Il comunismo eretico e il Sessantotto

Il comunismo eretico e il Sessantotto

28 Maggio 2019 Off di Francesco Biagi

di PIER PAOLO POGGIO

30 giugno 2011 – democraziakmzero.org

 

Pubblichiamo la “Premessa” di Pier Paolo Poggio al secondo volume di “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il sistema e i movimenti. Europa 1945-1989” (JacaBook), in libreria in questi giorni.

 

 

Nel Novecento l’Europa è stata il teatro principale e l’epicentro della guerra mondiale che, scoppiata come conflitto militare per decidere a quale potenza statale spettasse il dominio sul mondo, per effetto della rivoluzione russo-bolscevica si è trasformata in guerra civile mondiale tra capitalismo e comunismo, tra due sistemi opposti, sul piano politico, economico, ideologico. Questa rappresentazione lineare dicotomica stringe in una morsa tutti gli eventi del secolo, ne abbrevia la corsa catastrofica e liberatoria, sfociando nel crollo del 1989, con contraccolpi in grado di minare anche le conquiste dell’89 francese, come dimostrerebbe il diffondersi in ogni dove di derive neoassolutiste, fondamentaliste, tribali, tanto repressive quanto supportate tecnologicamente. La lotta mortale tra i due contendenti sfocia così in una sconfitta certa e apparentemente definitiva, quella del comunismo, a cui fa da contraltare la vittoria indiscutibile ma insostenibile del capitalismo. Insostenibile perché secondo i suoi attuali avversari il capitalismo ancor meno del comunismo o di qualsiasi forma di socialismo è in grado di affrontare e risolvere l’inedita crisi ecologica globale, frutto avvelenato e eredità ingestibile del “secolo breve”. Ma tutto ciò è oggetto di controversia, mancano prove definitive e irrefutabili, allo stato attuale si può considerare ancora prevalente la tesi secondo cui il mercato e la scienza riusciranno a superare i lati più spiacevoli della questione ambientale. Per altro i critici, talvolta eredi dei comunisti eretici, non demordono e sostengono che le attese miracolistiche nel mercato autoregolantesi e nell’innovazione tecnologica non fanno che riprodurre e alimentare le cause della crisi, consegnando inerme l’umanità futura alle sue conseguenze. A ciò aggiungono che il responso in merito deve necessariamente affidarsi ad un futuro che ritengono ipotecato, è il presente post-89 ad inficiare pesantemente la vittoria del capitalismo divenuto, grazie ad essa, globale. La storia non è finita: la democrazia lungi dal generalizzarsi si svuota di contenuto anche nei paesi che l’hanno tenuta a battesimo, le enormi disuguaglianze economiche cambiano forma ma non diminuiscono, l’esibizione della ricchezza e le tragedie della fame convivono nello spettacolo quotidiano inscenato dai media, la criminalità e l’illegalità avanzano di slancio in un paesaggio sociale desolato, le giovani generazioni sono private della speranza, ecc. In definitiva la vittoria senza argini del capitalismo sembra riprodurre e rinnovare le motivazioni pratiche e ideali che hanno alimentato il comunismo novecentesco, e al di là di esso molti altri movimenti e posizioni politiche e ideologiche, manifestatesi prima, durante e dopo la parabola comunista russo-sovietica, che ora ci appare lontana, marginale e quasi ininfluente, e che però è stata egemone e determinante, anche se la reductio ad unum, ad un tempo leniniana e schmittiana, da cui siamo partiti, oscura e cancella tutto ciò che non può essere irreggimentato nei due campi contrapposti, operando una semplificazione inaccettabile sul piano storico, oltre che discutibile e contendibile su quello politico-ideologico. Lo schema bellico amico-nemico, la guerra come motore ultimo della storia, rappresentano precisamente il lascito culturale della modernità, sia statuale che rivoluzionaria, da contrastare e superare, facendo valere gli esiti universalistici ideali e pratici del bistrattato Novecento o, se si vuole, dell’Altronovecento che ci prefiggiamo di far riemergere. Riprendendo le fila di un discorso sviluppato nel 1° volume di quest’opera sino al 1945, vale a dire alla Seconda guerra mondiale, per affrontare il tempo e lo spazio europeo dei suoi esiti, è giocoforza considerare gli effetti della scomposizione dello schema bipolare dovuto alla presenza della terza forza fascista nel cuore dell’Europa e alla paradossale, risolutiva, alleanza dei due nemici epocali contro tale terzo incomodo. Di fronte alla dura realtà dei fatti a poco valgono gli sforzi degli ideologi dell’una e dell’altra parte volti a ricondurre fascismo e nazismo al capitalismo, come sua manifestazione ultima, caduti gli orpelli liberal-democratici nel fuoco della guerra di classe. Ovvero, più massicciamente, a farne un’articolazione del totalitarismo, espressosi prima e più compiutamente in forma comunista cosiddetta sovietica. In concreto la guerra vide schierarsi sullo stesso fronte la democrazia capitalistica occidentale e l’URSS di Stalin contro gli Stati fascisti a guida nazista. Rompendo gli schemi il treno della storia compie uno scarto, ovvero secondo altri, all’epoca maggioritari, rientra nei giusti binari e consente la ricomposizione di una alleanza in cui sono presenti tutte le forze del progresso in lotta contro quelle della reazione. In ogni caso questo fu il leit-motiv della propaganda stalinista e delle forze intellettuali che si schierano a fianco nell’URSS, superato lo choc del patto Molotov-Ribbentrop. Ma le peripezie dialettiche non sono finite dato che, appena terminata la guerra Churchill proclama ciò che Stalin pensava da sempre, vale a dire che l’alleanza era transitoria e contro natura, rispetto ad un’ostilità fondamentale che alimenterà la Guerra fredda – e molteplici sanguinosi conflitti locali – . In tal modo lo schema bipolare torna a governare le sorti del mondo, o almeno dell’Europa, togliendo spazio e ossigeno a coloro che, senza alcuna nostalgia per una qualche terza via fascista, sono critici dello stalinismo non meno che del capitalismo. Si tratta di posizioni che nello spazio europeo presentano qualche interesse sul piano intellettuale ma non hanno agibilità sociale. Prima, la guerra mondiale in atto impone di schierarsi o di rinunciare completamente all’azione politica, dato che le posizioni neutraliste e pacifiste sono ancor più screditate che nel corso della Prima guerra mondiale. Dopo, la Guerra fredda e l’equilibrio del Terrore hanno come effetto se non come obiettivo di congelare all’interno dei rispettivi campi i singoli e gli attori collettivi, in un contesto che vede l’Europa spaccata a metà, senza alcuna autonomia e forza politica, ostaggio delle due superpotenze atomiche. La situazione pare essere completamente bloccata, senza spazi di libertà d’azione e di pensiero. In questo quadro è ancor più difficile, di quanto lo fosse negli anni Trenta, costruire un’alternativa ideale e pratica all’esistente, alla presa che è in grado di esercitare attraverso la semplificazione dicotomica della realtà che imprigiona le menti e riduce brillanti intellettuali al rango di propagandisti. In questa situazione è tanto più interessante far emergere e dare voce alle forze intellettuali e sociali ch hanno saputo riaprire i giochi, sviluppare una critica efficace e libera sia del capitalismo a netta egemonia americana che del comunismo staliniano e post-staliniano. Come già nel 1° volume, l’accento viene posto sull’apporto di singoli e di correnti politico-ideologiche, ma sullo sfondo sono da tenere presenti, e direttamente o indirettamente ne diamo conto, i movimenti sociali e le lotte che nelle due metà dell’Europa, soprattutto dagli anni Cinquanta in poi, hanno riaperto una dinamica conflittuale all’interno dei blocchi dominanti, riuscendo a minarne l’egemonia, senza per questo dimenticare che le novità e rotture decisive stavano maturando sulla scena extraeuropea, dove dopo secoli si sviluppa una grande ondata di contestazione al dominio dell’Occidente. Il marxismo ossificato in versione sovietica non dà segni di vita, anche se bisogna distinguere tra l’URSS dove per comprensibili motivi il rinnovamento avviene fuori e contro il “diamat” e i paesi europei entrati nell’orbita sovietica. Qui, partendo dal marxismo, si sviluppano traiettorie diverse ma di indubbio interesse, bastino due nomi, tra quelli che per varie ragioni abbiamo dovuto sacrificare: Karel Kosík e Leszek Kolakowski, ma fermenti interessati, poi del tutto oscurati, sono riscontrabili un po’ in tutti i paesi del centro ed est Europa, talvolta in connessione con ribellioni e rivolte sociali che denotano un evidente deficit di legittimità del “socialismo reale”. Una rivitalizzazione del marxismo si sviluppa con più forza nei principali paesi dell’Occidente, con posizioni diversificate per quanto riguarda l’analisi e il giudizio sull’Unione sovietica, nel difficile esercizio di applicare il marxismo a se stesso. Il caso italiano è particolarmente interessante perché, nel dopoguerra, siamo in presenza del più grande partito comunista dell’Occidente, con oltre 2,5 milioni di iscritti. Sotto l’abile regia di Togliatti si dispiega l’operazione di utilizzo e di nazionalizzazione del pensiero di Gramsci, riuscendo a costruire un’egemonia culturale di corto respiro, già in difficoltà di fronte ai processi di modernizzazione intrecciati al “miracolo economico” nonché sostanzialmente acritica rispetto all’URSS, anche dopo la crisi del ’56. Le potenzialità del pensiero di Gramsci, in una dimensione decisamente post-nazionale, saranno riscoperte in un contesto totalmente mutato, quando non esistono più i referenti politici della sua elaborazione. Ma in contrasto e polemica con il gramscismo, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, emergono pensatori politici o vere e proprie correnti di pensiero in grado di elaborare versioni creative e originali del marxismo, accentuandone i tratti rivoluzionari sia in chiave leninista e operaista sia riproponendo il tema della democrazia diretta, ovvero scavando nella profondità storico-antropologica di un mondo popolare e proletario, colto nel pieno di una mutazione culturale carica di contraddizioni e conflitti, intravedendo la possibilità di spezzare un destino di subalternità mascherato dall’emancipazione dei costumi e dei consumi. Anche in altri paesi gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta si rivelano un potente laboratorio di idee, spesso lontano dalla scena politico-culturale ufficiale. Un caso rilevante e singolare è stato quello inglese, dove il Partito comunista era poca cosa (come anche le varianti critiche) ma dove studiosi di orientamento marxista, specie tra gli economisti e gli storici, raggiunsero posizioni di grande prestigio, si pensi a Maurice Dobb e Eric J. Hobsbawm: intellettuali brillanti ma alquanto ortodossi sul piano politico quindi tenaci difensori dell’URSS. Però anche in Gran Bretagna, sia attraverso il recupero di tradizioni socialiste ottocentesche sia per l’affermarsi di esperienze di base (rank and file) sia per l’influsso del radicalismo pacifista di Bertrand Russel prese forma una nuova sinistra originale e in anticipo sui tempi, contestatrice dell’ordine borghese e fieramente antistalinista. Tra guerra e dopoguerra la “teoria critica” di matrice tedesca, identificata con la Scuola di Francoforte, dà il meglio di sé, contribuendo in modo decisivo alla ripresa dell’analisi diagnostica del capitalismo, fuoriuscendo dalle secche dell’economicismo marxista e concentrando l’attenzione sugli esiti ultimi della modernità, rintracciando legami e complicità tra apocalisse nazista, consumismo, civiltà della tecnica. Non si può dire che il pensiero critico, negli anni della Guerra fredda, si sia concentrato sul comunismo sovietico e abbia fornito contributi memorabili in tal senso (Soviet marxism non è certo l’opera più significativa di Marcuse). Il distacco, che talora sfiora l’indifferenza, non sembra avere motivazioni politiche ma teoriche nel senso che i paesi della rivoluzione d’Ottobre, perduta da tempo la spinta espansiva, appaiono delle varianti inferiori di uno stesso sistema di dimensioni planetarie – diversa è la posizione e la sensibilità politica della Arendt -. Si può dire che solo in Francia, sia presso figure e correnti (anche volutamente) minoritarie e appartate, ovvero da parte di personaggi celebri, come nel caso di Sartre, ma lo stesso vale per Merleau-Ponty, la riflessione teorico-filosofica abbia assunto il comunismo come tema di importanza fondamentale. I contributi presenti nel volume danno conto di questa centralità e delle molte e irrisolte aporie, ereditate e solo apparentemente scavalcate dal movimento del Sessantotto. In ogni caso nessun’altra elaborazione teorica e prassi politica, soprattutto nel contesto europeo, ha anticipato la contestazione giovanile, studentesco-operaia, quanto “Socialisme ou Barbarie” o l’“Internazionale situazionista”. Un’identificazione così forte da bruciare e consumare queste esperienze nel giro di quei mesi e anni, o in anticipo su di essi, come nel caso di “Socialisme ou Barbarie”, con il rischio di entrare in una dimensione mitica e memoriale improduttiva, oltre che in balìa delle oscillanti e antitetiche rappresentazioni del Sessantotto. Negli ultimi anni gli attacchi a quest’ultimo largamente inteso, del tutto indifferenti ed estranei alla storiografia sull’argomento, si sono fatti più insistenti e quasi generalizzati. La realtà attuale appare ad un numero crescente di persone insoddisfacente se non intollerabile, bisogna allora cercare la causa se non il capro espiatorio responsabile di questa sorta di quieto disastro insediatosi nelle pieghe della società e poi man mano in ambiti più vasti, sino a coinvolgere le élites, che non solo si ribellano ma additano un nemico da colpire: lo spirito del Sessantotto. Le accuse eccessive nei confronti di un evento a cui, per altri versi, non si attribuisce alcuna consistenza e profondità sono la spia di un’evidente difficoltà nel prendere le misure al nemico che si vorrebbe sconfiggere e distruggere. Per alcuni il Sessantotto non è altro che una metamorfosi del comunismo, presentatosi in vesti carnevalesche per nascondere la sua natura intimamente nichilistica, manichea e regressiva, poi venuta alla luce con il terrorismo. Agli antipodi abbiamo coloro che imputano al Sessantotto di aver svolto un’azione dissolutrice nei confronti della tradizione comunista, esaltando la spontaneità e l’immediatismo, spingendo le masse a cercare soddisfazione e ad investire energie nei consumi, inaugurando una nuova stagione del capitalismo, all’insegna dell’individualismo e narcisismo. Senza avventurarsi in complesse tipologie, si può dire che, come per il comunismo novecentesco, le interpretazioni del Sessantotto, al di là dei giudizi di valore, si possono raggruppare in due vasti schieramenti. Ci sono coloro che scorgono una piena continuità tra le premesse ideali, gli eventi e le conseguenze storiche. Tali letture lineari, anche di segno opposto, si mantengono alla superficie e hanno come effetto o scopo la banalizzazione del Sessantotto. Più stimolanti sono le interpretazioni che introducono variamente il tema della eterogenesi dei fini, per cui gli effetti sono stati in tutto o in parte diversi e opposti rispetto alle intenzioni. Senza entrare in questa sede in tale tipo di dibattiti e rimandando alla ricchezza dei materiali presenti nella prima sezione della presente opera, oltre che in numerosi contributi che affrontano il tema attraverso singole esperienze e orientamenti ideali, segnaliamo un paio di questioni che hanno diretta attinenza con l’argomento generale del volume. Innanzitutto il Sessantotto, e forse proprio l’anno 1968, segna l’ultimo passaggio del processo di dissoluzione del comunismo sovietico, anche se occorreranno altri venti anni prima della sua fine. Di contro il comunismo eretico sembra poter rinascere a contatto del movimento di contestazione antisistemica generale. In ogni dove si moltiplicano gruppi politici che si rifanno ad una qualche eresia del comunismo novecentesco ma anche alla più stretta e surreale ortodossia. In realtà sono fuochi di paglia destinati a consumarsi rapidamente. Il comunismo eretico può vivere solo in lotta e polemica con quello ufficiale e statale. In caso contrario viene riassorbito e sopravvive come setta religiosa astorica. Crediamo che il ripiegamento del movimento di contestazione nell’alveo delle varie correnti del comunismo novecentesco costituisca un preciso segnale dei limiti e della inadeguatezza del Sessantotto rispetto al compimento dei suoi obiettivi. E proprio la scarsa comprensione e conoscenza del socialismo realmente esistente sono la spia di una debolezza strutturale del movimento, dimostratosi incapace di affrontare la micidiale dissimmetria tra le due contestazioni. Nei paesi comunisti le lotte, in condizioni difficilissime, avevano come obiettivo la democrazia e la libertà. In Occidente la riautentificazione del comunismo, spesso del tutto acritica nei confronti del comunismo sovietico o di sue varianti, attivando processi di identificazione con realtà, come la Cina maoista, di cui non si sapeva nulla. Su un punto cruciale l’universalismo militante del movimento del Sessantotto non regge alla prova della storia. Tra i comportamenti e la cultura politica, la vita e l’ideologia si apre uno iato che non trova ricomposizione in una sintesi superiore, senza appartarsi dal mondo e abbandonare la lotta politica. È sicuramente possibile e legittimo cercare nel Sessantotto le origini più prossime di movimenti come il femminismo e l’ecologismo o le premesse dei movimenti anti o altermondialisti di fine-inizio secolo. Bisogna però anche restituire il Sessantotto alla sua epoca, senza apologia e demonizzazione; da questo punto di vista si può dire che non riuscì ad andare oltre, a superare i suoi limiti perché esso non fu solo un nuovo inizio, sia pure incerto e carico di contraddizioni, ma soprattutto la fine di una storia, portata a esaurimento nei fatti più che nella coscienza, nei comportamenti e nei sentimenti più che nella riflessione. Nel momento decisivo la saldatura tra movimento e pensiero critico lasciò il posto al ritorno dell’ideologia vissuta in termini totalizzanti. Ma questa politicizzazione estrema del movimento ne mina la forza e la credibilità, la capacità di diffondersi nella società. Nella divaricazione tra azione controculturale e uso delle armi si consuma l’autoannullamento del movimento, lasciando libero corso alle spinte restauratrici in chiave liberista e neoetnica. Il comunismo eretico trova nel Sessantotto il palcoscenico su cui inscenare un’ultima rappresentazione, emergendo per un breve momento alla luce del sole, ma ferreamente legato alla sua matrice primonovecentesca non fornisce apporti significativi all’elaborazione di una teoria che sia di supporto nel passaggio dallo stato nascente alla maturità e al radicamento delle trasformazioni indotte dal movimento. Lo stesso si può dire, sia pure sommariamente, per le altre correnti storiche del movimento operaio, da quelle socialiste a quelle anarchiche. Il pensiero critico aveva alimentato e per certi versi anticipato il Sessantotto, da intendersi qui in una accezione ampia che va al di là dell’evento e copre un breve ciclo storico. Eppure anche in questo caso il movimento, nonostante la sua sorprendente ampiezza, non si può dire che abbia alimentato un rinnovamento radicale della teoria politica. Quel che avviene è una sorta di neutralizzazione accademica del pensiero critico, di cui beneficia in primo luogo il marxismo, specie nel caso italiano, con esiti modesti non destinati a passare alla storia. Emergono piuttosto figure dotate di grande energia che attraversano ambiti ed istituzioni diverse, in una dimensione pienamente internazionale, saldano l’audacia teorica all’impegno militante, come nel caso di Michael Foucault e di Ivan Illich. Si può ipotizzare che l’impasse in cui è finito il Sessantotto, e che ancora grava sui movimenti antisistemici che di lì derivano, anche quando hanno più lontane origini, dipenda dall’enorme dilatazione dello spazio della politica, rispetto alle società tradizionali, che ha reso manifesta una sproporzione prometeica e il rifugio nella privatizzazione se non nella servitù volontaria. La democrazia o diventa ostaggio di forze che governano la paura e l’impotenza o si riduce a vuoti rituali, che non modificano la riproduzione dell’esistente. Al contrario il movimento di contestazione e quelli che ne sono seguiti, minoritari ma non privi di seguito e di influenza, miravano ad una sorta di democrazia assoluta. Le difficoltà di tale meta, utopistica ma tutt’altro che priva di motivazioni e forza, appaiono evidenti se si prendono in considerazione i due movimenti che dopo il Sessantotto si sono diffusi nei più diversi contesti, senza più avere come avveniva in passato un centro principale di irradiamento, superando per la loro stessa natura i confini nazionali e statali, al cui interno ha finito per ridursi il movimento dei lavoratori nonostante le sue origini programmaticamente internazionaliste. Il movimento femminista, centrando l’attenzione sulla dimensione antropologica, di genere, sulla differenza sessuale, la singolarità, i sentimenti, le passioni, il corpo, ha radicalizzato il discorso critico ed analitico, rompendo con le tradizioni emancipazionistiche ed egualitaristiche, ma tutto ciò sembra produrre una neutralizzazione della sua forza politica, se non la scelta esplicita di abbandonare la politica, irrimediabilmente perduta. L’ecologismo, per parte sua, è attraversato da contraddizioni irrisolte che derivano dalla sua collocazione al di là della destra e della sinistra, quindi al di fuori delle coordinate di fondo della politica otto-novecentesca. Ma la sua maggiore difficoltà discende dal rapporto con la modernità e la tecnica. Se da un lato non può aderire alle posizioni tecnofile e scientiste, tuttora egemoni nelle culture politiche di sinistra, dall’altro è lacerato tra opzioni incomponibili. Da un lato, pur in una gamma differenziata, dalla deep ecology al neo-primitivismo a posizioni molto più moderate, ci sono coloro che propugnano un freno immediato e un’inversione di marcia allo sviluppo palesemente insostenibile. Dall’altro, in nome dello sviluppo sostenibile, preso sul serio e reso possibile da un diverso uso della scienza e della tecnica, si schierano coloro che scommettono sulla capacità degli uomini di riportare sotto il loro controllo la tecnica e il capitalismo, facendo leva sulla presa di coscienza indotta dal manifestarsi della crisi ecologica. Un dibattito interessante ma che rischia di arrivare in ritardo rispetto a diverse e più impellenti scadenze sociali e politiche. Con il che abbiamo superato i limiti cronologici e tematici di questo volume, che ci auguriamo possa fornire materiali utili per approfondire le questioni qui appena evocate, riannodando le fila di percorsi che forse più di altri hanno qualcosa da dire al tempo presente e al futuro imprevedibile che ci attende.