Insospettate insorgenze

Insospettate insorgenze

23 Maggio 2019 Off di Francesco Biagi

di GIANFRANCO FERRARO

(17 dicembre 2012, www.democraziakmzero.org)

 

“…Il citoyen ha continuato ad agire e ad ossequiare i rituali magici di delega del potere, pur senza più credere ad essi, ma solo perché ‘bisognava’ o perché ‘era difficile fare altrimenti’”.

Un saggio di Gianfranco Ferraro: “Dalla comunità politica alla condotta in comune”.

 

“Se la politica è produzione di futuro” scriveva Mario Tronti nel 1998 “profezia e utopia sono due modi, diversi e opposti, di vedere il futuro”. “Vedere, è la parola giusta. In politica, oggi, non si vede più: si guarda, si osserva, si analizza, poi si agisce, si compete, si combatte, sempre e solo subalterni a ciò che è, si accetta ciò che fin qui è stato, si rinuncia a pensare ciò che può essere; sia l’al di qua che l’al di là del presente risulta cancellato, se mai c’è stata storia, adesso non c’è più” (La politica al tramonto, p. 166). Contropelo, la storia dei nostri giorni può essere letta alla luce di queste parole di Tronti: se è vero che la politica è produzione di futuro, essa sembra oggi cancellata. Nessuna parola pubblica è stata in grado di additare un futuro, a meno che per futuro non si sia inteso quel flebile calcolo di costi e benefici che il ragioniere di turno ha preso in esame al solo scopo di farlo quadrare. Né in politica è andato molto di moda, in venti anni, il “vedere”: che cosa “vedono”, cosa hanno visto le molte figure che, rivendicando proprio la tradizione del “vedere” in politica, hanno, dal 1998 fino ad ora, calcato la sua scena? Che cosa abbiamo visto “noi”? Ma cosa vede oggi chi guarda la politica senza essere cresciuto in alcuna “comunità”? Che cosa si ricorderà della sinistra storia, dolente senza dolore, di questi anni?

Forse il tramonto della politica, di cui Tronti parlava, è davvero finito. È notte, e quel tramontare lungo una generazione e mezza può essere visto come il tramonto epocale di una certa modalità di produzione del futuro: quella per secoli affidata alle comunità.

Ma ciò che viene più difficile da “vedere”, per chi ha vissuto all’ombra di una storia e dunque del suo tramonto, è proprio questo: la nascita convulsa di modi di “produzione di futuro” che non riconoscono più alcuna legittimità ai linguaggi e ai segni profetici del mondo di ieri, ma che riconoscono invece legittimità a delle pratiche.

Può esistere una storia politica senza che essa sia necessariamente una storia delle comunità: ma perché si possa riconoscere nel suo sorgere, occorre vedere come essa costruisce il proprio abbecedario. Superficialmente, distinguendo pratica da pratica, condotta da condotta, storcendo il naso di fronte ai legami politici costruiti sugli esempi delle tribù, delle famiglie, delle gerarchie preesistenti. Sono le forme comunitarie dell’esistenza politica, per come esse ci sono state consegnate dal XX secolo, ad apparire in questo senso oggi con un destino segnato, e come tale senza alcuna speranza. Ma questo non significa che non si possa cominciare a “vedere”, oggi, oltre questo destino.

 

1. Oltre le comunità del lutto. Le ultime forme della lunga storia delle politiche “di comunità” attengono sostanzialmente, nelle loro diverse declinazioni, a quelle che l’antropologo Ernesto De Martino non avrebbe avuto difficoltà ad inserire, nella sua ricerca sulle apocalissi culturali, tra le “comunità del lutto”: quelle comunità di persone riunite cioè intorno al corpo di un morente, o di una persona scomparsa. Comunità che stemperano la crisi, e dunque la difficoltà che un intero mondo ha di riscriversi, attraverso la riproposizione di simboli e di linguaggi che la comunità stessa vede come immortali. Comprendere in modo adeguato l’eredità di tale “agire in comunità”, secondo l’espressione di Max Weber, implica però la genealogia della stessa forma comunitaria dell’esistenza politica: in questo senso, possiamo dire che che la “modernità”, o quantomeno quella modernità politica che attraversa le esplosioni rivoluzionarie dell’800 e del ’900, si caratterizza per l’esistenza di certeforme di comunità politica.

Ciò che è moderno può allora essere distinto da ciò che moderno non è anche in base alle diverse “scene” delle politica, così come dalla postura con cui il politico si rende riconoscibile: ovvero attraverso certe forme specifiche di “agire in comunità”. Diversamente detto: se è possibile riconoscere la “modernità”, come Foucault ha intuito nei suoi ultimi anni di lavoro, per l’esistenza di alcune e non di altre forme di “condotte”, ovvero di “stili di vita”, occorre anche intravedere in che termini queste condotte abbiano prodotto valori e spazi simbolici per la scena propria della politica.

Rancière ha chiarito a proposito del “disaccordo” intrinseco al politico, di cui Machiavelli parlava citando la diatriba tra patrizi e plebei nell’antica Roma e l’indisponibilità dei nobili a comprendere nel campo politico chi “non poteva” avere voce politica, che il problema cruciale della fondazione politica è, per la modernità, quella dello “spazio scenico” e conseguentemente della possibilità di una distinzione tra un “noi” e un “loro”. Proprio questa divisione del sociale verrebbe però neutralizzata nelle mitologie, e nelle pratiche, dell’agire in comunità. La politica è nel moderno lì dov’è la comunità: oltre è terra di nessuno. Una vera decostruzione di questa terminologia della “comunità politica” sembra allora possibile solo nei termini di una decostruzione delle pratiche su cui essa si è fondata e che l’hanno a loro volta perpetuata. In questo senso, occorre tornare a pensare le comunità politiche che hanno storicamente costituito la modernità occidentale, e che hanno configurato la scena pubblica della sua “politica”, innanzitutto come orizzonti simbolici in cui determinate forme di agire individuale – pensiamo alle forme cooperative di metà Ottocento o ai club giacobini – si sono riconosciute e, nel riconoscersi, hanno dato vita e senso ai destini biografici di milioni di individui.

 

2. Nascita della comunità e spirito dell’agire in comune. La storia del “partito” politico può essere dunque ripensata, in termini non esclusivamente antropologici, ma etico-politici, nei termini di questo “agire in comunità”, come prodotto e matrice, insieme, di sfere simboliche in grado di orientare condotte di vita.

Una genealogia della forma-partito, che è cosa diversa da una genealogia delle forme di produzione delle élitespolitiche, implica allora innanzitutto l’onere di rintracciare ed elaborare le diverse configurazioni originarie, i diversi modi attraverso cui il senso e i paradigmi di valore di un particolare orizzonte simbolico si sono costituiti. Se ad ogni forma comunitaria della politica, e dunque anche alla stessa forma-partito, è implicito un particolare universo mitologico, un “fondamento” trascendente che, per quanto secolarizzato, la legittima neutralizzando la pluralità di origini e di linguaggi, occorre comprendere come tale universo sia stato elaborato: ci tocca cioè, nel momento in cui vediamo sorgere nuovi modi di produzione delle condotte politiche (Publitalia nel ’94 e oggi la Casaleggio & e associati) fare una storia dei simboli e dei valori che hanno determinato condotte, e allo stesso tempo fare una genealogia delle modalità di produzione di simboli e valori.

In particolare, per capire il piano di lavoro che ci sta davanti nel momento in cui è l’intero paradigma del moderno come orizzonte politico dell’agire in comunità a subire, da più di venti anni, ora più ora meno velocemente, una inarrestabile implosione, occorre ripensare a come l’agire politico di comunità abbia trascinato con sé, fin nel cuore della presupposta modernità laica, i presupposti di fede delle pratiche religiose, e come siano proprio questi presupposti di fede ad aver offerto delle coordinate di legittimità alle costruzioni ideologiche del ’900.

Non possiamo quindi meravigliarci se le comunità politiche del lutto costituitesi dopo la deflagrazione dei grandi orizzonti simbolico-ideologici del’900 abbiano tentato a lungo di farsi testimoni di una parola sacra nuovamente in procinto di ritirarsi, forse per sempre, nel suo Cielo: in questi termini è stata giocata, e forse non poteva esserlo diversamente, la presunta “eredità comunista” dopo le colonne d’Ercole del 1991.

Così, una critica della “teologia politica” non può che avvenire oggi nei termini di una critica dei paradigmi con cui le condotte di vita sono state governate. Non è d’altra parte strano che, nella debolezza che ha preceduto la loro agonia, le ultime comunità politiche siano state di fondo disarmate da un lato verso la comparsa di nuove inusitate forme di fede politica e dall’altro nei confronti dell’abisso in cui sprofondavano, in modo apparentemente incomprensibile, gli orizzonti simbolici e le condotte di esistenza che esse avevano fino a quel momento preteso di “rappresentare”.

 

3. Dio ci salvi dall’essere rappresentati. In quanto forme di liturgia secolarizzata, le logiche con cui la “rappresentanza” si è manifestata nel corso degli ultimi secoli possono essere osservate secondo quella storia di lungo periodo che ci permette di individuare in esse talune persistenze degli stessi presupposti rituali su cui hanno vissuto e vivono i culti religiosi.

La “rappresentazione” e la “rappresentanza” costituiscono i due assi attraverso cui si è declinata la secolarizzazione delle forme di potere occidentale. Se la prima attiene a quello che Agamben chiamerebbe l’asse della “Gloria” (Il Regno e la Gloria, 2007) – le assemblee parlamentari, così come i “vertici” del G8, eredi delle rappresentazioni spettacolari del ’900 studiate da Debord –, quello cioè che dà vita ad una immagine unitaria delle res politicae, la seconda è la logica che ha consentito alle forme statuali del potere di legittimarsi attraverso procedure burocratiche, al di là delle garanzie offerte dall’unità della societas christiana: il voto, gli scrutini, le grandi macchine elettorali.

La rappresentanza ha in questo senso integrato e supportato una logica secolarizzata della salvezza: si è, si può essere, “salvi” solo in quanto cittadini, si è e si può essere “salvi”, riconoscibili come “fedeli”, solo in quanto “iscritti” alla comunità, partecipi dei suoi rituali magici. Dei suoi “congressi”, delle sue “assemblee”, delle sue “adunate”, dei suoi “circoli” così come, ora, delle sue “primarie” e delle sue “parlamentarie”.

In ogni sua manifestazione, la forma democratica della sovranità, quel sottile paradosso cioè che ha consentito allo Stato di mediare la propria legittimità attraverso la burocratizzazione della democrazia,  ovvero secondo Pierre Clastres quella forma di autogoverno più antitetica ad esso, rivela questa origine metafisica, non politica: “teologica” in termini di diritto, “magica” laddove, come ad esempio nella delega liberale, essa ha preteso che il “potere” costituisse una entità addirittura trasferibile. È quest’altra verità della democrazia che si è rivelata nelle rivoluzioni moderne, dove cioè è emerso un “agire in comune” antitetico alla sovranità statuale e alla riproduzione delle forme comunitarie di legittimazione. Ed è proprio questa verità della democrazia, antitetica alla sua forma statale, che si manifesta nella crisi della democrazia contemporanea: che è crisi dunque di un rapporto tra governamentalità e politica, “economia” e politica, “teologia economica” e statuto democratico.

Ricondurre l’agire in comune, di per sé instabile e infondato, ad una forma comunitaria e dunque unitaria della politica, è stata la vera scommessa del Principe moderno. Altro egli non ha dovuto fare, in fondo, che espellere qualunque frattura propria della “politica”, in nome di una cesura ancora più pervasiva: quella che garantisce una salvezza del senso dell’esistenza solo a partire dall’amministrazione di un diritto comunitario all’agire politico.

Ma proprio la configurazione di tale amministrazione “economico-burocratica” del diritto d’agire politicamente costituisce il portato decisivo della “decisione” estrema sullo stato di eccezione, ovvero, come ha detto Schmitt, del momento iniziale di ogni sovranità moderna: sovrano, potremmo dire, è chi può decidere di una economia politica della salvezza. Possiamo in questo senso intendere la storia stessa della sovranità moderna, di cui ogni “comunità politica” ha fatto parte, come la storia delle configurazioni di senso dell’“agire in comunità”. La storia della rappresentanza, di cui i nostri giorni non sono che l’estrema propaggine, altro significato non possiede che quello di una continua rilegittimazione simbolica dello Stato. Le diverse liturgie della rappresentanza democratica rivelano oggi ai nostri occhi il loro “totalitarismo” proprio nella loro pretesa di “correggere” e “definire” le forme di libertà implicite nell’agire dei singoli: “rappresentare anche l’irrappresentabile” è stato per così dire il sogno più peccaminoso della storia della democrazia occidentale, ma proprio in questo desiderio continuamente espresso di “tout répresenter” essa ha manifestato la sua complicità inesausta con il governo disciplinare delle condotte.

Nelle grandi liturgie del voto, massima espressione del potere del citoyen, occorre allora sempre vedere, in controluce, lo spettro del diacono che incensa le immagini dei Santi al cospetto del Santissimo. In questa incensazione, ora tutta mediatica, delle immagini, noi stessi siamo stati formati ed educati ad una forma di estrema complicità con il potere: di volontario asservimento. Ma a differenza di altre generazioni, che hanno potuto combattere pubblicamente, all’interno di quelle comunità dell’agire politico votate alla contestazione dello Stato presente, a noi è stato dato in sorte, nello svuotamento di senso di quella stessa forma di contestazione, di combattere “nascostamente”, innanzitutto dentro di noi, le forme di liturgia in cui è stata educata la nostra libertà: ci si è scoperti a inventare le nostre condotte.

 

4. I pessimi gusti del buon cittadino. Se in ogni liturgia è pertanto implicita una logica della salvezza, quella  forma di agire in cui abbiamo continuato a vedere la nostra deve continuare ad essere per noi l’unica possibile. Quando accade che le liturgie cui la nostra anima si piega non abbiano più altro senso che di testimoniare anche ciò che è difficile testimoniare, ciò che ci rimane da fare è di inventare una nuova forma di salvezza e “far finta” di credere almeno ad essa. La società dello spettacolo “integrato”, secondo la definizione di Debord, ha precisamente avuto questo immane compito: quello di perpetuare delle forme di liturgia democratica nella consapevolezza di ciascuno che l’effettualità del potere si fosse da tempo posizionata altrove. Si è continuato a credere anche quando, per continuare nella nostra analogia, le statue degli dei erano state abbattute o erano già state traslocate altrove.

La potenza disciplinare cui la società spettacolare ha dato luogo, in termini di conformazione ad una condotta, si è manifestata persino in questo scarto “interno” del citoyen, lì dove il citoyen ha continuato ad agire e ad ossequiare i rituali magici della delega, pur considerandoli ormai assurdi: fino a quando – ed è la storia dei nostri giorni – la forma di legittimazione del governo non ha avuto più alcun bisogno di manifestarsi per quello che quello che non era, di mostrare cioè anche solo formalmente un qualche proprio volto democratico. Volto onirico, al pari delle luci dei supermarket che, quando camminiamo tra i banchi, ci costringono a non alzare mai gli occhi dai prodotti.

La morale del citoyen moderno coincide del resto con quella della sua visibilità: se tale figura di potere ha avuto la sua ultima forma di legittimazione in quanto “cliente”, ovvero in quanto figura conforme all’ultima simbolica dell’agire in comunità, è pur sempre lo scarto o la totale adesione rispetto alla propria fede che la caratterizza. Gli ultimi venti anni di storia politica non costituiscono altro, dunque, che un implacabile dispiegamento del nichilismo come tecnica di orientamento delle condotte verso il feticcio ormai inconsistente, interamente “clientelare”, delle salvezze individuali.

Tutte le liturgie della rappresentanza, come un motore a vuoto, si sono rideclinate nei termini di una pubblica incensazione di immagini senza verità. È stato infine chiesto ad ogni singolo il sacrificio del bene supremo della propria libertà politica: il diritto alla testimonianza, e alla testimoniabilità della pubblica verità che, in quanto tale, è appunto fonte di conflitto poiché dà voce a ciò che voce, di per sé, non possiede. Non è un caso che il richiamo ad una tradizione di “ontologia del presente” o “dell’attualità”, come quello foucaultiano, risuoni proprio quando, negli anni ’80, l’interrogazione di tale ontologia  configura una comprensione dei modi di produzione delle condotte e delle forme di vita e, in questo senso, una ontologia della verità “post-moderna” del nichilismo europeo. Un’interrogazione a maggior ragione valida ora, nel tempo in cui come tanti Amleti con in mano il teschio di chi ci ha preceduto sulla scena della rappresentazione politica, continuiamo ancora a chiederci se il senso del nostro agire sia o possa in qualche modo essere reale.

 

5. Una politica di scribi. Come aveva intuito Benjamin rileggendo il primo libro del Capitale di Marx, quella che è la “potenza più fatale” (Weber) dei nostri giorni, il governo del capitalismo, ha rivelato infine la propria logica nel suo dispiegamento di una potenza “pubblicitaria”.

Se Debord ha opportunamente rovesciato la famosa affermazione con cui Hegel legittimava l’autorità del suo Stato dicendo che il falso è un momento del vero, anche noi dobbiamo assumere che la manifestazione più potente del capitalismo è stata resa possibile in fondo da quel patto diabolico che esso condivide con qualunque sovranità: dove si manifesta la potenza suprema del capitalismo, dove cioè esso si manifesta come l’ultima forma economica della sovranità moderna, è nella sua capacità di sovvertire i regimi di verità del discorso. Esso ha “veramente” reso possibile, non solo “davanti” ai nostri occhi, ma fin dentro gli angoli più riposti delle nostre condotte di vita che “il vero” divenisse un momento del “falso”: ogni angolo più apparentemente innocuo così come quello più apparentemente sovversivo della nostra vita è stato piegato, compreso ecumenicamente nell’abbraccio mortale delle grandi liturgie capitalistiche, tra cui quella della rappresentanza statuale.

Piegate sono state le nostre parole e quindi le nostre stesse azioni: la potenza tecnica del capitalismo si è infine manifestata come un’immane accozzaglia di merci e di regulae di addestramento. L’ultima di tali regulae ci ha infine formato a identificare la libertà delle nostre relazioni con la possibilità di entrare in contatto con l’immagine in perenne mutamento della nostra condotta di vita, così come di quella di chi ci è amico: l’ultimo regime che il capitalismo ha preteso di imporre alle nostre condotte ha riguardato, come testimonia la diffusione della logica relazionale delle “reti” e dei network, quello per esso più pericoloso ed incontrollabile, quello delle nostre amicizie.

In quanto potenza pubblicitaria, il capitalismo sembra cioè aver superato la sua era “spettacolare” separando definitivamente la gestione “tecnica” del potere da quella delle “relazioni”. In realtà nuove liturgie sono state prodotte: in esse il margine di libertà dell’individuo sembra dover sottostare ad un’unica condizione, quello della produzione continua di immagini di sé. Ed è proprio l’impegno profuso dai singoli nella produzione di questa immagine di sé a garantire le nuove logiche della legittimazione. Non importa in questo senso “quale” immagine diamo di noi: è solo la produzione di tale immagine ciò che ci viene richiesto dalle nuove liturgie.

Esse si caratterizzano come associazione di “nomi” ad immagini, come un grande gioco apparentemente innocuo e gratuito nel quale l’equivalenza di ogni immagine di vita sembra poter implicare l’equivalenza di ogni condotta. E così avviene: il mondo non è meno reale di quanto non sia irreale, la distinzione di vero e falso diventa una questione puramente tecnico-economica, e solo i grandi sacerdoti di questo culto possono adire alla sua interpretazione. La professione intellettuale, così come quella politica, si tecnicizza, diventa adesione ad una conformità di senso e di condotte: la sobrietà professorale del tecnico economico – in questo senso Mario Monti è davvero simbolo della forma di potere che stiamo imparando a conoscere – diviene l’unica legge. Ma come ogni legge, essa impone un conformismo: e dove più la produzione di immagini conformi pretende di divenire strumento di disciplinamento “liberale” delle condotte di vita, nel senso con cui le antiche monarchie intendevano questo aggettivo, il governo del mondo si ritira nell’inaccessibilità “tecnica” di una segreta scrittura, in possesso di anonimi circoli di scribi.

 

6. Brute verità. Ma se ogni immagine diviene equivalente ad ogni altra, anche ogni rappresentazione di sé diviene equivalente: la liturgia della rappresentanza finisce col rivelare così il suo trucco senza scampo e le sue leggi finiscono col manifestare la loro estraneità alla giustizia.

Ogni parola è stata travisata e stravolta nel suo senso: l’amicizia è divenuta un puro contatto informatico e l’esercizio democratico della cittadinanza un impegno non più decisivo, per le sorti dei singoli, di una partita a bocce per pensionati. Se proprio in questa capacità di rendere equivalenti le forme dell’agire il capitalismo ha manifestato la sua potenza, esso si rivela come la potenza fondamentale del nichilismo europeo. Altro non è il nichilismo, di cui riconosciamo oggi nuovamente il volto oscuro dopo la lunga stagione delle fedi politiche, se non l’equivalenza delle verità e delle fedi stesse: nessuna condotta, se si adegua alle leggi della rappresentazione mediatica, può scampare a tale equivalenza, ed è proprio in questo senso che è possibile comprendere la lungimiranza di quei movimenti politici che, nati nel nuovo secolo, proprio a quelle leggi tentano di sottrarsi.

Nella sua progressiva ritrazione dalla disgrazie del mondo, apparentemente abbandonato, dopo secoli di cure mediche, militari e penali, al proprio destino come complesso di immagini e di corpi animali, la metafisica capitalistica ha generato in realtà una materia bruta che potrebbe un giorno sopraffarla, esattamente come nella sua volontà di potenza ha sempre generato un resto, una materia “impolitica” cui ogni spirito di rivolta ha sempre tentato, di fondo, di dare nome (“proletari” è stato per molto tempo uno di questi nomi): questa materia si è di fondo sempre configurata come lo spirito “notturno”, aleggiante nella storia delle lotte che ogni potere ha combattuto per la sua definitiva affermazione. Ora, nella nostra stessa incapacità di “darci un nome” e di dire “in nome di chi” noi parliamo, questa materia bruta appare oggi, dove ogni forma di condotta sembra poter essere sperimentata impunemente, come l’informe per eccellenza dell’anonimato. Chi è che quella figura di anonimo viaggiatore che cova una resistenza contro i soffocanti e assurdi controlli aeroportuali? E chi è quella figura che passa sotto una delle migliaie di telecamere disposte ormai negli spazi pubblici, un tempo comuni, delle nostre città? E di chi era il corpo di quel migrante ritrovato nel mare di Lampedusa?

Quando lo stesso nome che è stato dato al nostro volto e al nostro corpo, ovvero alla nostra biografia, in presenza dello Stato, è stato sacrificato ad una pura logica della legittimazione e dell’equivalenza pubblicitaria, la sottrazione del nostro nome alla visibilità delle liturgie costituisce un essenziale gesto di “controcondotta”, di sottrazione cioè all’asservimento volontario con cui abbiamo fino a quel momento convissuto: proprio perché il nostro nome è il dato delle nostre vite più evidentemente sacrificato alle liturgie del potere, è sulla verità e sulla capacità di nominarci diversamente che si combatte una prima battaglia contro quelle stesse liturgie.

Al contrario, dove più aspiriamo a riconoscerci nel nome che ci viene dato, a riconoscerci in una comunità che ci rende potenzialmente salvi, tanto più la nostra vita diventa, per il potere, del tutto inoffensiva.

 

7. Resti di niente. Nella sua massima capacità di espansione, il governo del capitalismo si è manifestato quindi come potenza in grado di “far equivalere”, di rendere tutto merce e, per parafrasare la logica freudiana del represso, resto, deiezione che più non ci riguarda: merda. Potenzialmente, così, ogni forma di condotta sulla bilancia delle relazioni interpersonali, sulla bilancia politica ogni forma di “agire in comunità”, ha finito per soccombere alla logica di un’equivalenza di verità: le stesse forze che hanno preteso di rappresentarsi come anti-statuali hanno ben presto dovuto soccombere, nella condivisione essenziale dei rituali di autorappresentazione del potere,  alla progressiva burocratizzazione dei loro apparati, ed è sotto i nostri occhi come sia proprio attraverso questo processo che lo Stato le ha digerite e infine espulse. Di fronte ad una mutazione delle forme di potere, non si è avuta una corrispondente dinamica realmente “sovversiva” di agire anti-statuale: le comunità politiche sono infine ricadute, nel proprio bisogno di riconoscimento trascendente, nelle stesse rappresentazioni mitologico-comunitarie gradite allo Stato, e non vi è comunità politica che, nel richiedere un riconoscimento della propria esistenza da parte dello Stato, non sia di fondo ricaduta nello stesso circolo di legittimazione della parola statuale.

 

8. Diletti da tecnici. Uno dei maggiori divertimenti dei bambini parigini di passaggio sulla prima linea interamente automatizzata del metro, la 14, è quello di osservare dal vetro della carrozza di testa le luci delle gallerie scorrere davanti ai loro occhi. Forse vi è ancora traccia, in questo divertimento, di quella vertigine sadica che devono aver provato i primi uomini nel guidare un animale sottoposto alla propria volontà: ma non dissimile deve essere stata, da questo punto di vista, la vertigine degli uomini di potere assurti negli anni alla testa della magnifica bestia statale capitalistica.

La ridefinizione pubblica del potere come “economia delle tecniche di condotta” ridefinisce appunto il ruolo dello Stato, che aspira adesso a manifestarsi come puro ingranaggio tecnico-burocratico privo di qualunque responsabilità politica: l’attesa previsione di Weber si è infine avverata in termini che fino a qualche decennio fa sarebbero stati impensabili. Davvero lo Stato aspira a manifestarsi come la griglia della “gabbia d’acciaio” capitalistica, ovvero come un regime di diffusa irresponsabilità nel quale la capacità dei pochi tecnici chiamati a oliare i difficili meccanismi è proporzionale semplicemente al segmento di macchina loro affidato.

 

9. Politica dell’informe. La definizione di un paradigma di condotta continuamente orientabile, a seconda dei voleri del “dio” che ci possiamo consentire di incensare nel gran mercato del capitalismo, costituisce la norma principale del nuovo ordine: l’economico non ha bisogno né di epistemologie né di rigidi ordini comunitari. Gli uni e gli altri devono essere a loro volta orientabili, e in questo senso emanazioni del desiderio imperiale. Le forme dello spettacolo non sono più necessarie all’ordine capitalistico: esso, potremmo dire, non ha più bisogno di forme, bensì di in-formità.

L’in-forme appare nella storia del pensiero politico moderno solo in quanto “eccezione” e il lungo dibattito sulla teologia politica ci ha fatto capire per tempo come proprio il confronto con questa informità sia la caratteristica che il potere secolarizzato condivide con quello della teologia politica della societas christiana. Ma mentre la società dello spettacolo evocava delle eccezioni per nascondere o per ribadire la necessità di una nuova forma, ora l’eccezione diventa la condizione stabile del potere ed è però pubblicamente riconosciuta come tale, come parola di governo: non è possibile governo che nell’eccezione, e una metafisica dell’eccezione, della “crisi”, è pertanto addirittura desiderabile, perché ci consente di comprendere lì dove abbiamo deviato dal conforme, il nostro peccato. La crisi economica di una società assume in questo senso l’aspetto davvero “controriformistico” di un debito personale: entrambi i “debiti” possono essere tradotti in “colpa” e viceversa. Essi forniscono in tal modo legittimazione sociale e psicologica ad una certa chiave del potere: una metodica di vita orientata alla stabile eccezionalità della propria sopravvivenza si associa così ad una sistematizzazione dell’asservimento, garantito ovviamente a quegli stessi campi di forze che si incaricano di consentire e promuovere quella sopravvivenza.

 

10. Una teologia dell’usura. La Gloria del potere capitalistico manifesta dunque qui il proprio lato ambiguo: esso è sì equivalenza delle immagini prodotte a mezzo di immagini ed invito incessante all’iperproduzione di immagini di forme di vita anestetizzate, ma proprio questa transustanziazione della carne dell’esistenza nella “immagine di sé” continua a imporre un incessante sacrificio. Sacrificio di ogni aspetto della personalità e dell’esistenza che, se da un lato si manifesta come rigida liturgia della parola conforme, dall’altra si esplica come macchina di dolore e di soppressione irresponsabile delle esistenze. Tutto è in debito nel mondo, compreso il mondo stesso. Di contro, un immenso credito viene accumulato, ma tale credito si rivela metafisicamente insolvibile proprio come insolvibile è la potenza del Creato di fronte al suo Creatore.

Anche quando tutta la possibile produzione dovesse essere in atto, infatti, tale produzione non basterebbe a contenere il debito “divino” previsto dall’economia politica capitalistica: avremmo allora di fronte a noi l’immagine del non senso estremo delle azioni e delle liturgie a cui siamo stati vocati ogni qualvolta la nostra libertà ha dovuto contrattare con un potere che la asserviva. È stata questa probabilmente l’immagine teologica più cara a Marx e la sua intuizione del nichilismo intrinseco al capitalismo. Ma quanto Marx ha avuto la fortuna di non poter testimoniare è la “storia naturale della distruzione” (Sebald) che questa “dimostrazione” ha implicato nel ’900 ed implica nelle vite delle generazioni future.

 

11. Controcondotte e volontarie servitù. Compito della politica è oggi quello di manifestare, in qualunque modo, la vanità di questo rapporto debitorio sancito dall’economia politica e dalle liturgie dello Stato. La struttura fondamentale dell’acquiescenza volontaria al potere, come chiarito da La Boètie seguendo Machiavelli, rimane, quando si tenta di uscire “fuori” dalle relazioni di potere, del tutto inevasa. Ciò che il pensiero di Foucault ci consente di fare è allora di ripensare questa acquiescenza nei termini di una ridefinizione del concetto di potere: se il potere è dato da relazioni, è solo nel gioco libero di tali relazioni, che passa necessariamente attraverso l’orientamento delle nostre condotte, che si ha una qualche possibilità di resistenza.

Da questo punto di vista migliaia di condotte in-formi vengono inventate ogni giorno da milioni di uomini negli anonimi gesti quotidiani e l’angoscia estrema del governo capitalistico nella sua fase più avanzata attiene, come attiene ad ogni potere, alla perpetuazione essenziale del proprio riconoscimento. Rendere ogni no un sì, allora, ogni condotta alternativa un paradigma della propria essenza: in quanto potenza creatrice il capitalismo non può accettare che un pezzo di mondo sia sottratto alla propria creazione. Ma ciò che sottostà a tale creazione diventa per ciò stesso volontariamente servo.

 

12. Economia e libertà delle condotte. Al contrario di quanto è avvenuto in precedenza, l’immagine del potere contemporaneo come macchina individualizzante si configura oggi come quella di una “macchina da comunità”: nuovi e incessanti paradigmi di condotte, ovvero di orizzonti simbolici di orientamento dell’agire in comunità, vengono prodotti. L’immagine con cui il potere si manifesta è quello di un immane caleidoscopio, così come ha evidenziato David Lynch nei suoi film, o come appare nella tecnica combinatoria dell’informatica. La struttura di tale macchina economica appare così in linea con quella della sua tecnica: essa è economico / in-formatica. Nella sua ultima figura puramente tecnicizzata, lo Stato, nel suo destino similare a quello di ogni ogni altra comunità politica, appare in questo senso una particolare cinghia di trasmissione di una incessante produzione comunitaria di condotte di vita: ma nella rivelazione dello svuotamento essenziale del trono da cui emana il potere di tale economia non vi è altra possibilità di vittoria, per la politica degli anonimi, che manifestare l’esistenza di una economia ancora più generale. È questa economia generale – solare, avrebbe detto Bataille – che invoca il nome di libertà.

 

13. Un debole legame. Ritroviamo così la libertà, anche nella sua forma di ontologia politica, attraverso due immagini: quella di un dissolvimento anarchico delle strutture dell’ordine politico così come di quelle “scienze” che hanno preteso di determinarne gli assetti – è il “tumulto” evocato da Machiavelli – e, al tempo stesso, quella di una anarchia delle condotte di vita.

Rivelare la potenza costituente delle condotte, e dunque la libertà creatrice dei singoli, è il primo passo di qualunque pensiero politico che intenda riflettere oggi criticamente su ciò che è stato l’agire in comunità e su ciò che può significare, nel futuro, agire in comune.

Le controcondotte dei singoli possono però manifestare la propria politicità, aprendo in tal modo ad un orizzonte di conflitto compiutamente politico – proprio quando invece ogni conflitto vorrebbe essere bandito – solo laddove la libertà di ogni singolo a inventare i propri legami diventa disperato terreno di conquista: l’anarchia consustanziale dell’ordine politico si manifesta così come l’anarchia delle “procedure di verità”, in cui direzione e senso possono continuamente essere ripensate a partire dall’espressione dell’essenziale libertà della condotta.

Come Deleuze e Guattari avevano intuito riflettendo sui legami tra rizomi, strutture vegetali estranee ad ogni gerarchia, ogni esercizio di potere è riconducibile alla nervatura di un collegamento. Ora, la nostra libertà formale ci concede benevolmente di poter scegliere un “collegamento”, ma non di poter decidere sulla forma dei legami, sulle “famiglie di legami” di cui vogliamo far parte: gran parte del nostro diritto di famiglia, pur nelle sue aperture, finisce con il ricadere nelle vecchie formalizzazioni. Si tratta invece, più che di estendere i diritti acquisiti, di mettere in questione la legittimità che il diritto ha di governare le condotte individuali, e di mettere bocca, ad esempio, sullo stesso statuto giuridico delle comunità familiari.

L’economia delle condotte finisce col mimare, nel momento di più grave pericolo, l’apertura del possibile che è proprio della libertà: ma di mimesi si tratta. Ogni contrapposizione diventa equivalente e tutto diventa ugualmente possibile, fino a che il grido di un infante non tirerà troppo la corda: Ah le pouvoir – c’est tout ça?

 

14. Procedure dell’inventio. Ciò che ha sancito la presenza storica di un “agire in comunità” è stato quindi, in estrema istanza, in politica come in epistemologia, la possibilità affermativa di una decisione: “Si fa così e basta”, come scrive Aldo Giorgio Gargani.

 

15. Decidere. Il problema politico per eccellenza è allora quello di “chi” può assumersi la responsabilità di tale decisione, che vediamo adesso, meglio di Schmitt, come una responsabilità riguardante l’orientamento delle condotte di vita: il problema della sovranità moderna risiede in questo dispositivo che implica, innanzitutto, il riconoscimento di “condotte comuni”.

Ora, nella ripresentazione della propria istanza mitologica originaria, ogni comunità politica si presenta come un piccolo Stato nel quale una rigida liturgia non fa che ripetere la decisione originaria. Lo spazio di libero agire che si apre dunque di fronte al crollo di una comunità, questo respiro vertiginoso della politica che solo perché imponente si è potuto pensare come definitivo tramonto, non può che riproporre il problema: come “decidere” delle condotte comuni? La sovranità, possiamo quindi intendere, è un insieme di procedure storiche di riconoscimento dell’“agire in comunità”. Pensare il capitalismo come “sovranità” significa riconoscere a quest’ultimo termine una essenziale natura economica, dove appunto per “economica” intendiamo una natura atta ad orientare le condotte di vita: ogni forma politica non risiede allora, dal suo punto di vista, se non nel riconoscimento delle ombre di parentela che le condotte dei singoli manifestano nelle relazioni reciproche. Ma se nel momento di massimo pericolo è possibile scorgere una luce, proprio nell’angoscia del capitalismo di governare tali relazioni mettendo le loro immagini sullo stesso piano della loro carne si possono scorgere i piedi d’argilla delle forme di governo affidate alla finanza.

 

16. Anonimato e comunità. Se la “comunità che viene” ha assunto per un breve lasso di tempo la figura di “comunità di coloro i quali non hanno comunità”, davanti a noi vi è il bisogno di far fuoriuscire definitivamente la nostra libertà dell’agire in comune dalla riproducibilità tecnica delle forme di vita comunitarie: l’anonimato sovversivo delle condotte appare in questo senso il contrappeso cruciale dell’imposizione sacrale del nome – ed ogni nome è equivalente perché ogni nome può entrare nel novero dei santi.

 

17. Il sacro del nome. Il “nome” appare in questo senso legato alla mistica comunitaria della politica così come delle repubbliche letterarie, esattamente come l’anonimato appare legato alla logica an-archica dei tumulti. Una delle forme di ascesi decisiva per rimettere in gioco un potere che, in quanto potere di produzione anonima di condotte equivalenti, si vuole per ciò stesso anonimo, è a sua volta un’ascesi dell’anonimato, che non significa in questo senso una cristallizzazione rigida e a sua volta sacrificale di una rinuncia, ma al contrario una manifestazione dell’effettiva capacità di ri-creazione delle proprie stesse condotte.

Non si tratta di rinunciare all’io ma alla verità stabile di questo io, alla liturgizzazione della sua salvezza personale. Non è un caso che laddove si è manifestata una forma di sovversione efficace, nelle piazze così come in rete, questa sovversione si sia data negli ultimi anni in termini di anonimato anarchico.

Ma proprio questa libertà dell’agire è ciò che risulta più difficile oggi per la politica come, per altri versi, per la filosofia. Scrivere la propria vita implica oggi più che in altre epoche la difficile disciplina della scrittura al buio, senza firma. Ma si tratta in questo, ancor più, di decostruire le forme di responsabilità proprie del moderno: “si” è responsabili, insieme, della controcondotta di qualcuno che non conosciamo.

 

18. Anonima anarchia. Ora, se la lunga storia delle comunità politiche moderne si rivela come la storia delle forme dell’agire in comunità, la frattura di questa storia implica la possibilità di un riconoscimento delle condotte in comune in termini diversi da quelli mitologici impliciti in ogni comunità. L’anonimato e la politica senza fondamento di cui parla Machiavelli, rappresentandoli come tumulti, all’origine della modernità, implicano una forma di insorgenza inesauribile che solo nei termini di una an-archia delle condotte, di un riconoscimento cioè della libertà ontologica dell’agire, e di una forma democratica priva di fondamento mitologico, costitutivamente instabile, inquieta, possono essere riconosciuti nella loro somiglianza con i tumulti del nostro presente, quelli cioè delle piazze senza guida, ma non senza voce, che stiamo imparando a conoscere.

 

19. La congiura che viene. Ma questo “vacuum” del politico può essere sopportato e reso a sua volta potenza politica solo lungo la scia di quel repubblicanesimo che ha saputo manifestarsi, all’occorrenza, come setta e congiura. Ora, è possibile, in questo senso, una “congiura senza comunità”? Si tratta per noi di avvicinare questo luogo pericoloso del politico, parente dell’anonimato anarchico, nei termini imposti da un tempo in cui l’economico rovescia i termini con cui si è definita la forma di governo che è stata la nostra fino a ieri: dove erano le forme del politico a mantenere occulto il templum dell’economia, sono adesso le forme dell’economia ad apparire, nella loro forza politica, sulla scena. Il politico appare in questo senso, per assurdo, finalmente libero. Materia bruta. Manifestare tale libertà è ora il compito essenziale  della tradizione senza più nome degli oppressi. Strappare dai muri e dagli schermi le figure dei santi, fossero quelli che abbiamo venerato fino a ieri, fossimo noi stessi, pensare il contrario del “battesimo”: come i “marrani” spagnoli, che portavano inscritta in nient’altro che nella propria fedeltà all’agire libero la propria identità, e riconoscevano da un gesto gli sconosciuti compagni di strada, e gli stessi segni della propria provenienza, si tratta oggi di rinunciare alle liturgie comunitarie e di sottoporre a critica la forma stessa della liturgia come manifestazione di salvezza.

È il cittadino che muore, così come muoiono le sue comunità: non per questo muore la politica. Dismettere le segnature comunitarie che ci vengono trasmesse da un altro tempo è allora a questo punto il primo, decisivo passo con cui apprendere le anonime segnature che ci “segnano” dalla parte dei tumulti: intervenire, come fanno gli anonimi informatici di “Anonymous”, e come hanno fatto gli studenti a piazza San Giovanni, o gli indignados in Spagna, come faranno sempre di più, da oggi in avanti, gli “oppressi”, non è inscriversi in una comunità e neanche sperare un giorno di poterlo fare, ma stare lì dove qualcosa accade. Imparare a congiurare in silenzio, congiurare contro la stabilità delle forme, congiurare ogni giorno, ogni qualvolta ce ne si presenta l’opportunità, per liberare la verità dell’agire in comune dal governo di un debito divino indifferente al mondo. Fare delle comuni insensate povertà di fronte alla sopravvivenza la potenza dei “noi” che agiscono senza doversi prima riconoscere.