Does a formula dream a masterpiece? Intelligenza Artificiale e creatività

Does a formula dream a masterpiece? Intelligenza Artificiale e creatività

20 Giugno 2019 Off di Francesco Biagi

di Paolo Marocco – Riccardo Ferrari (20 giugno 2019)

 

 

Obvious, Portrait of Edmond Belamy, 2018

 

1. Introduzione

Il 23-25 ottobre 2018 Christie’s ha realizzato, per l’asta Prints & Multiples, il prezzo di 432.500 dollari (superando di 45 volte l’offerta iniziale) per l’opera Portrait of Edmond Belamy, creata da GAN (Generative Adversarial Network) e firmata da un algoritmo, la cui formula sintetica si può osservare nel quadro, in basso a destra:

 

 

Il quadro fa parte di un gruppo di ritratti di una famiglia mai esistita, generati da una rete neurale predisposta da Obvious, un collettivo di ricercatori e artisti di Parigi che esplora i rapporti fra arte e Intelligenza Artificiale.

Le Generative Adversarial Networks (GAN) sono un modello di Rete Neurale, ideato da un ricercatore in Deep Learning, Ian Goodfellow. Le GAN fanno parte di una classe di algoritmi di “nuova generazione”, che negli ultimi anni ha avuto molte applicazioni, tra cui alcune in ambito artistico: si possono ricordare sperimentazioni come quelle di R. Barrat (che costituisce l’anello di passaggio fra il modello di Goodfellow e l’applicazione di Obvious), di Trevor Plagen, le fotografie “sintetiche” realizzate dai ricercatori di NVIDIA, oltre alle realizzazioni, a metà tra “creazione” e classificazione automatica, di A. El Gamal che nel marzo 2019 ha partecipato a un’importante esposizione nella galleria HG Contemporary di Chelsea, New York.

L’operazione dietro al Ritratto di Edmond Belamy suggerisce alcuni interrogativi che possono, in controluce, rivelare i fantasmi entro cui si sta muovendo la ricerca artistica contemporanea. Chi è l’autore di questa serie di ritratti? Che cosa è la creatività e fino a che punto questa facoltà può o potrà essere una proprietà non più umana? E, ancora, in che cosa si discosta qualitativamente questo quadro dagli esempi di arte digitale precedenti o da altre applicazioni che utilizzano reti neurali come DeepDream di Google?

Per dare una risposta a queste domande bisogna entrare nel merito e effettivamente comprendere il significato di questo modello, allo scopo di verificare quali istruzioni l’uomo abbia dato alla macchina e fino a che punto la macchina possa essere vista come capace di ragionare, seppur semplicemente, sul risultato che ha ottenuto.

Portrait of Edmond Belamy è un’operazione più che un’opera: una performance che introduce un nuovo utilizzo di un medium come l’intelligenza artificiale. Questa immagine mette l’osservatore contemporaneo di fronte a un incontro disturbante con i propri mostri, portando in primo piano un ricorrente problema estetico, ossia il gioco di riconoscimento tra l’originale e la copia.

 

 

2. Cosa è GAN

La Generative Adversarial Network (GAN) è un modello di Rete Neurale definita da una delle figure più autorevoli in AI, Yann LeCun, come: “L’idea più interessante degli ultimi 10 anni di Machine Learning”.  L’obiettivo delle GAN, perlomeno di quelle che qui presentiamo, è di creare immagini a partire da due classi di informazioni opposte. La prima è generata casualmente, mentre la seconda è costituita da immagini reali (es.: fotografie). Più tecnicamente, due Reti Neurali riproducono un gioco antagonista. La prima (Generator) genera un’immagine casuale, che man mano approssimerà una reale.  La seconda (Discriminator) ha il compito di distinguere le immagini reali da quelle create dalla rete generativa. Quando sbaglia, e attribuisce a un’immagine generata l’etichetta di immagine reale, è come se, al passo successivo, dicesse: “questa immagine è reale!”.  Man mano che il processo itera, il gioco diventa più complesso, perché entrambe le reti apprendono. Quella che vuole ingannare (Generator) si fa sempre più esperta nel farlo, sfruttando le falle del Discriminator, che affina al contempo la sua capacità discriminativa. Dato che Il Discriminator commette errori, e apprende da questi errori, dopo un po’ di cicli, diventa meno chiaro quale sia l’immagine reale (chiamiamola “vera” per semplicità), e quale l’immagine generata (“falsa”). È lo stesso Goodfellow, nel primo lavoro teorico sulle GAN di quattro anni fa, a utilizzare la metafora del poliziotto (Discriminator) e del falsario (Generator), per spiegare il meccanismo: entrambi si faranno sempre più abili nel loro ruolo, finché non diventerà impossibile distinguere l’immagine vera da quella falsificata.  L’esotica formula con cui è firmato Belamy, dice proprio questo: il poliziotto D massimizza la probabilità associata all’informazione per capire meglio, mentre il ladro G la minimizza per ingannare, ma lo fanno insieme. La probabilità viene qui vista come l’entropia dell’informazione (l’immagine) da trasformare, finché il sistema non evolverà più. Il poliziotto, per decidere, potrà solo tirare in aria una monetina, dato che le due classi di immagini sono diventate per lui indistinguibili.

Facciamo un esempio concreto: se si parte da un training set (cioè un insieme di dati usato per addestrare un sistema) di ritratti fotografici, un umano emetterà un giudizio di accettazione/rifiuto di una nuova immagine somigliante, in funzione di un modello interno di verità. La macchina sarà invece acritica e il gioco sarebbe costretto a fermarsi verso un equilibrio di Nash.  Il confronto tra umano e macchina, che forse potrà sembrare un po’ scontato, è utile per introdurre uno dei temi che affronteremo. Le GAN non hanno auto-coscienza: hanno solo una capacità elevata di creare manufatti non riconducibili banalmente alle immagini da cui hanno appreso (anzi: formalmente non riconducibili), ma non hanno la capacità di capire il loro processo “creativo”, ammesso che si possa definire tale.

Il discorso sulla simulazione e la sfida richiama uno dei test più famosi dell’Intelligenza Artificiale, il test di Turing, che nelle versioni fanta-romanzate si potrebbe descrivere in questo modo: un giudice/poliziotto (Discriminator) deve decidere tra una macchina (Generator) e un umano, cercando di riconoscere quale dei due sia la macchina che mente, attraverso domande e risposte.  Philip Dick, che riprende il Turing test e lo incrocia alla macchina della verità, non utilizza due soggetti interrogati ma solo uno, il droide, che è talmente verosimile da riuscire a ingannare il poliziotto, o perlomeno a provarci. Anche in questo caso, come nelle GAN, si procede per passi, soltanto che ci sono sostanziali differenze: il poliziotto è umano, non una macchina, anche se esistono alcune versioni interpretative di “Blade Runner”, suffragate dal romanzo di Dick, in cui l’agente Deckard è ipotizzato essere una macchina, il che anticiperebbe narrativamente il modello formale di Goodfellow.

 

Fotogramma del film Balde Runner, Ridly Scott, 1982

 

Sulla proprietà di avere o no una coscienza, come condizione necessaria per superare il Test di Turing, si potrebbe discutere a lungo. Nel Test di Turing e nei suoi derivati, il gioco finisce una volta che la macchina viene scoperta, o che il poliziotto desiste (come nel caso di Deckard quando interroga la sensuale androide interpretata da Sean Young). Nelle GAN, il gioco continua ammettendo gli errori del poliziotto, anzi, incoraggiandoli, dato che si tratta di una sorta di gioco di formazione, e non di indagine. Il contrappunto tra i due ruoli, il poliziotto e l’interrogato, nelle GAN esce dallo spazio di una decisione finale sul vero o falso, e crea un risultato che non è vero, ma nemmeno troppo falso.

La metafora del mimetismo animale spiega abbastanza bene la dinamica: la preda cerca di somigliare a un modello che non sia appetibile dal predatore. Se riesce ad essere convincente, supera il Test.  Se non ci riesce può sempre provare a scappare, e tentare di essere più credibile al test successivo.

 

3. Da Goodfellow a Belamy: La catena GAN – Barrat – Obvious

Come mai il quadro venduto da Christie’s si chiama Belamy, e cosa ha a che fare con le GAN? Il legame è molto stretto: Belamy è semplicemente la francesizzazione di Goodfellow. Il collettivo Obvious ha voluto rendere omaggio al progenitore dell’algoritmo di base, dando al quadro il nome del creatore della “macchina”, e firmandolo con la formula che sintetizza l’algoritmo stesso. Una formula che compone due idee di fondo, nonché capisaldi di due influenti correnti della matematica e della statistica del ‘900: la teoria dell’informazione di Claude Shannon e la Teoria dei Giochi di Von Newman e Nash.

 

Ian Goodfellow, Generating cat photos, 2017

 

La formula, opportunamente estesa e trasformata in un algoritmo a passi, si può trascrivere nel codice di una rete neurale, e renderla operativa. È quello che hanno realizzato Goodfellow e gli altri autori della prima pubblicazione, per mostrarne i primi risultati visivi, senza nessuno scopo di ‘creazione’ artistica.  Le prime ipotesi di sviluppo in questa direzione avvengono due anni dopo, per opera di un sedicenne del West-Virginia, appassionato di rap, Robbie Barrat, che nel 2016 scrive il codice GAN sia per la creazione di musica, sia di dipinti, e lo pubblica in una piattaforma Open Source molto diffusa (Github), fornendo anche qualche risultato del suo lavoro. Poiché si trattava di codice non protetto, chiunque poteva accedervi, usarlo, modificarlo, ripubblicarlo etc.

 

 

Ed è quello che a metà del 2017 avrebbe fatto il collettivo di Obvious. Un gruppo di tre giovani francesi di formazione differente (uno è un designer, uno si occupa di comunicazione e l’altro di AI) che intuiscono l’occasione di creare un’opera vera e propria, che potesse essere accettata nel mercato ufficiale dell’arte. Un anno dopo il quadro Edmond Belamy approdava a Christie’s, acquisendo subito rilevanza internazionale. Il collettivo Obvious cercherà subito di relegare Barrat in una posizione marginale, in quanto il codice di quest’ultimo, sebbene necessario per l’intera operazione, non andrebbe visto come l’atto decisivo. Le GAN sono difficili da usare, nel senso che è difficile trovare i parametri “ottimi” per una convergenza verso un risultato (in altre parole, nella maggior parte dei casi, non producono nulla, e implodono prima oppure oscillano all’infinito). Merito quindi di Barrat è stato quello di superare una prima fase sperimentale, per ottimizzare il codice verso uno strumento meno difficile da utilizzare.

 

4. Oltre l’Obvious…

Sebbene la digital-art esista da almeno 50 anni, i nuovi sviluppi AI creano un importante salto in avanti, almeno dal punto di vista tecnico. I programmi utilizzati di recente infatti incorporano tecnologie statistiche di apprendimento (Machine Learning e Deep Learning) che si differenziano dal passato perché non implementano una sequenza di regole statiche, come nei programmi tradizionali, ma apprendono secondo modelli complessi, in cui le decisioni non sono intuibili o decomponibili in un insieme definito di processi logici. Infatti, nel caso del ritratto di Belamy, non è semplice spiegare perché la macchina abbia scelto di fare un naso che sembra un buco, con contorni sfumati, mentre gli occhi sono ancora riconoscibili. Si tratta di un approccio più evoluto di quello, diventato popolare grazie ad alcune Mobile App, derivate dal programma “DeepDream”, dove l’idea è quella di apprendere da patterns di artisti famosi (es. Munch, Seurat, Van Gogh e altri) e mappare questi patterns in un ambiente estraneo (es.: un paesaggio marino). Anche in questo caso vengono usate reti neurali, dove la rete apprende da due informazioni diverse (ad es.: una foto di un paesaggio e un quadro di van Gogh) e le integra man mano cercando di mantenere la geometria della foto, ma fusa con i colori e lo stile di Van Gogh.

 

Vincent van Gogh-inspired Google Deep Dream painting

 

Le diverse parti sono quindi abbastanza riconoscibili da un umano che conosca Van Gogh: una cosa che non si può affermare altrettanto facilmente per il ritratto di Bellamy, o per altre recenti opere di artisti che adottano le GAN.

Ad esempio, Trevor Paglen, autore di un’interessante opera “Bacon-like” dal titolo False Teeth (Corpus: Interpretations of Dreams). Adversarially Evolved Hallucination, è un fotografo, artista e attivista che ha formato un modello di creatività dell’AI, basato sulla congettura che non sappiamo perché e come un lavoro realizzato con Neural Network ottenga proprio quel risultato. La situazione, secondo Paglen, è la stessa delle raccomandazioni dei siti di e-commerce, o dei sistemi di diagnostica: abbiamo una decisione o un suggerimento da interpretare, a cui ci affidiamo come fosse stato preso da un umano esperto in materia. Ma la grande differenza è che non possediamo i parametri valutativi della scelta da parte della macchina.

 

Trevor Paglen, Adversarially Evolved Hallucination, 2017

 

Anche Mario Klingemann, vincitore nel 2018 del Lumen Prize Gold award (con l’opera The Butcher’s Son) lavora da alcuni anni con le reti neurali. Sotheby’s ha venduto una sua opera nel febbraio 2019 per circa £ 40.000, Memories of Passersby, un’installazione che usa l’intelligenza artificiale per creare un infinito flusso di ritratti. L’autore ha messo a punto una tecnica, chiamata Neurography, in cui crea immagini trainando reti neurali, a partire da fotografie di microscopi elettronici, parti di automobili e immagini social scaricate da Instagram.

 

Mario Klingemann, Memories of Passersby I, 2019

 

Ma è forse proprio Robbie Barrat, diffusore del primo codice pubblico delle GAN, l’autore che nell’ultimo anno si è dimostrato il più attivo sia sul lato espositivo (le recenti mostre: Automat & Mensch” kateVasGallery, “BARRAT/BARROT: Infinite Skulls”) sia su quello tecnico della programmazione di GAN dedicate ad approfondire l’aspetto generativo e creativo (es.: la possibilità di decidere quali parti del corpo processare).

Un approccio alla classificazione delle opere d’arte è invece il percorso che negli ultimi anni ha intrapreso Ahmed El Gamal, un ricercatore di Computer Science e direttore del laboratorio “Art and Artificial Intelligence Laboratory” della Rutgers University (New Jersey). El Gamal ha realizzato diverse opere, ma soprattutto ha scritto un algoritmo originale di derivazione GAN (chiamato CAN: Creative Adversarial Networks) con cui teorizza una vera e propria formula creativa dell’AI. Il modello di El Gamal mantiene il gioco avversario tra due Reti neurali, dove il Discriminatore non deve decidere tra immagini create automaticamente e immagini già esistenti, bensì tra immagini appartenenti al mondo informe dell’arte non certificata (ossia immagini qualunque) e quadri famosi di artisti di cui esista documentazione storico-critica.  Secondo l’autore, le CAN avrebbero la prerogativa di imparare dalla storia dell’arte e quindi di creare arte nuova, come potrebbe fare un artista umano, rielaborando i lavori precedenti in modo originale.

 

AICAN + Ahmed El Gamal, Faceless Portraits Transcending Time (HG Contemporary, New York)

February 13 – March 5, 2019

 

La congettura di un’arte nuova si scontra un po’ con gli esempi di quadri realizzati con le GAN che negli ultimi anni sono stati presentati. C’è una sorta di aspetto simile in tutte queste opere, che percepiamo alla fine come somiglianti, probabilmente dovuto all’apprendimento da un vasto dataset di opere dell’ultimo millennio, ognuna delle quali aderisce a un processo di certificazione nella storia dell’arte, nel quale viene espressa sia un’idea di cambiamento sia un’idea opposta di riconoscimento di qualcosa di precedente. La rete neurale valorizza questa alternanza di imitazione/creazione apprendendo proprio dalle proprietà più stabili, e cercando ulteriormente di superarle, ma in modo prevedibile (anche se formalmente il risultato è diverso, e non riconducibile a una combinazione dei quadri della storia dell’arte). Questa “mancanza di stupore” è forse la critica forte da muovere oggi all’AI applicata all’arte.

 

5. Una creatività non umana?

Per idea estetica intendo quella rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto, senza che però un qualche pensiero determinato, cioè un concetto, possa esserle adeguato, e che di conseguenza nessun linguaggio possa completamente raggiungere e rendere intelligibile.

(Immanuel Kant, Critica del Giudizio)

 

La creatività, che è una delle facoltà più specifiche dell’essere umano, potrà essere considerata, sviluppando la tecnologia delle GAN, anche come una proprietà delle macchine intelligenti? In una release per la stampa, Obvious scrive che “la creatività non è solo per gli umani”, dando così all’interrogazione una risposta affermativa, che sembra però essere una semplificazione dettata dal marketing artistico più che una riflessione estetica.

Il processo creativo che ha portato alla realizzazione di questi ritratti è invece ancora molto “umano”: è innescato e legittimato dagli operatori che manipolano molti fattori come la scelta del training set, cioè i 14000 ritratti dipinti fra il XIV e il XX secolo inseriti nella memoria neurale, il settaggio di tutti i parametri per fare funzionare l’algoritmo, fra cui le regole di classificazione, la decisione stessa di quando finire, cioè interrompere il gioco discriminatorio. Rientra nella creazione (troppo) umana anche il risultato finale, ossia il quadro che, grazie alle stampanti 3D utilizzate, riproduce il tipico genere del ritratto a olio su tela della tradizione pittorica. Inoltre, leggiamo questo dipinto al di là della sua mera materialità: siamo coinvolti nel gioco linguistico predisposto da Obvious, che è poi il gioco dell’arte contemporanea, in cui oltre a esserci un oggetto creato, incontriamo qualcuno che definisce socialmente quello che sta facendo per mezzo di un testo di accompagnamento, l’invenzione di un mondo alternativo come quello della famiglia immaginaria e, ovviamente, la casa d’aste che impone l’opera nel mercato.

Ma, a parte la dichiarazione esplicita sulla creatività non umana, nel testo reperibile sul sito del collettivo parigino il discorso diventa più problematico e circoscritto: “Se l’artista è chi crea l’immagine, allora è la macchina. Se l’artista è chi procura la visione e vuole comunicare il messaggio, allora siamo noi”. Infatti, gli autori sostengono che l’AI può essere vista, molto più semplicemente, come una verifica di quello che può fare oggi l’uomo, dell’orizzonte in cui ci muoviamo. Essa è un medium che ci aiuta ad esplorare le nostre possibilità, anche espressive, e i nostri limiti, come è avvenuto dopo la prima fotografia di Niepce del 1826. Se allora ci si chiedeva se la macchina fotografica avrebbe potuto sostituire l’artista, oggi constatiamo che essa è solo uno fra gli strumenti in mano agli artisti. L’AI è una nuova protesi tecnologica che ha la peculiarità di riprodurre e automatizzare alcune parti di quell’insieme di facoltà e operazioni che portano alla creazione di un’immagine. Come abbiamo visto, le GAN possono creare opere “nuove” attraverso un processo a metà fra l’aleatorio e il combinatorio, ma si tratta di immagini originali?

È difficile dare una risposta, perché bisognerebbe prima capire che cosa sia la creatività e, soprattutto, come oggi essa venga concettualizzata e praticata. L’artista contemporaneo si è mosso innanzitutto nella ricerca del valore innovativo delle sue opere, ma questa ricerca della pura novità si può tradurre in una coazione a ripetere un postulato di matrice romantica, dove l’arte è vista come un fare libero e inventivo che interrompe e supera la tradizione. Non sempre però ciò che è nuovo è anche originale o “creativo”. El Gamal, nelle spiegazioni teoriche delle sue applicazioni, cita Kant e la sua definizione delle potenze del genio artistico: l’originalità e l’esemplarità. L’opera d’arte per Kant deve cioè distaccarsi dalla mera imitazione perché ha lo scopo di essere originale, dare origine a qualcosa di cui non esiste ancora una regola e deve quindi essere esemplare nel senso che istituisce una nuova regola che dovrà essere imitata dalla comunità che la vede apparire. Non il semplice valore innovativo, quindi, ma un movimento che insieme all’istituzione della novità ritorna indietro. La creazione artistica è un evento che mobilita tutte le facoltà cognitive dell’essere umano (nel linguaggio kantiano, il “libero gioco delle facoltà”), aprendo l’orizzonte a partire dal quale comprendiamo il mondo sensibile nella sua singolarità.

 

Lo scimpanzé Congo mentre dipinge, 1957

 

Questa complessità antropologica rende difficile teorizzare una creatività non umana. Forse un termine di confronto si può trovare nel mondo animale e nelle creazioni dell’animal art. Si potrebbe vedere Congo, lo scimpanzé avviato all’attività artistica dall’etologo Desmond Morris negli anni ’50 (i cui quadri astratti hanno avuto altrettanto sorprendenti performances nel mercato artistico), come la polarità opposta alla AI, mentre l’uomo si muove nel mezzo di questo rapporto fra il suo parente più prossimo e una sua possibilità futura. I quadri di Congo, sebbene collezionati e ammirati da artisti come Picasso e Mirò, e anche se a una mostra verrebbero confusi con quadri astratti realizzati da artisti umani, sono frutto di un’altra logica rispetto a quella creativa umana o solo in parte riconducibile a quest’ultima. Si tratta di un gioco esplorativo e manipolatorio, senza uno scopo artistico né l’interesse di comunicare significati, coadiuvato da un setting umano (pennelli, colori, tela). Per le scimmie antropoidi la “creatività” coincide con un’attività di gioco che si esaurisce nell’atto senza uno scopo e nella ricerca di soluzioni innovative nel loro immediato ambiente senso-motorio.

 

Un dipinto di Congo, ispirato a Irises di Vincent Van Gogh

 

La creatività umana è invece intrecciata con meccanismi simbolici e metalinguistici, oltre ad essere una “dotazione di specie”: l’azione innovativa è un aspetto bio-storico dell’uomo e rientra tra i requisiti “naturali” dell’adattamento all’ambiente da parte dell’animale umano. Homo sapiens è una creatura esposta, priva di “nicchia ecologica”: proprio per questo è creativo, per sopravvivere attraverso soluzioni e azioni innovative.

Secondo Chomsky il linguaggio umano è caratterizzato da una doppia creatività: la creatività che segue le regole (rule-following creativity), che si riferisce alla possibilità di formare infinite proposizioni da un numero finito di istruzioni grammaticali, e la creatività che cambia le regole (rule-changing creativity), ossia la capacità di ogni parlante di reagire allo stimolo in modo libero e contestuale, cambiando le regole e istituendone di nuove (la regola, infatti, non dice nulla sulle sue possibili applicazioni, che devono fare i conti con l’illimitata contingenza che ci circonda). Le due creatività diventano una nel momento in cui la situazione impone un cambiamento delle regole, nella situazione critica che permette all’uomo di cogliere l’occasione, di innovare e cambiare il gioco per riadattarsi continuamente all’ambiente (per queste riflessioni rinviamo al libro Creatività  di Emilio Garroni, pubblicato da Quodlibet nel 2010).

L’intelligenza artificiale in opera nelle GAN è ovviamente priva della base bio-storica da cui nasce l’azione innovativa umana, ma può simulare di lavorare creativamente sulla base di schemi “innestati” in memoria, in modo da disattendere le aspettative e, nel suo micromondo, istituire nuove regole. Nell’applicazione di Belamy avere fatto un ibrido fra le regole del repository della storia dell’arte e la mancanza di regole nella produzione aleatoria del Generator, ha permesso la creazione di un nuovo sistema. Infatti, quest’ultimo permette di creare immagini “nuove”, che nascono da un processo antagonista vero/falso che massimizza le differenze rispetto ai modelli di partenza. Ma contemporaneamente minimizza le differenze tra gli stessi modelli di partenza e un nuovo modello capace di imitare questi ultimi. La creatività delle GAN è una zona muta in cui non si conosce perché e come avvengono alcuni processi che portano alla creazione delle immagini: la rete neurale non interpreta metalinguisticamente quello che fa.

Il medium apre così varie possibilità: un ibrido in cui l’uomo manipola e collabora con la macchina per esprimere e sublimare il proprio mondo o, come nel caso di Belamy, un artista che interviene, più che nel processo creativo, nella sua comunicazione sociale, in una sorta di performance che coinvolge i diversi livelli del mondo dell’arte. Il paragone con la fotografia può ancora essere illuminante: a metà Ottocento si offrivano ad artisti e fotografi varie opzioni, come lo sviluppo della ricerca tecnico-scientifica intorno al dispositivo, l’uso della fotografia come documento visivo o il tentativo di darle un valore artistico come nelle tendenze del Pittorialismo. Il dibattito teorico fu acceso e controverso: basti ricordare la “scomunica” che Baudelaire diede al mezzo fotografico e alla sua considerazione artistica, sostenendo che al più avrebbe potuto essere “un’ancella dell’arte”. Anche oggi siamo di fronte a una vasta gamma di opzioni e interpretazioni sull’utilizzo artistico dell’AI, che sembra realizzare un’idea che serpeggia da alcuni decenni nella riflessione estetica, ossia lo statuto di un simulacro che sostituisca integralmente la realtà. Colpisce in tal senso l’esperimento sviluppato da un gruppo di ricerca di NVIDIA che utilizza tecnologia GAN: la creazione di ritratti fotografici che ci presentano umani assolutamente credibili e verosimili, ma mai esistiti, vere e proprie fake-faces.

 

Facce generate da NVIDIA Neural Network, 2018

 

Se riguardiamo Edmond Belamy, vediamo un’immagine assimilabile al ritratto di un gentiluomo dei secoli passati il cui volto, fra le unità di colore, appare incerto: alcune parti della tela rimangono bianche e i tratti somatici non riescono a focalizzarsi secondo le nostre abitudini percettive. Il naso scompare sotto i nostri occhi dando all’insieme una configurazione ottusa e un po’ mostruosa, con un effetto a metà fra la maniera “alla Bacon” di tanta pittura figurativa contemporanea e la mutazione dell’identità individuale conseguente a un trapianto facciale. Dal fondo di questa incertezza vediamo però due occhi che duramente ci osservano: due freddi occhi inumani che sembrano provenire da un altro mondo e dietro i quali si agita un complesso pre-individuale, il nostro mostro contemporaneo.