Servitù volontaria?
(democraziakmzero.org – 5 maggio 2011)
di Mario Pezzella
Pubblichiamo la prefazione di Mario Pezzella al libro di Miguel Abensour, “Per una filosofia politica critica” (Jaca Book), in libreria in questi giorni.
Il significato della “filosofia politica critica”, che Miguel Abensour ci presenta in questo libro, può riassumersi in una domanda: perché gli uomini preferiscono volontariamente la servitù alla libertà? Per quale motivo, automatismo o perversione del loro sentire hanno sopportato la “morsa” di ferro del totalitarismo e tollerano gli attuali regimi neoautoritari, che si stanno ovunque affermando in Europa? Abensour dà una prima risposta ricorrendo al concetto di desolazione, o derelizione, che Hannah Arendt ha utilizzato per designare la condizione dell’uomo sotto il regime totalitario. Questo concetto ha una certa affinità, secondo Abensour, con quello di “povertà dell’esperienza”, con cui Walter Benjamin aveva descritto la distruzione dell’identità e della soggettività moderna, in seguito al diffondersi della forma di merce, al dominio della tecnica capitalista e ai traumi prodotti dalla prima guerra mondiale: “Secondo le analisi della Arendt, gli uomini nell’epoca totalitaria o pretotalitaria farebbero l’esperienza paradossale di una distruzione dell’esperienza, nella forma della desolazione. La desolazione è uno stato che colpisce l’insieme delle relazioni che costituiscono l’esistenza umana e genera in coloro che ne sono vittime un sentimento disperante di non appartenenza al mondo”. E’ su questa base –un’esperienza già sradicata e frantumata- che può instaurarsi la fascinazione e l’accettazione della distorta logica totalitaria e del suo strumento di dominio: il terrore generalizzato. In effetti, poco importa quali siano le premesse e i contenuti che il totalitarismo pone come assiomi della sua ideologia (la purezza della razza, la cancellazione delle classi): decisiva è la forma consequenziale e l’applicazione illimitata del suo metodo. L’idea che si possa trattare l’uomo come materia di un esperimento senza limiti, aderendo in modo assoluto a una presunta legge della storia, costituisce il terribile pathos idealistico del totalitarismo, che lo distingue da ogni forma semplice e precedente di tirannia. Esso è animato da una pulsione sacrificale e antiutilitaristica, che non si arresta di fronte allo sterminio e alla morte; ma ciò diviene accettabile proprio perché la sua logica è una compensazione della desolazione, un surrogato immaginario della identità perduta: “La desolazione avrebbe per effetto di rendere attraente la logica. A un primo livello, sembrerebbe che in un simile stato di perdita generalizzata –perdita del sé, di altri e del mondo e dunque perdita dell’esperienza, possa sopravvivere solo la facoltà del ragionamento logico, la cui premessa è evidente di per se stessa…la sottomissione alla logica offre una sorta di “resto” indefettibile in un universo desertificato; essa sembra trasformare la non-contraddizione in manifestazione possibile di una identità vuota con se stesso (A=A), fino al punto di feticizzare la prima premessa che permette il dispiegamento della logica…”. L’uomo accetta dunque la logica totalitaria perché essa sembra permettergli di elevarsi al di sopra della propria mancanza di senso e trasfigurare il suo trascorrente ed effimero non essere in manifestazione di un’idea assoluta. Tra la crisi e il tradimento della democrazia e l’affermarsi del totalitarismo c’è perciò un nesso di continuità: il totalitarismo, ben lungi dall’essere una semplice restaurazione di un’autorità del passato, appare sulla scena stessa della modernità, su cui si è affermata la democrazia, e si presenta come il suo compimento e il riscatto del suo fallimento. Per quanto Abensour rifiuti ogni banale identificazione dei due termini (come se la democrazia fosse solo un totalitarismo mascherato), egli però insiste sul fatto che una democrazia disgregata e inautentica è il terreno su cui può trionfare la positività compatta del terrore. D’altra parte non è lecito identificare la democrazia in generale con la sua corruzione spettacolare o solo formale, ed è per questo che Abensour in un altro suo libro importante –La democrazia contro lo Stato- ha cercato, commentando i testi giovanili di Marx, di definire cosa possa intendersi per vera democrazia o democrazia insorgente. Abensour pone in rapporto la fenomenologia della desolazione proposta dalla Arendt, con le considerazioni di Claude Lefort su La Boétie e la servitù volontaria; Lefort riattualizza questo concetto soprattutto grazie a un’analisi magistrale di 1984 di Orwell. A suo parere, l’idea attuale di democrazia nasce dalla disincarnazione dell’immagine tradizionale della sovranità, impersonata dal doppio corpo del Re. Nella sua fisionomia moderna, il potere si distacca da ogni carattere organico-personale, e accetta solo configurazioni provvisorie, sostituibili, fugaci. La democrazia diviene una scena simbolica, aperta alla determinazione della pluralità sociale, con un centro sempre in parte vuoto e infigurabile. Può accadere però che l’uguaglianza degli attori sociali, riconosciuta in linea di principio, sia negata e contraddetta nella realtà, che le rappresentanze democratiche divengano vuote rappresentazioni, che un particolare si arroghi la pretesa di essere l’universale: “Quando l’insicurezza degli individui si accresce, in conseguenza di una crisi economica, o dei disastri di una guerra, quando il conflitto tra le classi e i gruppi si esaspera e non trova più la sua risoluzione simbolica nella sfera politica…allora si sviluppa il fantasma di un popolo-uno, la ricerca di un’identità sostanziale, di un corpo sociale saldato alla sua testa, di un potere incarnatore, di uno Stato liberato dalla divisione”. Questa condizione determina uno stato di disperazione e non riconoscimento, che ha più di un rapporto con ciò che la Arendt definiva desolazione, e per Lefort dispone all’accettazione della servitù volontaria. Sulle rovine della democrazia risorge il fascino e la nostalgia di una grande immagine organica: organico è il corpo sociale stesso, in senso metaforico, organica è l’incarnazione del potere in un Uno, l’Egocrate, che si afferma al suo vertice come personificazione dell’idea totalitaria. Identificandosi psichicamente e politicamente con tale idea, l’individuo atomizzato e frodato dalla crisi democratica, trova un compenso alla sua derelizione e -in un’immaginaria ipostasi di potenza- accetta come un male minore, volontariamente, la servitù: “Il segreto di questo principio identitario sarebbe l’immagine che questa società si dà di se stessa in quanto corpo, nella misura in cui l’imposizione al sociale della rappresentazione corporea avrebbe l’effetto –attivando l’appartenenza a un medesimo corpo- di cancellare la differenza, di “digerirla”, di far prevalere l’identità o la “medesimezza”(mêmeté) su ogni fonte di differenziazione”. Il totalitarismo segna il trionfo di un delirio immaginario, che invade il simbolico e il reale. In fondo, alla base della servitù volontaria c’è sempre la paura e la coscienza della propria derelizione. A questo allude anche Canetti quando scrive: “Sembra che una vera e propria volontà d’essere schiavi spinga, giacché per se stessi non si è nulla, a finire entro un ventre possente”. La democrazia da cui può nascere il totalitarismo è mai stata, o è ancora, una “vera” democrazia? Oppure si celano già in essa i germi radicati di un torto e di una ingiustizia che ne determinano la decadenza? Non si comprende questa tendenza autodistruttiva, se non si discrimina tra la sua figura formale borghese –e la vera democrazia; ed è questa distinzione –secondo Abensour- l’apporto fondamentale delle opere giovanili di Marx. Il luogo “vuoto”, simbolico, del potere, che secondo Lefort caratterizza lo statuto della democrazia moderna, corrisponde davvero alla sua pretesa di pluralità e libertà o la inverte e la rovescia nel suo contrario? Il potere che sembra “vuoto” non è invece divenuto astratto e invisibile? “Senza corpo”, esso è in realtà immateriale, finanziario, schiavo della “teologia” del danaro. Il gioco tra reale e simbolico, di cui parla Lefort, si irrigidisce. La logica astratta del capitale domina la società, più serratamente ancora di quanto non facesse la sovranità regale, nell’ancien régime. La trascendenza del simbolico, che è il proprio della democrazia, si riduce a pura forma rappresentativa. Non può esserci vera democrazia, senza interruzione del potere astratto del capitale e del suo movimento di asservimento; la trascendenza democratica o la democrazia insorgente, come la chiama Abensour, deve porsi in rivolta permanente contro questa forma di dominio, e solo così costituisce l’unica effettiva alternativa alle crisi cicliche, sociali ed economiche, che preparano il totalitarismo. La democrazia si configura (secondo Lefort e Abensour) come “esperienza della trascendenza in seno all’immanenza”. Il fondamento teologico-politico del totalitarismo è la religione immanente dello Stato, dio fattosi idea e fine della storia. Quello della democrazia rinvia invece a un’alterità irriducibile, a un non-ancora-essere o ad un più-che essere. Il totalitarismo è una risposta insieme immediata e primitiva al disagio e alla crisi del governo democratico: “Per questo il totalitarismo minaccia sempre all’orizzonte – nessuna garanzia istituzionale può preservarci da esso. Esso offre infatti il miraggio, non vissuto come tale, di una definizione del sociale e –nel progetto di un’adeguazione a tale definizione- il miraggio di accedere a un sociale pienamente positivo, sostanziale, coincidente infine con se stesso nel superamento della sua lacerazione”. Si capisce come, partendo da questa concezione, Abensour respinga ogni idea di “fine della storia”, ogni utopia di una condizione conciliata e priva di conflitti. La politica si fonda su una “scissione originaria del sociale”, messa in valore da Lefort nella sua grande analisi di Machiavelli. Qual è l’origine dell’essere-insieme degli uomini? La guerra a morte di tutti contro tutti, come indicato da Hobbes, oppure il riconoscimento infinito dell’altro, come propone Levinas, ricordato da Abensour negli ultimi capitoli di questo libro? La risposta non può essere univoca né semplice. Come affermava Machiavelli, ogni società nasce e vive di un conflitto ineliminabile tra i “grandi”, che tendono all’espansione illimitata del proprio potere, e il “popolo”, che difende la sua libertà. Nessuna società può comporre in modo definitivo e universale questo contrasto, e dunque la “pace universale” e la “fine della storia” sono vacue utopie, maschere spesso indossate da un potere esistente, per giustificare la sua permanenza. Il conflitto tra la volontà di potenza e il desiderio di libertà non ha termine, tanto che si potrebbe parlare di una visione tragica della storia, percorsa dal tumulto, scissa nella lotta dei due poli, di cui mai l’uno potrà cancellare l’altro. Tragica non vuol dire catastrofica o pessimista: perché in questo fermento di lotta si afferma e si diversifica la libertà, come nella Repubblica romana di cui scrive Machiavelli. La libertà cresce e si fa spazio all’interno del conflitto, impedendo che un particolare si arroghi un potere universale, che lo Stato spenga la democrazia, che la pluralità irriducibile del sociale venga ricondotta all’Uno. La filosofia politica critica è una teoria del conflitto ed è sempre e comunque attivazione di un dissenso, di una opposizione, di una diversità. La libertà si afferma come un frutto maturo della lotta, come imposizione di un limite alla brama illimitata della potenza, come arresto e trascendimento dell’istinto primordiale alla dominazione. Siamo qui vicini ad Hobbes, per cui il sociale nasce dal conflitto e non dal riconoscimento dell’altro; ma –diversamente che in Hobbes- tale conflitto non si riferisce a uno stato di natura, ma è il sociale stesso nella sua dinamica costituente. Soprattutto, non si esce dal conflitto e dalla minaccia della morte grazie all’istituzione dello Stato e alla sua affermazione dell’Uno, ma grazie al tumulto della libertà e alla liberazione dei molti. L’istituzione hobbesiana affina la volontà di potenza in sovranità monarchica; l’istituzione machiavelliana la trascende nella costituzione repubblicana. In Machiavelli il conflitto porta all’insorgenza democratica contro l’unità del potere sovrano, mentre in Hobbes si conclude nella formazione di questo stesso potere. In questo senso, Abensour può rivalutare in modo non contraddittorio l’etica di Levinas e la sua idea di riconoscimento dell’altro, che è in effetti il fine ultimo della filosofia politica critica, la sua utopia concreta. Se l’utopia astratta suppone una società fusionale e una fine della storia e del conflitto, l’utopia concreta è l’apertura continua del riconoscimento del volto dell’altro, contro ogni volontà di ridurlo a oggetto di asservimento. E’ dunque comprensibile che Abensour apprezzi le analisi del dominio condotte dalla Scuola di Francoforte, pur accusandola di aver trascurato il senso positivo della politica e del conflitto che la anima. La teoria critica ha insistito senza remore sulle relazioni di servitù e padronanza, che caratterizzano la storia dell’Occidente e restano occulte nella tradizione apologetica delle classi dominanti. Adorno-Horkheimer, afferma Abensour, rileggono tragicamente, alla luce della vittoria dei totalitarismi, le pagine che Hegel –nella Fenomenologia dello Spirito- ha dedicato al rapporto di padronanza. Nell’episodio omerico di Ulisse e delle Sirene, commentato nella Dialettica dell’Illuminismo, “il Servo non conoscerebbe trasformazione alcuna e il Signore subirebbe solo una regressione”, come pare accadere all’interno dei regimi totalitari. Certo, la teoria critica sembra considerare onnipotente questa relazione e non si pone il problema di come si possa concretamente passare dal rapporto di padronanza a quello di reciprocità con l’altro. E’ questo secondo polo della politica, oltre la critica pur necessaria del dominio, che Abensour ritrova in Levinas: il riconoscimento del volto dell’altro è il fattore etico alternativo alla volontà di dominio, come il desiderio di libertà è sul piano politico l’antitesi dello Stato dispotico. Alla tradizione dei vincitori, si oppone quella –ricordata da H. Arendt- delle brecce e delle cesure che –come un rovescio scarlatto- si oppone al nero tessuto del dominio ed emerge in epoca moderna nelle grandi rivoluzioni o almeno nella loro ispirazione iniziale. La storia della libertà insorgente è una storia a contrappelo e restituisce al termine democrazia il suo significato rivoluzionario.