Il fascismo come «stato d’animo»: Mario e il mago di Thomas Mann

Il fascismo come «stato d’animo»: Mario e il mago di Thomas Mann

29 Giugno 2019 Off di Francesco Biagi

di Mario Pezzella

 

[Pubblichiamo in anteprima l’articolo di Mario Pezzella che uscirà prossimamente nel n. 2 di “Altraparola” dedicato al tema della critica della vita quotidiana nella XXI secolo]

 

In un suo libro Emilio Gentile parla di uno «stato d’animo» fascista[1], che accompagna ma anche si distingue dal fascismo regime e dal fascismo ideologia: è come un umore sottile che contagia inavvertito, spesso del tutto inconsapevole, i gesti e le parole della vita quotidiana, abbastanza lentamente perché i soggetti che ne sono invasi passino impercettibilmente all’accettazione e al consenso per un modo di essere che avrebbero trovato impensabile e inaccettabile fino a poco tempo prima. L’ipotetico viaggiatore che torni dopo qualche anno nel paese in cui il contagio si è diffuso (come accade allo scrittore tedesco protagonista della novella di Thomas Mann), lo trova così profondamente modificato, da non riconoscere gli uomini e i luoghi che aveva amato o ammirato. Del resto, le persone stesse che incontra e hanno subito quella assidua e pervasiva trasformazione, stentano a rendersene conto. Lo «stato d’animo» è divenuto comportamento quotidiano, condotta di vita, orizzonte del dicibile, abitudine spontanea, esistenziale storico[2].

Come un sismografo sottile, Thomas Mann registra in Mario e il mago lo «stato d’animo» fascista nella seconda metà degli anni Venti. La novella è scritta nel 1929, ma il viaggio effettivamente compiuto da Mann, e a cui si riferiscono gli elementi autobiografici, risale al 1926, nel momento cruciale in cui il fascismo italiano sta per stabilizzarsi come regime e inizia l’opera di pervasione totale della vita quotidiana, che porterà alla mobilitazione totalitaria degli anni successivi. Il narrante del racconto (che è opportuno distinguere, come vedremo, dal narratore Mann) scrive una immaginaria relazione, a un amico autorevole si può presumere, in cui dà conto anzitutto del suo profondo spaesamento. In effetti, egli si presenta nella novella come uno straniero del Nord protestante, un tedesco sorpreso e in parte turbato dagli eventi che lo coinvolgono suo malgrado e che del resto considera propri di una realtà a lui completamente aliena. Il fascismo e la perversione della vita quotidiana a cui è costretto ad assistere sarebbero impensabili nella sua civile Germania! Ma nella novella cresce l’oscura consapevolezza, tuttavia mai dichiarata fino in fondo dal narrante, che quell’estraneità è solo apparente e situazioni affini potrebbero sconvolgere, come in effetti accadrà, anche il suo mondo; rimozione e difesa sono incerte barriere verso un fenomeno che sta per investire tutta l’Europa e innanzitutto il suo evoluto e settentrionale paese. D’altra parte credo che la relativa inconsapevolezza del protagonista sia una finzione narrativa: il viaggio si svolge nel 1926, quando il personaggio poteva pensare che il fascismo fosse una distorsione nazionale italiana, che mai avrebbe potuto toccarlo direttamente; però il narratore scrive nel 1929, il pericolo nazista in Germania è divenuto ben visibile e questa coscienza retrospettiva è ovviamente presente nella novella. Analogamente, in modo ancora più tragico, nel Doktor Faustus il narrante Serenus Zeitblom non è certo il narratore Mann: i due hanno livelli di consapevolezza separati e distinti.

Il narrante prova inizialmente estraneità e fastidio di fronte ai fenomeni inconsueti che  si trova dinanzi. Prima dell’incontro col «fatale»[3] (5) Cipolla, tutta una serie di storte pieghe del quotidiano annunciano il cambiamento che si sta operando nel modo di essere degli Italiani, senza che il narrante lo faccia risalire troppo esplicitamente a un credo politico o all’ideologia fascista. Egli percepisce piuttosto l’inconscio sociale, la condotta di vita irriflessa che si sta affermando, al di sotto – per così dire – dell’Io cosciente dei personaggi. Sono sintomi sociali che affiorano lentamente alla superficie, una successione di piccole offese, che alla fine rivelano un denominatore comune. Il narrante cerca di non vedere e di non capire. Attribuisce il malessere alla sua natura di uomo del Nord, poco amante del caldo e del sole mediterranei, la sua irritazione al modo di fare degli Italiani, perfino al diverso spirito dei popoli: dunque devia il suo malessere sulla diversità di cultura e di etnia con cui viene a contatto. Questa si rivela ben presto come una spiegazione illusoria. Non si tratta di un fenomeno naturale, ma di un disagio della civiltà, di una malattia della storia: «…Mi riesce difficile dimenticare questi scontri con un’umanità volgare, con l’ingenuo abuso di forza, l’ingiustizia, un’aggressiva corruzione» (10). Ciò non dipende dal carattere degli italiani, ma – con sempre maggiore evidenza – dalla disgregazione storica del loro comportamento quotidiano, dall’estendersi dell’esistenziale storico fascista.

Prima i Mann vengono esclusi dai tavoli della veranda del Grand Hotel, che sono vuoti ma destinati a non meglio precisati clienti di riguardo italiani; poi sono costretti addirittura a trasferirsi in una pensione perché una signora italiana di alto lignaggio è disturbata dalla tosse di uno dei figli del narrante; un ragazzo detestabile e arrogante disturba i bambini e i loro giochi sulla sabbia, come esprimendo una sorta di istinto di padronanza e rivelando così uno «stato d’animo pubblico»[4] litigioso e sopraffattore, «diffuso nell’atmosfera e difficilmente avvertibile»(13); infine i Mann subiscono l’oltraggio di un severo rimprovero, da un «signore in marsina», che li accusa di aver offeso il pudore italiano, perché la bambina più piccola ha osato cambiarsi il costume in spiaggia. Tutto ciò fa sì che a Torre di Venere ci sia un’«atmosfera sgradevole» (1), ostile e come predeterminata «nell’essenza stessa delle cose», benché questa sia piuttosto intuita oscuramente che chiarita in modo distinto. L’ «essenza» è in effetti quell’umore generale, quell’esistenziale storico, che sembra fasciare ognuno ed imporsi come necessario. Il tema del destino, percepito come fatalità mitica, che soffoca il senso della libertà e della volontà nella storia, è dominante in tutta la novella. Una potenza eterico-palustre, come quella di cui scrive Bachofen, che Mann leggeva per completare le ricerche preliminari di Giuseppe e i suoi fratelli, sembra imporsi, indistinta e regressiva, nel declino della civiltà europea. Il senso profondo della novella è che nulla garantisce dalla regressione storica in uno stadio arcaico del mito. Questa è sempre possibile, non lascia indenne la più alta cultura e si manifesta come una patologia paralizzante della ragione. Il tema del destino, che nello stato d’animo fascista in generale, ma anche in Essere e tempo di Heidegger, appare come il fondo comune, necessitante ed eroico, di un popolo, o come la voce irresistibile della sua origine, in Mann diviene il contrassegno di uno slancio demonico verso una potenza illimitata e primordiale.

Il comportamento collettivo è dominato da una sorta di irrigidimento che si comunica ai corpi, ai gesti, prima ancora che alle parole: ovunque un’eccessiva contegnosità e gravità «di fronte allo straniero», un «ostentato orgoglio», che infine costringe ad ammettere che si tratta di politica, «che è in gioco l’idea di nazione» (13). Perfino la spiaggia è dominata da «bambini patriottici, un fenomeno innaturale e avvilente». Lo stato d’animo fascista non è descritto da Mann nei suoi assunti ideologici o nelle sue pretese storiche, ma come un diffuso e aspro risentimento: è un sintomo sociale propriamente reattivo, insorgente da una profonda e irriflessa umiliazione e da un radicato senso di inferiorità, dal timore preliminare e spasmodico di essere offesi e sottovalutati; esso si manifesta nel suo opposto rovesciato, «un orgoglio troppo suscettibile e dottrinario» (13). Ovunque si sviluppano tra i bambini e i ragazzi lotte e competizioni per il predominio e gli adulti intervengono non per riconciliarli, ma per enunciare principi e «frasi non serene e perturbatrici» sulla grandezza dell’Italia. Italiani prima di tutto. Di quest’aura di risentimento, fatuo orgoglio, vuota e illimitata affermazione di sé, Cipolla il mago protagonista della vicenda è la maschera personificata, la concrezione e il precipitato dell’inconscio collettivo, con cui è in sintonia e comunicazione: «Quella sala rappresentava il punto d’incontro di tutta la stranezza, il disagio, la tensione che ci sembravano gravare sull’atmosfera del nostro soggiorno a Torre di Venere…[Cipolla]ci sembrava la personificazione di tutto questo» (42-43).

 

Nota. Nei discorsi e nei saggi del 1929 e del 1930[5], composti nello stesso periodo della stesura della novella, in Thomas Mann sembra prendere consistenza sempre maggiore «l’idea che la storia dell’umanità si caratterizzi per un’alternanza di momenti di progresso e regresso, in cui l’eventualità di una ricaduta in una fase già superata è  possibile. Idee simili si trovano anche nel grande romanzo biblico, il Giuseppe, che stava maturando proprio in quegli anni…Il testo fondamentale di Bachofen, Il matriarcato (1861), era stato riscoperto negli anni Venti del secolo scorso…» [6]. In realtà in Bachofen c’è piuttosto l’idea di un percorso lineare e irreversibile che conduce verso il patriarcato, e il suo pensiero venne allora reinterpretato con un singolare rovesciamento di prospettive. Il matriarcato diventa un’immagine di sogno del comunismo primitivo nel saggio a lui dedicato da Benjamin; o anche l’origine premoderna e rimpianta della natura madre, in Ludwig Klages; oppure ancora evoca una ricaduta nella fase arcaica dell’eterismo, come notato dallo stesso Benjamin nel suo scritto su Kafka, e cioè nell’indistinzione primordiale e inarticolata. In effetti Benjamin distingue uno stadio evoluto e armonico del matriarcato, che costituisce il fondo o il tesoro nascosto del pensiero utopico, immagine di sogno di una totale armonia con la natura –e un suo rovescio disgregativo e barbarico, che invece perverte ogni possibilità di ordine simbolico. In Bachofen la fase eterica precede quella civile del matriarcato, in una molto ipotetica successione cronologica; ma in Benjamin abbiamo piuttosto a che fare con due poli compresenti, tra cui si tratta di operare una decisione, di scegliere fra socialismo e barbarie. In un senso più psicoanalitico, le due immagini opposte sembrano riflettere la dualità dell’archetipo materno, divoratore o generativo, così come in quegli stessi anni lo descriveva Carl Gustav Jung. L’idea che il fascismo sia una regressione allo stadio eterico e dissolvente del matriarcato è propria dello stesso Thomas Mann, che la ripresenterà in forma grandiosa e retrospettiva nel demonismo descritto nel Doktor Faustus. Forse si può leggere in modo allegorico la breve strada che porta i Mann dalla pensione al teatro, la sera dello spettacolo di Cipolla, passando davanti ai ruderi di un castello e poi a umili dimore, conducendo – in una sorta di abbreviazione storica – «dal feudale, attraverso il borghese, fino al popolare (volkstümliche), perché finiva tra povere abitazioni di pescatori e davanti alle loro porte vecchie donne tessevano reti: qui, nella zona più popolare, c’era la ‘Sala’» (18). Vale la pena di ricordare che negli anni Venti il termine Volkstum dal suo originario significato romantico o idealista di comunità di popolo, passa sempre più decisamente a significare l’aggressiva fusione etnica e razziale del nazismo. La passeggiata per quella breve stradina descrive – attraverso il linguaggio – un passaggio storico.

 

La figura di Cipolla sembra comporre in sé due tratti apparentemente incompatibili, che invece si fondono nell’effetto fascinatorio e perturbante che lo caratterizza: la clowneria buffonesca e la rigidità seriosa, l’impettito fanatismo della sua forza di volontà. È un esempio perfetto della sovranità grottesca descritta da Foucault, proprio perché tale indefinitamente potente. Da un lato, il mago indossa un abito che ricorda il «tipo del ciarlatano», vistoso e adatto a sottolineare un’aria di «buffoneria fantastica», pieno da capo a piedi «di false tensioni e false pieghe» (21). Mann sottolinea volutamente la falsificazione come tratto essenziale della sua figura e del suo operato. Cipolla è anzitutto, ma certo non solo, uno straordinario falsario, un inesauribile evocatore di illusioni e fantasmi.  D’altra parte, egli esprime anche una «rigida serietà, il rifiuto di ogni umorismo, talora un tetro orgoglio» (22), che contrasta in modo caratteristico con la sua deformità fisica (Cipolla si è rotto la schiena durante una delle sue rappresentazioni) e con le smorfie e i gesti accentuati, a cui si abbandona nel corso dello spettacolo. Qualche commentatore ha accostato questa buffoneria minacciosa a quella di Mussolini al balcone, e certo Cipolla salta volentieri da un cipiglio aggressivo che sfiora il ridicolo, a una smorfia clownesca, che sfiora l’insulto. Ma non è necessario essere così letterali. Mann stesso ha negato un riferimento tanto esplicito. Piuttosto è vero che questo ossimoro di serietà grottesca, di sovranità deforme, di fascinazione attristata e lugubre, fa parte di quello stato d’animo che egli cercava di descrivere come contagio collettivo, e non come carattere di un singolo.

Cipolla pone il suo pubblico in quello stesso stato di soggezione-esaltazione, che il capo totalitario instaura con i membri della massa, «una cupa e attonita sottomissione»(44), e ne diventa la micrologica incarnazione, quasi la dimostrazione che quel tipo di rapporto non è più limitato alle grandi occasioni e alle adunate politiche, ma domina nell’irrilevanza del quotidiano e che nulla gli sfugge, essendo diventato abitudine. Nell’enunciazione dello stesso Cipolla, non è facile stabilire qui un preciso equilibrio tra attivo e passivo, tra volontà di dominio e obbedienza. In un certo senso il comando del capo corrisponde all’oscuro volere delle masse, senza una tonalità concorde esso cadrebbe nel vuoto; egli è un rivelatore dell’inconscio sociale effettivamente presente nel fondo del collettivo, anche se non chiaramente pervenuto a se stesso, e il suo corpo e la sua voce divengono strumenti demonici di amplificazione e rappresentazione dell’opaco sentimento comune: «Ora era lui l’elemento che pativa, recepiva, eseguiva, che aveva rinunciato alla propria volontà e realizzava il muto volere collettivo diffuso nell’aria…la capacità, diceva, di rinunziare a se stesso, di divenire strumento, di obbedire in modo pieno e incondizionato, è solo il rovescio dell’altra di volere e comandare…come popolo e duce sono compresi l’uno nell’altro»(38).

Il posseduto dallo spirito comune, invaso e inflazionato dall’archetipo collettivamente dominante, se all’inizio possedeva un Io personale tende a perderlo e dilatarlo sempre di più, identificandosi con l’immagine grandiosa che la massa intera proietta su di lui: la divinizzazione illimitata di sé e della propria potenza lo inclina infine verso un eccesso distruttivo. D’altra parte è anche vero il contrario, e cioè che il capo – afferrato l’oscuro e profondo moto del collettivo – lo manipola e lo intensifica nella direzione da lui desiderata: il trionfo della volontà di potenza nella sua forma più immediata e barbarica. Così ad esempio un sentimento di paura dello straniero, di umiliazione per un torto subito, di risentimento intollerante, potrebbe essere orientato ad esiti diversi o meno distruttivi, o verso una cura delle disuguaglianze e dei torti sociali[7]: mentre il capo totalitario incanala il sentimento collettivo nella via rapida e immediata del godimento della distruzione, come ha intuito Jacques Lacan alludendo a «quella risorgenza per cui si verifica che l’offerta a dei oscuri di un oggetto di sacrificio è qualcosa a cui pochi soggetti possono non soccombere, in una mostruosa cattura…Il sacrificio significa che, nell’oggetto dei nostri desideri, noi tentiamo di trovare la testimonianza della presenza del desiderio di quell’altro che qui chiamo il Dio oscuro»[8]. Il capo totalitario funziona come un magnete malefico, che si appropria dell’inconscio sociale e lo orienta verso l’annientamento di sé e dell’altro. Cosa fa, se non questo, nel suo simbolico microcosmo, il nostro Cipolla? «Girava brancolando come un veggente, accompagnato e sorretto dall’oscuro volere collettivo» (39). Immerso in effetti nel buio, a tastoni, egli proietta nel futuro le immagini fantasmatiche di un mito arcaico, che dovrebbe produrre uno stato di illimitata condivisione e di ebbro godimento, a costo della morte e della rovina di sé e del suo popolo.

 

L’oscura potenza demonica, per cui il singolo diventa contorto recipiente e guida deforme dell’oscurità collettiva è più volte sottolineata nel corso della novella. Gli occhi di Cipolla sono straordinari, «smorti e ardenti nello stesso tempo» (32), smorti perché da essi defluisce nell’esercizio del suo potere ogni residuo di umanità, di empatia e di personalità individuale, ardenti perché si ricolmano dello spirito in fermento del collettivo. L’aspetto buffonesco del mago non deve indurre in errore; non si tratta di un semplice mistificatore o manipolatore, egli è effettivamente in contatto con quel dio oscuro di cui parla Lacan, si lascia invasare da facoltà che sono «o al di sopra o al di sotto della ragione» e che si fondano su «una forma inferiore di Rivelazione (Offenbarung)»(37). Ho riportato il termine in tedesco, perché esso si riferisce esplicitamente al mistero teologico, ma distolto e stravolto in senso demonico, come avverrà in modo ancor più terribile nel Doktor Faustus, di cui questa breve novella costituisce una pregnante anticipazione. In Cipolla c’è una teologia e una politica, che sono precipitate nella più distruttiva immanenza e posseggono tutta la potenza di un mito «tecnicizzato», divenuto interno alla storia: un contatto con l’ «Occulto», che possiede un «carattere ambiguo, malsano e indecifrabile» (38) e si mescola alla pur indubbia ciarlataneria del suo portatore, esercitando un potere di seduzione quasi irresistibile, catturando l’intimo inconfessabile dei componenti della massa. Si potrebbe anzi dire che l’aspetto smorfiesco e ciarlatanesco non solo non contraddice, ma potenzia l’effetto di cattura, perché il suo medium esibisce un lato apparentemente inoffensivo, accetta con degnazione di abbassarsi al livello della folla, e così completa, ben lungi dall’indebolire, la sua opera di seduzione, passando incessantemente dal più alto al più basso, dal sublime al catatonico e indefinitamente volgare.

Il risultato più eclatante della fascinazione esercitata da Cipolla è l’abdicazione alla volontà autonoma e all’individuazione personale[9]: «La libertà esiste ed anche la volontà esiste; ma la libertà di volere non esiste, perché una volontà intesa alla propria libertà, urta nel vuoto. Lei è libero di estrarre o non estrarre la carta, ma se lo farà estrarrà quella giusta…», quella predeterminata da Cipolla (36). Si tratta è chiaro di un ragionamento capzioso, anzi neppure di un ragionamento ma di un sofisma seduttivo, con cui egli cerca di catturare l’interlocutore, e al cui fondo c’è il presupposto accettato come indiscutibile che la libertà abbia un fondamento esclusivamente negativo, sia cioè essenzialmente libertà di non volere. Ci si può ritrarre in questo Nirvana, in questa ascesi negativa, ma – si capisce – destinandosi all’impotenza. Nel momento in cui si entra nel fattuale, nello storicamente concreto e si decide di compiere un atto, ebbene questo  entra immediatamente in una catena di determinazioni, che sono governate da chi è capace di imprimere al moto iniziato la maggiore potenza.

 

Libertà positiva, cioè un atto che esprima l’individuazione di una persona, portandola a lasciare un suo segno nel reale, non si dà e non può esistere per Cipolla. A questo primo presupposto a cui egli allude obliquamente se ne aggiunge un altro, sul quale il fascinatore tace completamente, ma è rilevato come evidente dal narrante: la libertà che in effetti si limiti al solo negativo, al non volere qualcosa, e nulla sappia proporre di efficacemente alternativo al potere che cerca di determinare la sua vita, è necessariamente più debole. Un oppositore di Cipolla lo sfida a farlo ballare contro la sua volontà, ma è costretto a cedere dopo una prolungata, inutile resistenza, e finisce per farsi possedere dall’ebbrezza collettiva: «Se compresi bene quell’incidente, questo signore soccombette per la negatività della sua posizione nella lotta. Verosimilmente non si può vivere psichicamente di non-volere; non voler fare una certa cosa, alla lunga non può costituire un contenuto vitale; non voler qualcosa e in generale non più volere, e alla fine fare ciò che è imposto, sono due posizioni troppo vicine, perché l’idea di libertà – fra le due – non debba trovarsi alle strette…»(49). Oltre che una critica delle concezioni filosofiche di Schopenauer – la sua mistica della non-volontà è certo un principio di per sé nobile, ma impotente di fronte alle manipolazioni concrete della storia –, in queste parole si esprime probabilmente anche una distanza politica rispetto agli oppositori del nazismo nel momento cruciale della sua ascesa, che, invece di proporre una concreta strategia di opposizione si limitarono a dire in negativo: non abbandoniamo la democrazia, senza che questo termine si riempisse di contenuti positivi, oltre al non volere la dittatura[10].

La nobiltà esistenziale di chi ammette: «questo solo oggi possiamo dirti/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», è però costretta a cedere nella sua condotta di vita quotidiana alla volontà perversa ma concreta che impone la sua forma, e a cui il corpo, i gesti e le parole devono adattarsi, se vogliono continuare a vivere. È su questo presupposto negativo della libertà, che il sofisma di Cipolla può prevalere e l’abbandono della volontà può apparire come qualcosa di desiderabile e quasi un gradino superiore dello spirito: «Ascolta, amico, dovrebbe essere piacevole e divertente cessare di essere, una volta tanto, quell’uomo che sei, senza l’obbligo di dover rispondere della volontà e dell’azione insieme»(24). D’altra parte questa rinuncia al volere ha una contropartita immediatamente esaltante, uno stato di ebbrezza e di comunione fusionale, che si approssima al delirio erotico, generalmente proibito: una sospensione del disagio della civiltà, un carnevale prolungato, una ritualità estatica, che – al di sotto del moralismo di facciata – costituisce la vera attrattiva della fusione nella massa, capace di assolvere perfino i crimini e gli eccessi che vengono compiuti nel suo seno, abolendo ogni senso di responsabilità individuale: Cipolla scatena un’ebbra danza collettiva, suscitando «una sorta di depravazione, un notturno tumulto degli animi, un ebbro disfacimento della resistenza critica, che così a lungo si era opposta all’azione di quell’uomo inquietante»(47).

L’abbandono della volontà può avere un risvolto bassamente manipolatorio, ma può assurgere perfino a dignità metafisica, come apertura e disposizione alla voce dell’Essere, o religioso, come marchio della Grazia e della predestinazione. In realtà è vero che la libertà nasce da un fondamento negativo, da una negazione di ciò che si è e di ciò che è, quando un ordine simbolico si riveli irreversibilmente incrinato; ma una rivoluzione attiva si distingue da una rivoluzione passiva proprio per la determinazione quasi immediata di un contenuto positivo di libertà. Rifiutando una vecchia concezione, non si può evitare di pensare cosa s’intende con il proprio concetto di libertà. Se ad esempio il primo desiderio di un cittadino che partecipa alla rivoluzione francese è quello di liberarsi dai vincoli feudali (la decima, la limitazione di commercio e di movimento delle persone e delle cose, etc.), man mano che li critica è però spinto anche a proporre soluzioni alternative: a chi allora pagare le tasse, se è giusto pagarle e come devono essere ripartite, etc. L’immaginazione rivoluzionaria attiva un concreto operare, a partire da ciò che Adorno definiva come negazione determinata di un ordine politico in declino. L’utopia concreta è l’attivazione del movimento storico stesso verso la sua determinazione; un non-ancora-essere, nella terminologia di Bloch, o ancor più radicalmente un altrimenti che essere, secondo Levinas. La negazione e anzi la repressione violenta di questa concezione della libertà caratterizza lo «stato d’animo» fascista, e la sua rappresentazione simbolica nel mistificatore Cipolla.

 

Sottotraccia corre il filo più inquietante del racconto: il narrante – nonostante il suo iniziale senso di superiorità e distanza – è egli stesso in qualche modo stregato dall’atmosfera inquinata di Torre di Venere e dal torbido fascino di Cipolla. Più volte ricorre la domanda: perché non siamo partiti dopo quanto successo all’inizio del soggiorno? Perché restare, e soprattutto far restare i bambini fino all’ultimo, di fronte alla tenebrosa esibizione del mago? Il narrante deve ammetterlo: «Cedemmo forse a una fascinazione che emanava da quest’uomo che faceva il suo mestiere in modo così straordinario…e paralizzava le nostre decisioni?», e la vera domanda è «perché prima non avevamo lasciato Torre» (42). Lentamente anche il narrante subisce la paralisi della volontà, l’influenza ambigua dello «stato d’animo» fascista, che si afferma contro la lucidità del suo spirito superiore. È questo l’aspetto più perturbante: nonostante il suo giudizio razionale, egli sente in certa misura la potenza dell’influsso irrazionale, del dio oscuro che si agita nella profondità del collettivo, perché – lo voglia o no – ormai anch’egli ne fa parte, flette in conseguenza il suo comportamento, la sua attitudine di vita quotidiana, con qualche omissione o silenzio o indecisione; in modo simile, in chi non è per niente razzista, emerge un fastidio discriminatorio, una leggera e inconscia complicità con l’umore di odio etnico che si diffonde nella massa. È evidente che qui il narrante non è il narratore che ne descrive le perplessità e i dubbi e in certa misura tutto il racconto è un falso diario, in cui Mann espone un se stesso parziale o comunque retrodato di alcuni anni e lo pone a confronto col se stesso attuale, che ora sa bene quanto quel contagio così disprezzato a Torre di Venere stia travolgendo il suo proprio paese. Del resto, perché il narrante racconta e a chi si rivolge? A un certo punto egli definisce il suo scritto come una «relazione» (Bericht) (41), con un termine che ha quasi una sfumatura giuridica o dà per lo meno l’idea di un resoconto, fatto per giustificarsi: dinanzi a quale autorità? Non lo sappiamo, ma la novella assume il tono di un’autodifesa, di spiegazione per un cedimento della volontà e dell’intenzione.

Il racconto è forse una testimonianza di fronte a un tribunale immaginario, un tentativo di rafforzare le sue difese contro le forze oscure che sente presenti nel suo stesso animo, e che dà alla novella la sua tonalità più partecipe e tragica. Nessuno può sentirsi al sicuro dall’assalto dell’idea mitica collettiva, e – passata una certa soglia – è difficilissimo opporsi al suo fatale procedere. All’inizio il narrante cerca di giustificare la sua permanenza a Torre con una sorta di curiosità conoscitiva: «Restammo perché il soggiorno era divenuto strano e singolare e la stranezza esprime di per sé un valore, indipendentemente dal piacere o dispiacere» (16). Ma già questo significa ammettere la propria disponibilità a un godimento irrazionale e sordamente distruttivo: perché infatti non riuscire ad abbandonare una «stranezza» che procura dolore? Non siamo qui in prossimità di quella ripetizione del trauma doloroso, che Freud descrive in Al di là del principio del piacere e che costituisce il primo impulso alla teoria della pulsione di morte? Questa verità emerge in un gesto inconsapevole e impressionante compiuto dal narrante durante l’esibizione di Cipolla, un evento minimo ma decisivo nel rivelare il pericolo. Il mago accompagna i suoi comandi facendo schioccare per l’aria un frustino, il simbolo più volgare e aggressivo del suo potere, la sottolineatura del rapporto sadomasochista che lo lega alle sue vittime nel pubblico e a cui esse inconsciamente aderiscono. Ebbene il narrante non può trattenersi, nonostante tutta la ripulsa della sua coscienza: «Ricordo che involontariamente imitai leggermente con le labbra il sibilo, che Cipolla col suo frustino aveva prodotto nell’aria» (25). Questo potere mimetico appartiene al livello più arcaico dell’umano: è suscettibile di affinarsi in forme superiori, ma anche di abbassarsi in una deformità collettiva. Il consenso allo stato d’animo fascista è fatto di una serie indefinita di microeventi, di irrilevanti e decisivi gesti di assuefazione, in cui si cementa il collante del dominio: «Certo mi chiederete perché infine non ce ne andammo via – ed ammetto di restare debitore di una risposta. Non lo capisco e non so veramente rispondere» (41).

 

L’estremo dominio del mago coincide con l’inizio della sua fine. Incalzato da una spinta illimitata, che non conosce freno o prudenza, egli osa addirittura allucinare nel suo proprio corpo la ragazza amata dal cameriere Mario, inducendolo così a dargli un bacio erotico e appassionato. Incarnandosi e invertendosi sessualmente in un’immagine di sogno, Cipolla compie qui in senso stretto un atto magico, che va ben al di là di tutti gli esercizi e gli esperimenti di potere compiuti precedentemente: qui è la natura stessa della vita organica a essere messa in gioco ed è l’identità del giovane, la sua materialità corporea che viene dissolta in simulacro e feticcio. Dove era finito Mario? «Mi è difficile dirlo, come allora mi fu difficile guardarlo, perché era un abbandono della propria intimità più profonda, la pubblica esposizione di una passione disperata e follemente inebriante» (57). Eppure dirigendo eroticamente su se stesso il delirio di Mario, Cipolla compie una deviazione perversa che suscita inaspettatamente la reazione invano attesa dalla ragione, dall’intelligenza, dalla volontà dei precedenti oppositori: perché nel giovane emerge una potenza altrettanto arcaica e indomabile e addirittura superiore a quella finora incontrastabile del mago. È l’altro aspetto del mondo delle madri, quello che non tollera la violazione della sacralità stessa della vita, un atto immediato di quella violenza che Benjamin ebbe a definire divina[11], perché scaturisce immediata e non riflessa dalle più intime profondità dell’essere, di fronte alla percezione dell’intollerabile, e finisce per travolgere il giocoliere magnetizzatore dittatore. C’è in Mario una «malinconia primitiva», altrettanto profonda della volontà di potenza di Cipolla, che lo radica in una sorta di resistenza e di innocenza vitale, da cui è assente «ogni brutalità di espressione»(52), che invece domina la fisionomia del mago: «Dalla sua spalla storta allungò obliquamente in avanti il braccio teso e la mano appiattita nel saluto romano»(53). Infrenabile nel suo godimento distruttivo e nella sua assenza di pietà, Cipolla suscita infine contro di sé le forze elementari della vita, che lo trascinano come furie su una china distruttiva, altrettanto impersonali di lui e incarnate nella mano anch’essa «fatale» di Mario, che gli spara e lo uccide: «Una fine terrificante, una fine altamente fatale. Eppure una fine liberatrice: non potei e non posso fare a meno di sentire così» (58).

 

Posizioni

 

1) Il termine «stato d’animo» è una delle traduzioni possibili del tedesco Stimmung (che vuol dire anche atmosfera, umore collettivo, tonalità emotiva). Il termine (come pure quello correlato di Grundstimmung, tonalità emotiva dominante) ha una grande rilevanza nel pensiero di Heidegger. In Essere e tempo la tonalità dominante è l’angoscia, vista in una prospettiva strettamente ontologica ed esistenziale. In quello che si conviene chiamare il pensiero di Heidegger dopo la svolta, l’importanza della Stimmung resta decisiva, benché in un senso mutato: «Il pensiero è quindi sempre emotivamente accordato e, in una prospettiva storica, le esperienze del pensiero mostrano di essere fondate su ciò che Heidegger definisce tonalità emotiva fondamentale. Per questo motivo…potrà intendere la storia dell’essere (Seinsgeschichte) anche come sequenza di modalità emotive fondamentali…»[12]. Non è qui possibile un’analisi critica del concetto heideggeriano. Mi limito a ricordare che se la Stimmung diviene voce e vocazione dell’Essere o di una sua epoca, è difficile non considerarla come un destino, a cui non ci si può non abbandonare, denunciando come soggettivi e metafisici i concetti di libertà e di volontà. La vocazione sostituisce infatti la contraddizione storica determinata, che percorre con i suoi possibili in conflitto la situazione in cui ci troviamo.

O interpretiamo la situazione come recipiente di una vocazione e di un appello dell’essere -o piuttosto come contraddizione di forze in conflitto, che nel farsi concreto della storia e delle sue micrologie di potere porta in effetti al costituirsi di una tonalità dominante. Heidegger vede «l’esserci attuale colpito in profondità dalla macchinazione della tecnica»[13] a cui si oppone il ritegno come tonalità emotiva fondamentale; a questa concezione si contrappone quella di Benjamin, per cui la nostra non è l’epoca della tecnica, ma quella del capitale, e il suo fenomeno originante è la merce, che costituisce insieme l’elemento determinante dell’economia e del regime di desiderio e di affettività che intorno ad essa si costituisce. Penso che sia in quest’ultimo senso che si possa usare in una analisi storica il concetto di tonalità affettiva e di esistenziale storico, come orizzonte e partizione della quotidianità.

Nel caso dello «stato d’animo fascista» si tratta di intenderne la specificità e la differenza (oltre che il legame) col più generale evolversi delle forme del capitale, e la sua specifica Stimmung, una particolare modalità di potere e godimento distruttivo, che travalica largamente qualsiasi concezione puramente economica dell’utilità o del piacere e rinvia piuttosto a quella sottostruttura oscena delle leggi pubbliche che – secondo Zizek[14] – determina il desiderio deformato dal capitale.

2) Si discute molto se di fronte ai fenomeni di razzismo etnico e sovranismo oggi presenti in Italia si possa parlare di una riproposizione del fascismo. Se ci riferiamo al fascismo-ideologia o al fascismo-regime, si può rispondere che sono ancora molto minoritari, anche se in crescente espansione. Diverso è il discorso per quello che abbiamo definito «stato d’animo». Se entrando nell’edicola in cui vi recate da anni, trovate per la prima volta esposto in evidenza un calendario dell’anno in corso con l’immagine di Mussolini; se facendo colazione nel vostro bar abituale sentite da chi non vi aspettereste una frase del tipo: «quei negri che chiedono l’elemosina davanti alla porta bisognerebbe gasarli tutti»; se rimaniamo indifferenti di fronte ai massacri che si perpetuano nei nostri mari, come un tempo i polacchi ai campi di concentramento costruiti nella loro terra, e chiudiamo i nostri porti a elementari operazioni di soccorso; se finanziamo campi di detenzione in paesi sconvolti dalla guerra e dall’odio come la Libia; se sentiamo accusare finanzieri ebrei come Soros di ordire una congiura per distruggere il cristianesimo in Europa; se mettiamo insieme tutti questi fatti e altri simili, possiamo ben parlare di uno «stato d’animo», di «temi», che predispongono al fascismo, anche se non necessariamente essi debbano tradursi in organizzazione e pensiero. Ne sono però un presupposto possibile. Così come appartiene allo stesso stato d’animo la lenta assuefazione a fatti di questo genere, che non vengono più colti nella loro eccezionalità o nella loro intollerabilità, ma entrano inavvertitamente a far parte della quotidianità o della muta accettazione di milioni di persone, che pure mai si sognerebbero di definirsi fasciste. Prima che il fascismo diventi credenza, si afferma come condotta di vita. Siamo in questa fase di passaggio, assistiamo a smottamenti pericolosi dell’inconscio sociale, che possiamo ancora frenare: ma non certamente facendo l’elogio dell’Europa neoliberista così com’è, altrettanto odiata e ben più odiosa del giolittismo negli anni Venti del Novecento.

3) Nel discorso Un appello alla ragione[15], pronunciato nel 1929, è possibile cogliere aspetti rilevanti del pensiero di Mann nel periodo di composizione della novella. L’inizio della riflessione è quasi materialistico, e pone in primo piano le terribili condizioni economiche della Germania: «Sarebbe troppo chiedere a un popolo economicamente malato un pensiero politico sano». Questa situazione economica, generata anche dal durissimo trattato di pace di Versailles, produce un sentimento misto di umiliazione e risentimento, che si diffonde simile a un miasma nell’inconscio sociale della Germania: «Come negli anni più oscuri della guerra e del dopoguerra l’oppressione grava su ogni petto, pesante come un macigno, e impedisce il libero respiro. La forza della vincolata comunanza del destino si afferma; non c’è una felicità singola, quando la miseria domina l’ora presente. Noi tutti siamo trascinati nel vortice di miseria e dolorosa esasperazione». In questa prospettiva va inteso il successo nazista alle elezioni del 1930, dove comunque – vale la pena di ricordare – il partito di Hitler era ancora ben lontano dalla maggioranza[16] e dunque si poteva pensare di contenerne l’ascesa (che invece, dopo un paio d’anni, si rivelò come una slavina inarrestabile). Il risultato elettorale – afferma Mann – non è interpretabile solo in termini economici, anche se la ragione sociale del nazismo si rivela sempre più essere il declino della classe media e piccolo-borghese, che pretende una sua autonomia politica. Oltre all’aspetto puramente economico è necessario comprendere lo «stato psichico», lo «stato d’animo» dei tedeschi: «Al tramonto economico della classe media si unì un sentimento, che l’aveva preceduto come profezia intellettuale e come critica del tempo: il sentimento di una svolta storica, che annunciava la fine dell’epoca borghese, datante dalla Rivoluzione francese, e del suo mondo ideologico. Si proclamava una nuova situazione psichica dell’umanità…».

Dopo queste riflessioni politiche, Mann esamina il mito in formazione nell’inconscio del collettivo e cioè il risorgere di quello stadio eterico-palustre, che abbiamo visto presente nella novella. Qui compare l’idea che nella storia è possibile il regresso, l’ideologia del progresso non ha più validità universale e lo spirito illuministico della civiltà occidentale, come aveva sostenuto Klages, sta perdendo la sua forza vitale: contro di esso, il nuovo «stato d’animo» «celebrava come verità di vita la tenebra psichica, il materno-ipoginico, il mondo sotterraneo misteriosamente generatore. Di questa religiosità della natura, incline per indole all’orgiastico e alla sfrenatezza bacchica, molto è passato nel neonazionalismo dei nostri giorni…», e nel suo «ebbro dinamismo». Si tratta di un «estatico crollo di nervi»: «Alla eccentrica situazione psichica di una umanità sfuggita all’idea corrisponde una politica di stile grottesco, con maniere da esercito della salvezza, con convulsioni di masse, con scampanellii da fiera, alleluia e monotona ripetizione di parole d’ordine alla maniera dei Dervisci, finché tutti hanno la schiuma alla bocca. Il fanatismo diventa principio di salvezza, l’entusiasmo estasi epilettica, la politica il narcotico generale del Terzo Reich o di una escatologia proletaria; e la ragione si vela il volto». Si può dire che Mann abbia compreso la rinascenza mitica, la quale costituisce una delle componenti dell’inconscio sociale fascista: non invece la complementarità tra questo aspetto e il modernismo tecnologico, che pure è una parte essenziale della nuova società di massa e trovò un’espressione inquietante nell’ Operaio di Ernst Jünger.

4) Nel discorso del 1929 La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno, Mann chiarisce la sua idea di regresso storico, confrontandola con la rivoluzione conservatrice come forma tipica dello stato d’animo del tempo: essa sostiene «in modo rivoluzionario il primato delle forze telluriche e prespirituali…un grande ritorno all’elemento notturno»[17]. Mann riconosce la radice romantica di questo movimento culturale ed anche la dignità di alcuni suoi esponenti come Ludwig Klages, che riportò all’attenzione generale il pensiero di Bachofen sul matriarcato, ma sottolinea la radicale perversione politica di questi «temi». Essi vengono riassorbiti nel nazismo emergente, il quale si presenta come il nemico del vecchio «ciarpame ideologico», opponendovi la «rivoluzionaria freschezza giovanile, il principio dinamico, la natura liberata dalla tirannia dello spirito, l’anima popolare, l’odio, la guerra. Questa è la reazione come rivoluzione, il grande regresso mascherato e imbellettato come impetuoso progresso»[18].

A tutto ciò si oppone la psicanalisi di Freud, che pure riconosce e pone in primo piano la parte oscura e inconsapevole della vita: essa non mira però a un’ebbra fusione, a una identificazione con la pulsione di morte e il suo eccesso, a un’esaltazione del demoniaco, ma vorrebbe piuttosto salvare la pulsione erotica e aggregante dell’umano. Nell’economia del discorso, in fondo, stupisce che i riferimenti a Freud non siano poi così numerosi e si limitino sostanzialmente ad Al di là del principio del piacere: è comunque evidente che Mann stesso si riconosce nell’atteggiamento di chi si confronta con le forze oscure dell’inconscio senza cedere all’identificazione con esse. Certo egli deve aver tenuto presente anche gli scritti di Freud sulla psicologia delle masse e sulla passione identitaria: «…Si tratta delle identificazioni, fenomeni difficili da descrivere, processi non ancora abbastanza conosciuti…”[19], in essi l’Io “cerca di rendersi simile a ciò che si è proposto come modello”[20], desiderio sempre in parte deluso, così che il rapporto tra Io e Io-ideale assume una tonalità tragica, tanto più difficile da sostenere quanto più l’essere sociale è dominato dalla freddezza anafettiva e dall’astrazione del capitale. Di fronte alla dissociazione incombente e al desiderio perverso imposto dalla fantasmagoria delle merci, l’io è allora tentato di cercare fuori di sé, quanto non trova entro di sé. Nell’Uno e nel Capo si cerca un surrogato efficace dell’Io ideale, nella fusione specchiale si diventa ciò che non si è, si possiede ciò che non si ha, si recupera ciò che si è perduto. «Possiamo già intuire – scrive Freud – che il reciproco attaccamento che sussiste tra gli individui che compongono un gruppo deve risultare da una simile identificazione, fondata su di una comunanza affettiva; e possiamo supporre che questa ultima sia costituita dalla natura del legame che unisce ogni individuo al capo… Si ama l’oggetto per la perfezione che si vorrebbe per il proprio Io e con questo stratagemma si cerca di soddisfare il proprio narcisismo…l’oggetto ha preso il posto di quello che era l’ideale dell’Io»[21]. Come ha poi sottolineato Lacan, nella fusione di massa il Padre onnipotente e violento dell’orda primitiva, descritto da Freud in Totem e Tabù, sostituisce il padre edipico rappresentante della legge e del limite, e come un pifferaio magico conduce il suo popolo verso l’eccesso e il godimento della distruzione.

5) Come è evidente anche nel caso della Bachofen-Renaissance, il nazismo è stato tra l’altro un riuscito tentativo di appropriazione-distorsione della quasi totalità della cultura europea, distorta in modo tale da farla apparire come una lunga preparazione del Terzo Regno. Si tratta di un fenomeno connesso alla riscrittura della storia a vantaggio dei vincitori del momento, che viene modificata a proprio interesse: tra i numerosi possibili che convivono negli eventi del passato vengono privilegiati quelli consoni alla propria rilettura presente o addirittura essi sono distorti e ricreati dal nulla. Questo détournement non dovrebbe però essere identificato con una reale continuità, come sembra credere George Mosse, dando quasi ragione, sia pure con intento opposto, all’ideologia nazista (ed anche se i suoi studi sono illuminanti per il periodo che precede nei primi decenni del Novecento l’ascesa del fascismo): così per lui il popolo, il Volk, ha lo stesso significato dal romanticismo in poi, preparando il modo in cui la parola è stata intesa dal nazismo[22]: un po’ come se in Italia si dicesse che il Risorgimento è una preparazione e un precursore del fascismo. Nel romanticismo tedesco del primo Ottocento ci sono possibili che conducono al nazismo e possibili in direzione opposta, e il corso degli eventi non era in quel momento deciso; così come la considerazione socialista delle masse non era destinata a diventare il suo opposto nella loro manipolazione nazista. Occorre ricorrere, per intendere questi fenomeni, alle idee gramsciane di rivoluzione conservatrice e soprattutto di rivoluzione passiva, che implicano un distoglimento e uno spostamento del significato originario dei concetti e delle parole, o quanto meno una loro interpretazione univoca, destituita da tutti gli altri strati di senso. È vero che Stalin ha potuto cancellare Trotsky dalla fotografia dei fondatori del partito bolscevico, o che Hitler ha abolito il nome di Rohm dalla storia del nazismo: ma queste deformazioni talora clamorose non devono poi portare il pensiero critico a dire che effettivamente Trotsky era irrilevante o Rohm inesistente. In Italia, il fascismo si è appropriato del pensiero di Mazzini, della sua parte nazionalista, respingendo in uno sfondo confuso il democraticismo radicale, la sua concezione federalista, la sua idea per quanto timida di socialismo mutualista. Dobbiamo forse credere a questa lettura e dire, così semplicemente, che Mazzini anticipa il fascismo? No, lo storico dovrebbe risalire a controtempo il corso della storia e a contrappelo evidenziare dove è caduto l’accento distorto, dove la gomma da cancellare.

 

 

[1] «L’elemento catalizzatore della sintesi fascista, che operò per l’evoluzione del mito dello Stato nuovo nel mito dello Stato totalitario, fu la presenza di una particolare disposizione di spirito, di uno «stato d’animo fascista» prodotto dalla guerra e corroborato dall’esperienza dello squadrismo…»; «Più che idee o concetti sono temi, indicando con questo termine la loro natura composita – per dirla con Huizinga – di ‘esseri in azione e immersi in un ambiente’» (E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo: dal radicalismo nazionale al fascismo, Roma, Laterza,1999, pp. 28 e 20.

[2] Cfr. «Posizioni» 1, al termine di questo testo.

[3] Le citazioni si riferiscono a T. Mann, Mario und der Zauberer, Leipzig, Reclam, 1975, il numero di pagina è tra parentesi in corpo testo. Si è tenuta presente ovunque possibile la traduzione di L. Mazzucchetti e G. Zampa, Milano, Mondadori, 2018.

[4] «Offentlichen Stimmung».

[5] In memoria di Lessing (1929), La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno (1929); Un appello alla ragione(1930).

[6] E. Valgan, “Introduzione”, in Mario e il mago. Thomas Mann e Luchino Visconti raccontano l’Italia fascista, Roma, Collana della Casa di Goethe, 2015.

[7] Nelson Mandela ha cercato di fare qualcosa di simile dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica.

[8] J. Lacan, Seminario XI, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1964, Torino, Einaudi, 2003, p. 270.

[9] Nella mitologia del fascismo si trattava di «reintegrare l’uomo nella sicurezza tribale della comunità, sollevandolo dall’inquietudine dell’autonomia, della responsabilità individuale e della libertà» (E. Gentile, Il mito…, cit. p. 274). «Attraverso riti e simboli, l’individuo sapeva, senza riflettere, quel che doveva dire e fare in qualsiasi situazione della sua esistenza sociale, rinunciando all’ansia della libera scelta e della responsabilità individuale, per inserirsi in un mondo chiuso, ordinato e ritmato da una certezza e da una disciplina» (Ivi, p. ).

[10] È possibile che Mann pensi anche al ritiro delle opposizioni italiane sull’Aventino, che, dopo l’assassinio di Matteotti, si comportarono in modo analogo.

[11] Benjamin si interroga sulla situazione d’emergenza, in cui non è possibile evitare il ricorso a un atto di resistenza violenta. Riferendosi alla Bibbia, egli afferma che il quinto comandamento “non è un criterio del giudizio, ma una norma dell’azione per la persona o comunità agente, che devono fare i conti con esso in solitudine, e assumersi, in casi straordinari, la responsabilità di prescindere da esso” (Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995, p. 27). Qui alla violenza non è attribuito alcun carattere salvifico o fondatore di una nuova epoca del mondo, ma un valore di autodifesa e resistenza che si pone come assolutamente ineludibile. Una situazione simile è descritta nel romanzo Billy Budd di H. Melville.

[12] J. A. Escudero, “La fenomenologia heideggeriana degli stati d’animo: la funzione di apertura mondana di angoscia, noia e ritegno”, in Martin Heidegger trent’anni dopo, Genova, Il Melangolo, 2009, p. 124.

[13] Ivi, p. 129.

[14] S. Zizek, Il Grande Altro, Feltrinelli, Milano 1999, p. 92.

[15] In Moniti all’Europa, Milano, Mondadori, 2017.

[16] Il partito socialdemocratico ebbe il 24.5 % dei voti, Hitler il 18.3, Il partito comunista il 13.1.

[17] T. Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, Milano, Mondadori, 1997, p. 1354.

[18] Ivi, p. 1367.

[19] S. Freud, “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, in Psicanalisi della società moderna, Newton Compton, Roma 2010, p. 154.

[20] Ivi, p. 156.

[21] Ivi, p. 157 e 162. Questa l’impressionante pagina dal diario di G. Bottai (uno degli intellettuali fascisti più importanti) del gennaio 1941, citata nel suo libro da E. Gentile: «Ora, sono solo, senza il mio capo…Un Capo è tutto nella vita d’un uomo: origine e fine, causa e scopo, punto di partenza e traguardo; se cade, dentro si fa una solitudine atroce. Vorrei ritrovarlo il Capo, rimetterlo al centro del mio mondo, riordinarlo, questo mio mondo, intorno a lui. Ho paura, paura che questo non mi riesca più. Ora, so cos’è la paura: un precipitare improvviso d’una ragione di vita».

[22] Cfr. G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, Il Mulino, 2009.