni permise ai tanti comitati di audire cariche pubbliche e funzionari e divenne il luogo di elaborazione del piano alternativo per la gestione dei rifiuti che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento.

Tutto questo è solo il prologo, una premessa. Solo se si lascerà aperta la possibilità della sperimentazione e della verifica costante dei risultati potremmo lavorare dall’interno il corpo acefalo del capitale.

 

 

Note:

 

[1] * Nicola Capone (https://nicolacapone.academia.edu), laureato in Filosofia, si è formato presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Attualmente è docente di storia e filosofia nei Licei e PhD/cultore della materia in Filosofia del diritto presso l’Università degli studi di Salerno (Laboratorio “H. Kelsen”). Fra i temi più recenti della sua attività scientifica vi sono la relazione fra norma e spazio nella prospettiva del diritto costituzionale e della ecologia politica, i beni comuni e gli usi civici e collettivi urbani. In questa prospettiva si segnalano fra gli altri Del diritto d’uso civico e collettivo dei beni destinati al godimento dei diritti fondamentali («Politica del diritto», dicembre 2016); The concrete Utopia of the Commons. The right ofCivic and collective useof public (and private) goods («Philosophy Kitchen», ottobre 2017); Beni comuni, usi civici e comune: oltre la logica proprietaria, in La rivolta della cooperazione. Sperimentazioni sociali e autonomia possibile, a cura di A. Fumagalli, G. Giovannelli, C. Morini (Mimesis 2018); Ecodomìa del comune («Quadranti – Rivista Internazionale di Filosofia Contemporanea», n. 2, 2018; la curatela, insieme a G. Preterossi, del volume di Stefano Rodotà, Beni comuni. L’inaspettata rinascita egli usi collettivi (La scuola di Pitagora 2018).

[2] http://www.exasilofilangieri.it/approfondimenti-e-reportage/)

[3] (http://www.napoliassise.it/Nuovolibrettorifiuti.pdf

[4] A parte quelli già ricordati, tra gli altri erano presenti da Venezia l’“Antico Teatro di Anatomia” e “Poveglia per tutti”; da Sambuca Pistoiese gli abitanti e le abitanti della “Valle degli Elfi”; da Altamura i “Giovani Idee in Fermento” e i “Muzik Plus” e “Altamura Bene Comune”; da Caserta “Millepiani – Laboratorio Sociale”; da Firenze “Mondeggi Bene Comune”, il “Forum Beni Comuni”, “La polveriera Spazio comune” e “Spazi Attivi”; da Benevento “Alma d’Arte”, da Parma “Art Lab Occupato”; da Rovereto “La Foresta”; da Bologna “20 Pietre”, “Eat the Rich”, “Xm24” e il “Comitato ESA”; da Salerno il “Comitato Acqua Pubblica”; i comitati di Cittadinanza attiva provenienti dall’Umbria; da Pescara “Mercato Scoperto”; da Roma “Esc Atelier” e “Scup Sport cultura popolare”; da Spoleto “Spazi riAperti”; da Lanciano il “Laboratorio Sociale Largo Tappia”; da S. Vito Chietino il “Csoa Zona 22”; da Terni il “Comitato per i Beni Comuni 11.1”; da Reggio Emilia “Casa Bettola – Casa Cantoniera Autogestita”. Insomma, una geografia del possibile che spero si radichi e si ampli, per questo ho voluto nominarle tutte queste esperienze.

Anche a livello cittadino dal 2012 si è lavorato per costruire una rete di scambio e solidarietà tra gli spazi occupati in questi anni, alcuni dei quali sono stati riconosciuti come beni comuni con una delibera di giunta – la numero 446 del 2016 – come ad esempio il “Giardino Liberato”; l’“ex Lido Pola”; “Villa Medusa”; lo “Scugnizzo Liberato”, “Santa Fede Liberata”; l’“ex Schipa” e “ex OPG”; altri, invece, stanno per esserlo come nel caso dell’“ex Convitto delle Monachelle”, del “Cap80126 – Centro Autogestito Piperno”, della “Casa delle Donne” e di “Villa De Luca”.

[5] http://www.exasilofilangieri.it/diamo-i-numeri-54-mesi-asilo/

[6] http://www.exasilofilangieri.it/grande-vento-2018-vi-edizione/

[7] http://www.exasilofilangieri.it/feira/

 Tra gli ospiti vorrei ricordare: Bob Ostertag (San Francisco), Decibel New Music Ensemble (Perth), Embryo (Colonia), Parallax (Oslo), Lisa Mezzacappa (San Francisco), No Input Ensemble (Karlsruhe), Ossatura (Roma), Gino Robair (San Francisco), Tim Hodgkinson (Londra)

Di particolare rilevanza è stato l’appuntamento numero 43 in cui i 120 musicisti dell’Orchestra Elettroacustica Officina Arti Soniche (OEOAS) di Napoli, hanno improvvisato collettivamente sotto la guida del maestro statunitense Alvin Curran, con un pubblico di oltre 800 persone[8]).

[9] http://www.exasilofilangieri.it/femminile-plurale-voci-dallintimita/.

[10] http://www.exasilofilangieri.it/kino-napoli-proiezione-corti/.

[11] http://www.exasilofilangieri.it/open-call-scuola-elementare-del-teatro-2/

[12] Tra gli spettacoli andati in scena dallo scorso marzo Bollari: Memorie dallo Jonio di e con Carlo Gallo (KR); Epica Fera di e con Gaspare Balsamo (TP); Sacra Famiglia di e con Nunzio Caponio (CH) (http://www.exasilofilangieri.it/tcm/).

[13] http://www.exasilofilangieri.it/sharing-training-fino-a-dicembre/.

[14] http://www.exasilofilangieri.it/sovrapposizioni-overlap-la-danza-trova-asilo/http://www.exasilofilangieri.it/focus-teatro/.

[15]  https://www.facebook.com/1497690317190405/posts/2098131670479597/