La democrazia dei senza parte

La democrazia dei senza parte

23 Maggio 2019 Off di Francesco Biagi

di Mario Pezzella

(14 novembre 2011, www.democraziakmzero.org)

 

Pochi concetti sono stati banalizzati come quello di “democrazia”. Rancière cerca di restituire al termine tutto il suo significato originariamente radicale e di verificarne il significato attuale. Secondo la critica marxista più ortodossa, la democrazia – come ogni credenza in un diritto uguale per tutti – non è che “ideologia”: essa è una maschera illusoria, oppio dei popoli, che occulta la vera questione dell’emancipazione sociale. Non varrebbe dunque la pena di preoccuparsene: rovesciati i rapporti di produzione capitalistici, una nuova formazione sociale avrebbe gradualmente realizzato l’eguaglianza concreta tra gli uomini, e superato quella puramente formale e giuridica del capitalismo.

Rancière accetta in parte i fondamenti di questa critica, ma prova a rovesciarne i termini negativi in una contraddizione positiva. E’ vero, quando la democrazia si autopresenta come uguaglianza realizzata, questa è menzogna ed illusione; perché alla sua base sussiste un torto e una disuguaglianza sostanziale, tra coloro che detengono il potere e la grande schiera dei sottomessi, che Rancière chiama i senza parte: essi non sono riconosciuti parte dello Stato a pieno titolo, come i membri della classe dominante. Tuttavia, l’esistenza di questo torto non rende inutile il parlare di democrazia, ma ne costituisce l’essenza politica profonda: la democrazia non è uno Stato realizzato, ma il processo grazie al quale i senza parte acquistano consapevolezza di sé e pretendono di rovesciare il rapporto di servitù in cui si trovano: “Il torto è semplicemente il modo di soggettivazione entro cui prende forma politica la verifica dell’uguaglianza…Il torto istituisce un universale singolare, un universale polemico, associando al conflitto delle parti sociali la manifestazione dell’uguaglianza, come parte dei senza parte”(57)[1].

Se l’uguaglianza è riconosciuta come principio, ma in effetti lo Stato esclude una parte dei senza parte dalla cittadinanza, allora chiederne un’applicazione più completa ed estesa significa riattivare il conflitto tra chi è privo di diritti e chi li possiede.

La dialettica del diritto presenta dunque due poli: la mistificazione di un’uguaglianza reale, che occulta la disuguaglianza economica e sociale – ma anche l’iscrizione di un’esigenza di eguaglianza, che i senza parte possono far propria e rilanciare in forma conflittuale, per farsi riconoscere come soggetto a titolo pieno. La democrazia è per sua essenza la rivendicazione di un torto e l’attivazione di un conflitto: “Il popolo si identifica con il tutto della comunità in nome del torto arrecatogli dagli altri elementi della comunità. I senza parte –i poveri dell’antichità, il terzo Stato o il proletariato moderno- non possono in effetti ottenere altro se non il niente o il tutto. Eppure è grazie all’esistenza di questa frazione dei senza parte, di questo niente che è tutto, che la comunità esiste come comunità politica, ovvero come comunità divisa sulla base di un litigio fondamentale…”(31). La democrazia iscrive nel centro stesso dell’azione politica il disaccordo, il riconoscimento e il rifiuto del torto, la negazione della dissimmetria servo-padrone.

Nell’insorgenza democratica –che non può essere ridotta alla sola emancipazione economica- il popolo diviene ciò che prima non era, grazie all’articolazione linguistica e politica del suo diritto all’eguaglianza: soggetto riconosciuto come tale, uscito dalla sua condizione di minorità. Iscrivendo nel diritto scritto la rivendicazione di eguaglianza, i senza-parte escono dal loro mutismo dominato, divenendo consapevoli della propria potenza costituente. Il popolo, il demos, tende a essere sempre o più di se stesso –senza parte che divengono soggetto politico-, o meno di se stesso –plebe e massa amorfa, passiva materia di dominio.§ Il rapporto tra potere e linguaggio non è secondario in tale contesto. Rancière ricorda il celebre apologo di Menenio Agrippa, raccontato a modo suo da Pier-Simon Ballanche nel 1829. All’inizio i plebei non sono uomini e tanto meno cittadini allo stesso titolo dei patrizi. Parte dei senza parte, essi subiscono l’esclusione di una disuguaglianza, che li pone al di fuori dello spazio pubblico. La cosa inaudita –per i patrizi- è che ora essi pretendano di parlare e trattare la loro condizione, come se invece possedessero il Logos quanto i loro padroni: “La posizione dei patrizi intransigenti è semplice: non vi è modo di discutere con i plebei, per la semplice ragione che costoro non parlano. E non parlano perché sono esseri senza nome, privi di logos, ovvero di iscrizione simbolica nella città. Vivono una vita puramente individuale e incapace di trasmettere alcunché, se non la vita medesima, ridotta alla sua facoltà riproduttiva. Chi è senza  nome non può parlare”(43).

D’altra parte, la rivolta era da tempo latente nella loro stessa condizione di servi: anche solo per eseguire un ordine, occorre intendere la lingua in cui è pronunciato e iniziare un processo riflessivo e autoriflessivo, che infine comprende la posizione rispettiva di sé e del padrone. Come pensava Hegel, mentre il padrone si irrigidisce in difesa della sua posizione iniziale –Io solo posseggo il Logos, il mio servo non ha parola-, il servo deve includere nella sua riflessione se stesso e l’altro, approdare a un Logos più ampio di quello del suo nemico e rappresentare ormai un tutto sociale, che si oppone alla parzialità del Signore. I senza parte, oltre che divenire parte essi stessi, incarnano in tal senso una ragione sociale più universale di quella dei dominatori. La democrazia è l’insorgenza in cui essi pretendono che la loro uguaglianza e la loro soggettività ricevano iscrizione simbolica nella città.

Nello stesso senso, Rancière ricorda il processo ad Auguste Blanqui nel 1832, quando –richiesto della sua professione- l’imputato rese la risposta simbolica: “proletario” e costrinse la corte a riconoscere l’esistenza di un soggetto, che –in quanto tale- non ne possedeva alcuna. Proletario significava infatti semplicemente colui che non ha nulla e non significa nulla; nella risposta di Blanqui, diventa un soggetto di diritti, che richiede il riconoscimento della propria eguaglianza: “Ciò che viene reso soggettivo non è né il lavoro né la miseria, ma il puro conto dei non contati, la differenza tra la distribuzione disegualitaria dei corpi sociali e l’uguaglianza degli esseri parlanti”(56). In una insorgenza rivoluzionaria, affermarsi come soggetto di diritti e detentore del logos è altrettanto importante che impadronirsi dei mezzi di produzione. Aver trascurato questa verità, affidandosi all’automatico intensificarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, costituisce una delle debolezze maggiori del marxismo; mentre Marx stesso nei suoi scritti sulla Comune poneva la questione dei diritti politici e dell’uguaglianza al centro della sua riflessione. Quella fiducia cieca nel progresso tecnico e nel suo sbocco rivoluzionario costituisce la parte caduca del marxismo; mentre invece la lotta di classe conserva la sua bruciante attualità come nucleo profondo dell’azione politica. Già riconosciuta da Machiavelli come fatto primordiale della vita della città: “Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano…”- la lotta di classe è il nome più comprensivo del conflitto, che costituisce il cuore dell’insorgenza democratica, della richiesta di eguaglianza e diritti: “L’istituzione della politica coincide con l’istituzione della lotta di classe. La lotta di classe non è il motore segreto della politica, o la verità nascosta dietro le sue apparenze. E’ la politica stessa…”(38).

Da questo punto di vista, conviene distinguere rigorosamente la politica in senso stretto e il potere costituito, che si solidifica nello Stato. A quest’ultimo Rancière dà il nome, da intendere nel suo senso più generale, di polizia: essa coincide per più versi col disciplinamento dei corpi e con l’ordine del discorso, che secondo Foucault costituivano l’essenza stessa del potere: “…E’ un ordine del visibile e dell’invisibile, che fa sì che un’attività sia visibile e un’altra non lo sia, che una   certa parola venga intesa come discorso e un’altra come rumore”(48). Rispetto alla fissità di questa delimitazione, la politica costituisce in verità un’eccezione, un eccesso, una rottura, perché costituisce un’irruzione nell’ordine del visibile di chi non vi aveva parte, e rompe così l’intera configurazione poliziesca, che si era coagulata come una seconda natura immutabile.

La democrazia ha oggi due nemici, apparentemente opposti e in realtà complementari: da un lato lo Stato “consensuale”, ridotto a un complesso di funzioni, ordinate in funzione del mercato e ad esso del tutto subordinate. A differenza di quello classico, criticato dal marxismo per il suo carattere ideologico, qui lo Stato si pone esplicitamente al servizio del mercato e trova anzi la sua gloria e la sua residua legittimazione nello svolgere questa funzione nel modo più efficiente possibile. D’altro lato, si diffonde invece una ideologia “umanitaria”, con cui si pretende di giustificare l’intervento violento in altre aree del mondo, in nome di una presunta difesa dei diritti umani delle vittime (come si è affermato qualche anno fa per il Kosovo); ma questo democraticismo umanitario, in compenso, non riconosce alcun conflitto reale, alcuna parte dei senza parte all’interno della propria identità statuale, coesa e consensuale. Esso convive con la “permanente destituzione del diritto e della realtà, che ha come termine ultimo la pura e semplice identificazione tra la “forma” democratica e la pratica gestionale di sottomissione alle necessità del mercato”(125).

Il conflitto è rigettato interamente all’esterno e sull’altro, ed è negata qualsiasi affinità delle presunte vittime col disaccordo dei senza parte, che vivono all’interno dell’Occidente. Questo universalismo umanitario è astratto, mentre quello concreto dovrebbe riconoscere il legame tra la disuguaglianza nelle metropoli occidentali e quella che domina in altri luoghi del mondo. Al contrario, si accredita l’idea di un’identità occidentale tutta coesa intorno al suo roccioso nucleo identitario e alle sue funzioni di governance del mercato: mentre al di fuori si estende il mondo feroce ed estraneo, che si tratterebbe di ricondurre sotto l’ordine della nostra polizia.

Questo ibrido di consensualismo e di universalismo astratto culmina in una società gerarchica e razzista, entro cui riaffiorano tratti tipici dei governi totalitari del 900 (e qui l’analisi di Rancière andrebbe integrata da quella che Debord ha dedicato allo spettacolare integrato e al mutamento sostanziale del regime democratico rappresentativo). Rifiutando la nozione stessa di un conflitto reale, di una parte dei senza parte entro la nostra realtà sociale, cancellando la sua visibilità, il peso del negativo (peraltro sempre più difficilmente contestabile) ricade per intero sulle spalle dell’altro e dell’estraneo; è il nemico, il criminale, che introduce un alieno disordine in ciò che di per sé funzionerebbe come il migliore dei mondi possibili. Uno stupido buonismo ottimista si salda così a misure ferocemente gerarchiche, neanche esprimibili come tali: “L’annullamento di quei modi politici di apparenza e di soggettivazione del conflitto ha come conseguenza la ricomparsa brutale, nella realtà, di un’alterità che non trova più il suo luogo simbolico…La divisione, esclusa dallo spazio di visibilità in quanto arcaica, ricompare sotto la forma più arcaica ancora, della nuda alterità”(130). Un conflitto non più dicibile e simbolizzabile si riversa come nuda violenza tra chi ha parte e chi non ne ha, più simile a una rivolta di schiavi che a un’insurrezione di cittadini.

Le considerazioni di Rancière trovano evidentemente il loro referente storico nelle mutazioni che il regime di Berlusconi in Italia e quello di Sarkozy in Francia stanno compiendo a ritmo accelerato, nell’antropologia prima ancora che nella forma politica delle società in cui viviamo. A queste politiche –realizzate da feroci politici clown- occorre rispondere con una ripresa espansiva del diritto di cittadinanza. Il lavoro politico democratico dovrebbe costruire l’identità di una parte dei senza parte e includere in essa sia gli immigrati privi di diritti, che gli Italiani colpiti e immiseriti dalla nuova struttura gerarchica del potere. La loro divisione è mantenuta e coltivata con tutti i mezzi della società spettacolare, oltre che con l’uso sempre più frequente dello stato d’emergenza e di “insicurezza”; al contrario, “c’è democrazia se vi sono attori specifici della politica, che non sono né agenti del dispositivo statale, né parti della società, se vi sono collettivi che alterano le identificazioni in termini di parti dello Stato o della società. Da ultimo, c’è democrazia in presenza di un conflitto, guidato da un soggetto non identitario, nello spazio di visibilità del popolo”(114).

Dentro o fuori le istituzioni esistenti, l’importante è che l’azione politica produca “inclusioni d’eguaglianza”. Da questo punto di vista i diritti dell’uomo e del cittadino non possono certo divenire un feticcio, buono a nascondere la disuguaglianza economica; ma possono essere uno strumento di riconoscimento identitario e di soggettivazione egualitaria dei senza parte: “Ogni politica è democratica in questo preciso senso: non nel senso di un insieme istituzionale, ma in quello di forme di manifestazione che pongono la logica dell’uguaglianza a confronto con quella dell’ordine poliziesco”(115). L’emancipazione sociale non può essere disgiunta dall’emancipazione politica, e d’altra parte questa convinzione ci fornisce un’arma indispensabile per combattere il nuovo fascismo e configurare un vasto universo simbolico ad esso alternativo.

[1] J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi 2007. Numeri di pagina nel testo.